LE SCIENZE
SCI ENTI ne
AMERICAN
numero 30
febbraio 1971
anno iv
volume vi
I reattori convertitori veloci
i reattori nucleari a neutroni veloci producono più combustibile di
quello che consumano e permettono cosi di ottenere energia elettrica a
basso costo senza pesare sulle risorse naturali e rispettando lambiente
di Glenn T. Seaborg e Justin L. Bloom
Uno dei pili gravi problemi socia-
li e tecnologici che la nostra
società dovrà risolvere nei pros-
simi decenni, è rappresentato dalla ne-
cessità di produrre enormi quantità di
energia elettrica senza modificare in
modo sensibile l'ambiente esterno. La
Federai Power Commission degli USA
ha valutato che nei prossimi 30 anni
le industrie americane utilizzeranno, ol-
tre agli attuali 300. altri 1600 milio-
ni di chilowatt di energia elettrica. L'o-
pinione pubblica si è sempre interes-
sata dei problemi concernenti l'habitat,
del miglioramento delle qualità e delle
caratteristiche di purezza dell'acqua e
dell'aria, ma ha sempre trascurato un
fattore estremamente importante: per
far funzionare i diversi tipi di impianti
di purificazione dell'aria e dell'acqua e
gli impianti di rigenerazione dei rifiuti
sarà necessaria in futuro una grande
quantità di energia elettrica.
Un problema dì uguale importanza
riguarda la razionale utilizzazione delle
riserve naturali di carbone, di petrolio
e di gas. Fra non molto queste mate-
rie prime saranno di gran lunga più
utili come fonti di prodotti organici
che non come fonti di energia. Inoltre
una riduzione del consumo di combu-
stibili organici comporterà una diminu-
zione proporzionale dell'inquinamento
atmosferico da parte dei residui di
combustione.
Questi problemi potrebbero essere ri-
solti convenientemente dai reattori nu-
cleari del tipo « breeder » (cioè conver-
ti tori o autojertiiizzaitti). Questi reat-
tori producono una quantità di combu-
stibile nucleare superiore a quella con-
sumata e permetteranno quindi di uti-
lizzare per migliaia di anni, come sor-
genti di energia a basso costo, le enor-
mi quantità di uranio e di torio conte-
nute in bassa concentrazione nelle roc-
ce terrestri. Inoltre, questi reattori non
daranno origine a inquinamenti atmo-
sferici. Alta luce dì queste considera-
zioni la US Atomic Energy Comrnis-
sion. l'industria nucleare e i produt-
tori di energia elettrica stanno com-
piendo un grosso sforzo per sviluppare
gli studi che renderanno possibile la
realizzazione, entro il 1984, di un reat-
tore capace di produrre energia elettri-
ca su scala commerciale.
T a conversione nucleare è ottenuta
utilizzando i neutroni liberati du-
rante il processo di fissione. La fissio-
ne di ogni atomo di combustibile nu-
cleare, come quella deli'uranio-235, li-
bera in media più di due neutroni ve-
loci (cioè di alta energia). Perché si
mantenga la reazione nucleare a cate-
na è necessario che uno di questi neu-
troni stimoli una successiva fissione; al-
cuni neutroni vanno persi, altri invece
vengono impiegati per generare nuovi
atomi fissili, cioè, per trasformare iso-
topi fenili di elementi pesanti in iso-
topi fissili. Gli elementi fertili utili
per questo tipo di reattore sono il to-
rio-232, che si trasforma in uranio-233,
e l*uranio-238. che si trasforma in plu-
toni 0-239 {si veda la figura nella pagi-
na seguente).
Come già detto, si parla di conver-
sione quando si produce una quantità
di materiale fìssile doppia di quella pre-
sente inizialmente nel reattore. Alla fi-
ne de! tempo di raddoppiamento, il
reattore avrà cosi prodotto una quan-
tità dì materiale fissile sufficiente per
autoalimentarsi e per alimentare un'al-
tro reattore identico. Un reattore con-
vertitore, per essere competitivo, do-
vrebbe avere un tempo di raddoppia-
mento compreso fra sette e dieci anni.
Si possono avere due diversi tipi di
conversione a seconda del materiale
sottoposto alla trasformazione nuclea-
re: la conversione termica, cioè a neu-
troni lenti, è più efficiente per la tra-
sformazione del torio-232 in uranio-
-233 (ciclo del torio): la conversione
veloce, cioè a neutroni a più alta ener-
gìa, è invece più efficace per la trasfor-
mazione dell'uranio-238 in plutonio-
-239 (ciclo dell'uranio). Nei reattori ve-
loci l'assorbimento non produttivo dì
neutroni è inferiore a quello dei reat-
tori termici e questo comporta per i
reattori veloci, un tempo di raddoppia-
mento minore.
L'idea di un reattore convertitore è
praticamente nata con quella delta rea-
zione nucleare a catena e subito dopo
la II guerra mondiale, vennero studiati
molti reattori convertitori, sia termici
che veloci. Un'importante caratteristica
che differenzia questi due tipi di reat-
tori riguarda il refrigerante impiegato
per scambiare il calore prodotto dalla
fissione con il sistema generatore di po-
tenza. Fra i refrigeranti proposti tro-
viamo l'acqua e i sali fusi, per i reat-
tori convertitori termici; i gas inerti
(quali l'elio), i metalli liquidi (il sodio
per esempio) e il vapore acqueo, per
quelli veloci.
Negli Stati Uniti e in molte altre na-
zioni si arrivò ben presto a concludere
che i reattori convertitori più conve-
nienti da realizzare erano quelli veloci
raffreddati con metalli fusi che i ricer-
catori hanno battezzato con la sigla
LMFBR (liquid-metal-cooled fast bree-
der reactor). Poiché la maggior parte
degli studi tende a sviluppare tale ti-
po di reattori, questo articolo è dedi-
cato principalmente ai reattori conver-
titori veloci a metallo liquido, anche se
alcune società industriali hanno allo
studio progetti che tendono a utilizza-
re come refrigerante per questo tipo di
reattori l'elio sotto pressione. Negli Sta-
ti Uniti sono attualmente in fase di svi-
luppo due reattori convertitori termici
operanti sul ciclo del torio: il reattore
A
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VITA MEDIA
24 MINUTI
ENERGIA
CINETICA
ISOTOPO
FERTILE
UNO O PIO NEUTRONI
Il ciclo dell'uranio in un reattore convertitore veloce si avva-
le per il suo sostentamento di neutroni veloci, cioè altamente
energetici. Nel ciclo un atomo di uranio-238 fertile assorbe un
neutrone e, dopo aver emesso una particella beta, si trasfor-
ma in nettunio, che a sua volta, in seguito a un secondo de-
cadimento beta, si trasforma in un elemento fìssile, il plutonio-
-239. Quando un atomo di plutonio-239 assorbe un neutrone, si
disintegra, liