Alberto Melloni
Il secondo miglio
Fondazione Bruno Kessler
Special editions
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Questa pubblicazione contiene il testo della Prolusione tenuta
dal prof. Alberto Melloni il 2 dicembre 2016 presso la Fonda-
zione Bruno Kessler, in occasione dell’inaugurazione dell’anno
accademico 2016-2017 del Corso Superiore di Scienze Religiose
di Trento.
Trento, dicembre 2016
Alberto Melloni
Il secondo miglio
e
il
€ PRESS
FONDAZIONE
BRUNO KESSLER
Fondazione Bruno Kessler
www.fbk.eu
Progetto editoriale e redazione
Editoria FBK
In copertina: Particolare dell’affresco realizzato da Riccardo Schweizer nel
1986 lungo il muro del giardino interno della sede FBK di via Santa Croce
77, a Trento.
ISBN 978-88-98989-27-7
e-ISBN 978-88-98989-28-0
copyright © 2016 by Fondazione Bruno Kessler, Trento. Tutti i diritti sono
riservati.
Il secondo miglio
Alberto Melloni
Le parole e il significato, le ragioni e la ragione, il cammino e
la meta, le cause e gli effetti, l’autentico e l’abusivo: nei primi
lustri del secolo XXI, tutto ciò che riguarda la relazione tra le
fedi e la loro intensità sembra muoversi, si slabbra, interpella
chi ha l'impressione di trovarsi davanti a endiadi diventate
dicotomie, a correlazioni trasformate in contrasti dall'assenza
di punti unificanti.
Le appartenenze non determinano più alcuna univocità: il
supposto idem sentire delle fedi subisce i contraccolpi della
lacerazione e dentro le differenze confessionali maturano
conflitti insanabili, accuse di tradimento, polarizzazioni che
non risparmiano nessuno.
I saperi non sono più luoghi unificanti: le terre e i mari che
hanno letto Aristotele oggi sono percorsi da una serie di
scienze che soffrono tutte di un paradosso intrinseco al pro-
gresso della ricerca. Apparsa come antagonista delle letture
unificanti del mondo — teologiche solo in attesa di diventare
teocratiche —, la scienza ha progredito per specializzazioni,
sempre più acuminate, sottili, incomunicabili: capaci ciascuna
di produrre un volume di conoscenza che mette il pusillus
homo davanti a big data di difficilissima dominazione; il che
rende gli scienziati incapaci di «discorso» e inermi davanti alle
grandi folate dell’ideologia, della credulità. E se lo scienziato
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che passa i semestri con un gene replicato, nulla può davanti
a un salutismo fai-da-te non alieno da sensibilità esotiche, così
l'esperienza religiosa e le concezioni che la regolano trovano
il loro punto di sintesi in una grammatica intellettuale, si
specchiano in quella stregoneria sanguinaria che possiede un
universo di fede e lo riduce a piedistallo di un ego assassino.
Mentre lo sbriciolarsi dei linguaggi e delle categorie produce
definizioni di sconcertante pochezza, l’imprevisto sorge dietro
immense sofferenze e sfida i pensanti. In questo paesaggio
di fedi in movimento — che fanno credere agli xenofobi e agli
ingenui di essere davanti a qualcosa di «nuovo» — su questa
frontiera del religioso in divenire vediamo fiorire l’impensabile.
Il papa di Roma va a commemorare la riforma di Lutero: e per
quanto con modi spicci riduca il conflitto a fatticità storico-
politica, riconosce un dono di Dio, là dove altri vedevano un
cinghiale ringhioso. L’antisemitismo cristiano, incurato per
secoli e diventato supersessionismo teologico, inerte o corri-
vo quando s'è trovato di fronte il razzismo fascista e nazista,
ha compiuto una teshuvà senza precedenti: ha ceduto il
passo a un desiderio di comprensione che ha nella perennità
dell’Alleanza la propria chiave di volta, aprendo per la stessa
autocomprensione delle chiese una stagione di cui abbiamo
visto i primi timidi minuti. Quindici milioni di musulmani hanno
reso nuovamente visibile la fede coranica in un’Europa che,
per quei secoli nei quali ha avuto un baricentro mediterraneo,
di questa prossimità conflittuale s'è nutrita, in una logica di
reciproca «pirateria» intellettuale: musulmani fuggiti, spesso
sottoproletari musulmani, che però hanno trovato nei diritti
e nella pace di questo continente di colonialisti impenitenti
una patria. E per andare un po’ oltre si pensi a cosa accade
in Birmania, dove i superficiali paradigmi hollywoodiani di
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una tibetologia modaiola vengono smentiti e dove le mino-
ranze islamiche esposte alla violenza buddista sono difese
da piccolissime chiese minoritarie, e in primo luogo da una
microscopica chiesa latina nata dai missionari della Brianza.
O si pensi a cosa è accaduto in Marocco, dove il successore
del profeta e guida della Umma si presenta e vuole essere un
attore chiave dei processi di dialogo in corso rivendicando a
se stesso il diritto/dovere di smentire come jihad l’azione di
gruppuscoli pericolosi perché infimi.
Eppure, come a fare da contrappeso, è evidente che convivenze
secolari sono sprofondate in odii selvaggi e che antagonismi
atavici, che sembravano cristallizzati in pose di rivalità innocue,
riesplodono con una virulenza inusitata, e fanno della guerra
la risposta meccanicamente ripetuta davanti a errori e orrori
diversi. Questa Terza guerra mondiale a capitoli, l’appendice
calda della Guerra fredda, batte territori vastissimi, a cadenze
fisse: dai Balcani al Caucaso, sul confine fra chiesa latina, gre-
ca e russa nelle piane dell'Ucraina, nel nord della Nigeria, in
Mesopotamia l'Occidente miope e rozzo dei Bush ha riaperto
la fitna e ha reso purulenta una ferita che si rimarginerà «in
pochissimi secoli», come dice un saggio persiano, ma che in-
tanto abita la vita di intere generazioni dai tempi della «guerra
imposta» fino al Daesh.
In questo contesto lacerato da una violenza che, dopo aver
percosso la Cecenia, la Mesopotamia, il Maghreb, da qualche
anno colpisce anche l'Europa, siamo esitanti fra il ricorso a
semplificazioni rassicuranti e la ricerca di vocabolari adeguati.
AI mercato della banalità, che è il più economico del mondo,
si comprano formule senza futuro e senza senso: quella che
dipinge un islam «intrinsecamente violento» dimenticando la
rotta di fuga degli ebrei vittime della cattolicissima regina; quella
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di chi ci dice che «le religioni sono tutte pacifiche», come se la
storia di Caino non parlasse di un culto; quella di chi inventa
un «noi», fatto di presepi e xenofobie, per difendersi da un
«loro» grande come il mondo.
Questo comprensibile desiderio di prendere le scorciatoie vuol
fare a meno delle falcate della storia e non riesce a capire il
contesto che ci annovera fra i vivi e non fra gli uccisi. Nel 2018
celebreremo il quarto centenario della guerra dei Trent'anni,
guerra più letale di una pestilenza, dalla quale siamo usciti
con una soluzione sbagliata — il cuius regio eius et religio
della pace di Vestfalia — ma che ci ha portato a un cessate il
fuoco non grazie a un secolarismo ante litteram, ma grazie alla
determinazione con cui anime pie e credenti hanno scoperto
che pensare i diritti etsi Deus non daretur era una forma di
rispetto dovuta all’Eterno: e hanno permesso ai cristiani di
pensarsi in una fraternità che ha ancora lacune e vuoti, ma
ha portato a un’unità almeno di desiderio, e ai non cristiani
di poter fare appello a una cultura dei diritti e delle libertà,
offerta a tutti come un riparo in questa età della disinterme-
diazione.
4.
La tecnica della comunicazione ha infatti saputo dare lo
scettro politico e culturale a emozioni individuali e collettive,
che a essa si affidano senza pudore e senza rimpianti, per
l'età del dubbio, delle ragioni e dei perché. La cultura della
disintermediazione fa perciò credere all'ultimo smartphone,
e all’homo nevroticus che ne costituisce la periferica umana,
di poter «interagire» con il reale, di aver cancellato il tempo
riempiendolo all'inverosimile di operazioni di I/O, e dunque
di avere così un rapporto «diretto» con il potere; e la stessa
cultura fa credere ai figuranti che il potere mette a potere di
essere in grado di manipolare un'opinione pubblica, mentre
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la realtà è che essi diventano a loro volta i compulsivi accu-
mulatori di emozioni e irrazionalità.
In una società affetta da un analfabetismo religioso primario
o di ritorno come quella occidentale, in quel panorama che si
slabbra e nella contraddittorietà di segnali, l’unica emozione
parlante diventa così la paura. La paura dell’altro, della diver-
sità, del troppo: una paura che si accumula e che non trova
argine nel sapere e si avvicina alle decisioni. AI punto che la
distanza fra le paure e le decisioni si accorcia così tanto da a
far sì che siano le paure a prendere le decisioni e che tutte
le decisioni generino paure.
E le paure generano linguaggi sbavati, ma capaci di diventare ger-
go. È il caso di parole come «radicalismo» e «radicalizzazione»,
oggi usate per indicare quelle frange militarizzate che perpetrano
i loro delitti in nome di un islam di cui conoscono solo gli slogan
forniti dalla pornografia religiosa del web e dalla predicazione
prezzolata. Com'è accaduto che chiamiamo «radicali» i sanguinari
e «moderati» i credenti? Oserebbe qualcuno complimentarsi
con papa Francesco come un cristiano moderato?
Eppure questo gergo ha attecchito: ha imprigionato la discus-
sione dell’alternativa fra la tesi di Olivier Roy (il terrorismo
jihadista che ha percosso l’Europa è la islamizzazione di un
nichilismo che esiste nella peggio gioventù emarginata nei
tunnel della solitudine) e la tesi di Gilles Kepel (il terrorismo
è un islam vero che ha subito dal 1980 in qua un processo di
risemantizzazione del jihad). E ha spinto la discussione in un
vicolo cieco securitario, che produce come effetti collaterali
proprio i processi di emarginazione e di incubazione della
violenza che voleva emarginare.
Così, invece di darci delle spiegazioni costruiamo delle sem-
plici ri-descrizioni del reale, che documentano il desiderio di
esorcizzare l’insopportabile ritorno del delitto compiuto in
nome di un Dio, che anziché esser morto, rivive nell’assassino.
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Davanti a questo ribollire oscuro, le autorità delle comunità di
fede sono state chiamate a una assunzione di responsabilità:
e non si sono sottratte. Si sono impegnate a negare ogni le-
gittimità teologica agli assassini, a sconfessare il terrorismo di
matrice religiosa con parole forti, sovente sincere, declamate
in modo convincente e capaci di incrementare il mercato del
dialogo, una preghiera intensa e una ritualità dell’incontro.
Si accumulano gesti memorabili di capi religiosi compiuti a
favore di una telecamera, cresce il numero delle candeline
accese insieme, si moltiplicano pudichi abbracci fatalmente
maschili e dichiarazioni di impegni che hanno forse contrastato
la speranza jihadista di una sollevazione delle masse arabe
e/o musulmane, ma che non hanno prodotto un solo oggetto
intellettualmente rilevante.
Quello che doveva e poteva essere il primo miglio della lunga
strada dell'incontro pacifico fra uomini e donne di diversa o
mutevole appartenenza, fede, ideologia, nazione, è diventato
il solo miglio in cui ci si muove, percorso e ripercorso come
un circolo non vizioso, ma chiuso.
Quel primo miglio ha preso forma fra gli anni Trenta e gli
anni Ottanta del secolo scorso grazie all’audace decisione
del papato, presa prima della caduta del Muro di Berlino, di
entrare nel terreno della preghiera per la pace, con la ceri-
monia comune ad Assisi, la città di quel Francesco che aveva
dismesso il principio della crociata. Come aveva fatto Pio XI
già nei primi anni Trenta immaginando un rapporto fra coloro
che «credono almeno in Dio», così Giovanni Paolo Il pensa-
va con la preghiera di Assisi di mostrare che l'apporto delle
fedi alla pace non veniva portando ciascuna di esse fuori da
Il secondo miglio 15
se stessa e parcheggiandone la responsabilità in un terreno
neutrale di diritti senza passato: al contrario, usando proprio
l’atto qualificante e decentrante dell’esperienza religiosa — la
preghiera, appunto — le fedi venivano misurate sulla loro ca-
pacità di trovare dentro di sé il contributo alla ricerca della
pace che percorreva l'umanità. La novità non stava, infatti, nel
riconoscimento di un identico destinatario della preghiera, ma
nel credito dato alla sincerità dell’orante.
Poco dopo quella preghiera un claim politologico tutt'altro che
nuovo sarebbe apparso sulla scena della comprensione del
fatto religioso. Già nel 1936, infatti, la Settimana sociale dei
cattolici francesi, che seguiva di pochi anni i discorsi di Pio XI
a cui mi riferivo, aveva preso come proprio tema «lo scontro
delle civilizzazioni»: e a pochi anni di distanza dall’incontro di
Assisi fra le religioni del 1986 un importante politologo sta-
tunitense teorizzava la possibilità e la dinamica di un nuovo
Clash of Civilizations. Samuel P. Huntington con il suo saggio e
il suo libro — lo si ricorderà — voleva descrivere non un conflitto
esistente o auspicato, ma quello posto sulla strada che stava
portando il mondo dalla fine della Guerra fredda al fatale attrito
fra Stati Uniti e Cina, e che egli collocava prima della metà del
secolo XXI. Tappa intermedia di questo ineluttabile conflitto
per l'egemonia globale sarebbe stato, secondo Huntington,
il definirsi di grandi zolle geopolitiche fra «civilizzazioni»: al
loro interno le antiche religioni date per disperse nell’età della
secolarizzazione e della modernità avrebbero di nuovo avuto
un effetto identitario catalizzatore e trovato nuovi equilibri (ad
esempio la solidarietà fra monoteismi abramitici). Anche se la
prospettiva dei conflitti interni a universi religiosi era solo la
premessa di una vera guerra sino-americana, quel volume e
quel claim sono stati letti come la profezia che si autoavvera di
uno scontro fra ebraismo, cristianesimo e islam. Poco serviva
ricordare che ciascuna delle tre grandi famiglie abramitiche
ha al proprio interno tali e tante differenze e la memoria di
antagonismi talmente aspri o sanguinosi da rendere generica
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la definizione al singolare di ciascuno di quei soggetti: il senso
di una minaccia reciproca ha reclutato menti e corpi.
Quel che c’era stato in mezzo, fra Assisi e Huntington, erano
le conseguenze drammatiche delle due guerre del 1980 —
quella chiesta agli iracheni contro l’Iran e quella finanziata
ai talebani contro i sovietici in Afghanistan. Fra il 1986 e il
1993 c'è infatti il ritorno dei miliziani algerini dalla guerra in
Afghanistan e lo scoppio di una sanguinosa guerra civile che
ha visto cadere a decine di migliaia sunniti ed ex musulmani
inermi; c'è l'invasione irachena del Kuwait a scopo risarcitorio
e la decisione della coalizione internazionale di entrare nel
quadrante mesopotamico, senza interrogarsi su conseguenze
che non erano invisibili a chi voleva vederle.
Uno che le vuole vedere è Giuseppe Dossetti, un anziano mo-
naco cristiano vissuto solo una ventina d’anni in Medioriente,
che nell'ottobre del 1990 manda alla rivista «Il Regno — Attua-
lità» (Qui la chiesa scomparirà, in «Il Regno - Attualità», 18,
1990, p. 537) una sua diagnosi che sembra la telecronaca dei
venticinque anni successivi. Ne ritaglio poche righe:
«Può essere anche antipatico, ma in questo caso Saddam Hussein può
sostenere validamente che l’unica ragione per cui viene attaccato è
il petrolio. Finora il petrolio è stato rapinato a man bassa dagli occi-
dentali, attraverso la complicità di alcuni principotti che, pur di avere
assicurata per loro stessi e per i loro ristrettissimi clan familiari una
ricchezza da nababbi, lasciano rapinare la loro terra e il loro popolo.
Questo è un dato oggettivo. Unico risvolto positivo della vicenda:
questi fatti entreranno sempre più nella consapevolezza politica dei
popoli. Di questi popoli anzitutto, ma anche di molti altri popoli
asiatici e africani, con la conseguenza pressoché inevitabile di portare
tumultuose reazioni in un vasto ambito di stati, più o meno diretta-
mente coinvolti; reazioni che nessuno sarà più in grado di dominare.
Il secondo miglio 17
E questo non solo in tutti i paesi arabi, dalla Palestina allo Yemen,
ma anche in Turchia, la cui situazione diventa sempre più difficile,
in Egitto, dove le ripercussioni sono inevitabili, e negli altri paesi del
Maghreb, aggravando crisi già in atto come quella del Sudan e di altri
paesi africani. Tutto questo difficilmente non si estenderà al Pakistan
e alle repubbliche sovietiche musulmane.
3. Se ci sarà la guerra, i rivolgimenti più grandi si avranno nell’Arabia
Saudita stessa, dove non è più possibile che la situazione ritorni
come prima.
4. Tutto questo è sotto il segno di un sentimento generale di sdegno
e di ribellione. Condiviso da tutti, anche dai più moderati, esso è
contro l'occidente e, soprattutto, contro l'America, poiché è ormai
evidente che gli americani sono consapevoli di essere e di voler
essere gli unici padroni del mondo ...
6. L’islamismo radicale aveva bisogno di questo e ne trarrà vantaggio.
Anche se Saddam Hussein fosse eliminato, l'occidente si troverà di
fronte un islamismo radicale più difficile da combattere e ideologica-
mente più inestirpabile, sia nei paesi musulmani che nell'Europa stessa.
7. Vi saranno conseguenze evidentissime per la chiesa. C'è letteral-
mente pericolo dell’estinzione della chiesa nei territori palestinesi e
giordani e in quel pochissimo di chiesa che poteva esserci negli altri
territori di Arabia; una chiesa, cioè, ridotta a vivere all’interno degli
edifici di culto.
8. Il fatto che la prepotenza americana abbia costretto tutti i paesi,
ormai vassalli, ad associarsi all'impresa, ha dato alla medesima un
marchio di universalità che rievoca per tutto il mondo orientale la
qualifica e il ricordo delle crociate, con tutto quello che ne segue:
il ricordo degli eccidi e dell’intolleranza. Ma questo ricordo suscita
anche nei musulmani la bellissima ed eccitante speranza che il trionfo
degli occidentali sia effimero, come è stato effimero quello dei cro-
ciati. Costantinopoli, saccheggiata e bruciata nella quarta crociata del
1204, sarà come un’ombra sinistra costantemente evocata a tutta la
Siria, all'Egitto stesso e poi a tutto il resto dell’Africa. Tutto questo
riaccenderà l’intolleranza già presente contro i cristiani nell’alto Egitto».
18 Alberto Melloni
8.
x
Così che l’attacco all'America dell’11 settembre 2001 non è
apparsa una conseguenza, ma una premessa: e la formula del
«clash of civilizations» è apparsa perfetta — soprattutto alle
formazioni jihadiste — per descrivere la lotta fra coloro che
dentro le diverse famiglie spirituali dell'islam hanno tentato una
guerra «purificatrice» così simile nel suo impianto ideologico
alla cultura interventista dell'Europa prima del 1914. Il sogno
dell’insurrezione delle masse arabe svegliate dal terrorismo
antiamericano è fallito e s'è volto contro l’Europa: dove s'è
cercato di resistere all’idea di un lento ritorno al bellum per-
petuum teorizzato da Francisco de Vitoria mezzo millennio fa.
Ma non si è andati oltre il primo miglio: ripetuto con pathos,
sperando di educare l'opinione pubblica europea e non solo
a una possibilità di fraternità. Anche a rischio di trasformare
l’autorità in testimonial, di codificare un politically correct che
depreca la guerra santa come se il terrorismo ne fosse l’unico
esempio. Anche a rischio di esibire una convivialità simile a
quella che usano i leader politici recitando confidenze ine-
sistenti e opportunistiche. Anche a rischio di dover fondare
quel tesoro di dialogo sulla programmatica astensione da ogni
riflessione critica sul valore concettuale di quei gesti.
Le categorie a cui si è ricorso nel primo miglio non sono state
vagliate criticamente: ma adottate senza farsi le domande
più semplici. Davvero il termine «dialogo» dice ciò che chi lo
pratica sta cercando? E ha un significato univoco per chi vi
ricorre? La coabitazione e l’incontro su cosa posano in termini
filosofici, psicologici e teologici? Lo spazio e il peso della storia
fa parte del vasto regno della memoria o di quello dell’oblio?
È appropriata la definizione di «inter-religioso» per ciò di cui
si parla? E quando inter-religiosa è la vita di un individuo o
di un gruppo che ha mutato di appartenenza? E le differenze
interne possono o non debbono essere livellate dal discorso
pubblico sulle libertà religiose?
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Tali questioni, sono state accantonate per un buon motivo:
per riuscire cioè a percorrere più spesso e in comitive più nu-
merose il primo miglio del dialogo. Per moltiplicare l'impegno
di alleanza e di amicizia fra popoli, culture, fedi, per utilizzare
strumenti un po’ indistinti ma sempre più famigliari, partendo
dal postulato che Andrea Riccardi riassumeva dicendo che in
un mondo in cui ciascuno poteva e può compiere atti di vio-
lenza terroristica di stampo fondamentalista, tutti potevano e
possono compiere atti di dialogo, di incontro di pace.
Ma quel primo miglio che tanti hanno percorso e ripercorso,
sul quale molti ancora farebbero bene a incamminarsi, non
esclude che esista un secondo miglio dell’incontro fra alterità
religiose non riconciliate: un secondo miglio che non ha paura
di caricarsi il male con la forza inerme del cammino. Quello
evocato dal verso poetico contenuto negli ipsissima verba
di Matteo 5,41: kai 6ottg ce dyyapevoet piùov Èv, Ùnaye
uev'aùto SUo («e se uno ti costringerà a fare un miglio, tu
fanne con lui due»).
Un secondo miglio nel quale non sia la minaccia da sventare
o la paura da esorcizzare o il securitarismo da velare, ma la
ricerca nel proprio tesoro di ciò che spinge al rispetto della
fede dell’altro o del rifiuto di una fede propria o altrui nell’altro.
II secondo miglio dell'incontro e della pacificazione non si
contenta di una ricerca (kantiana) di principi comuni o di un
fondamento etico unitario soggiacente all’esperienza religiosa
come un dato apologetico che può servire a dimostrare la
forza di tutte le esperienze o peggio ancora la loro «utilità».
È il percorso nel quale ciascuno trova la propria risposta alla
propria domanda sull’altro a partire dal proprio patrimonio
spirituale, preso sul serio in ciò che lo ha connotato nella storia:
20 Alberto Melloni
è la porta stretta che va dal dialogo tra le fedi alla pace fra le
culture e che parte dal postulato che il patrimonio spirituale
storico di ciascuno ha ciò che serve.
10.
C'è un vecchio adagio fascista assai comune in Italia che ri-
guarda il cultural heritage: si dice che l’Italia ha il patrimonio
culturale più grande del mondo e che da questo derivereb-
bero obblighi, se non diritti, del tutto peculiari. Il concetto è
fascista non solo nella sua origine storica, ma anche nella sua
grammatica di fondo. Perché quel che costituisce obblighi e
diritti degli italiani davanti al cultural heritage italiano non
è la sua dimensione, ma il fatto di essere il «loro», l’unico
cultural heritage a loro disposizione e che perciò genera una
responsabilità specifica che discende da questo dato qualitativo
e non dal principio quantitativo.
A me pare che questo esempio possa valere anche per le
dottrine teologiche dell’altro: trovare posto per l’alterità reli-
giosa (e non-religiosa) all’interno della propria comprensione
del mistero e della teologia non è necessario perché l’altro
è grande o minaccioso o perseguitato. È necessario perché
una fede (o non-fede) che non abbia al suo interno il posto
dell’altro perde prima o poi se stessa: perché ogni altro è reso
tale dall'aver preso una decisione o più decisioni in materia
di fede, di credo, di adesione a norme di vita o di principi
etici, usando di una libertà e di un lume, negando i quali tutti
perdono libertà e lume.
Il secondo miglio, insomma, è quello che chiede ai partecipanti
ai dialoghi e alle cerimonie di incontro di andare oltre l’osten-
sione di una certa qual amicizia e reciproca simpatia, autentica
o affettata che sia. Per chiedersi dentro la propria tradizione
dove e come e quando si sono fondati teologicamente il ri-
sentimento e l’odio dell’altro; dove e quando e come si sono
Il secondo miglio 21
fondati il rispetto dell’altro e la determinazione morale che
preclude l’uccisione, l'indifferenza e la vendetta.
Di percorrere questo secondo miglio c'è più bisogno oggi di
ieri; il fatto di aver appreso a fare il primo miglio lo ha reso
più urgente; il fatto di aver fatto il primo miglio tante volte,
una necessità. Iniziarlo vuol dire prendere atto che il consenso
etico fra le culture non può venire da una ripetizione comune
del comando dell’Eterno, che risuona solo quando è accolto
come tale da chi lo sente provenire da lì: ma dall'adozione
comune di un «noi» capace di impegni, radicato nell’intui-
zione teologica che vede nella dignità dell’altro qualcosa di
irrinunciabile per sé.
11.
Il famoso «Dilemma di Bòckenfòrde» del 1964 ammoniva infatti
che il problema dello Stato liberale secolare non era solo di
vivere su premesse che non può garantire da sé con la formula
che tutti conoscono (E.-W. Bòckenfòrde, Staat, Gesellschaft,
Freiheit. Studien zur Staatstheorie und zum Verfassungsrecht,
Frankfurt a.M. 1976, p. 60):
«Der freiheitliche, sakularisierte Staat lebt von Voraussetzungen, die
er selbst nicht garantieren kann. Das ist das groBe Wagnis, das er,
um der Freiheit willen, eingegangen ist».
(«Lo Stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso
stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si
è assunto per amore della libertà»).
C'era una seconda parte, molto spesso ignorata, che vedeva
l’alimentarsi del libertarismo secolare nella coscienza credente
là dove essa è tale — coscienza e credente — e che fornisce
così l’«omogeneità della società».
22 Alberto Melloni
«Als freiheitlicher Staat kann er einerseits nur bestehen, wenn sich
die Freiheit, die er seinen Bùrgern gewahrt, von innen her, aus der
moralischen Substanz des einzelnen und der Homogenitàt der Gesell-
schaft, reguliert. Anderseits kann er diese inneren Regulierungskràfte
nicht von sich aus, das heiftt mit den Mitteln des Rechtszwanges und
autoritativen Gebots zu garantieren suchen, ohne seine Freiheitlichkeit
aufzugeben und — auf sàkularisierter Ebene — in jenen Totalitàtsan-
spruch zurickzufallen, aus dem er in den konfessionellen Burgerkrie-
gen herausgefihrt hat».
(«Da una parte, esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà
che garantisce ai suoi cittadini è disciplinata dall‘interno, vale a dire a
partire dalla sostanza morale del singolo individuo e dall'‘omogeneità
della società. D'altro canto, se lo Stato cerca di garantire da sé queste
forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica
e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ri-
cade — su un piano secolarizzato — in quella stessa istanza di totalità
da cui si era tolto con le guerre civili confessionali»).
II secondo miglio è quello che parte e va verso questa «Ho-
mogenitàt der Gesellschaft» che in latino si chiama sempli-
cemente societas.
Nel secondo miglio non c’è la risposta a chi chiede se non le
religioni in astratto, ma l’esperienza religiosa delle donne e
degli uomini concreti sa vivere un «noi» nel quale la diversità
fecondi il rispetto e il rispetto fecondi la diversità. Nel secondo
miglio c'è la domanda.
Alberto Melloni si è formato presso le Università di Bologna, Cornell
e Friburgo. Ha successivamente insegnato alle Università di Bologna e
Roma Tre ed è attualmente ordinario di Storia del cristianesimo presso
l’Università di Modena-Reggio Emilia. Titolare della cattedra Unesco
sul pluralismo religioso e la pace presso l’Università di Bologna, dirige
la Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna.
Finito di stampare per conto della Fondazione Bruno Kessler
nel mese di dicembre 2016 da Publistampa Arti grafiche
(Pergine Valsugana)
su carta Fedrigoni Tintoretto
=
‘ONDAZIONE
BRUNO KESSLER
press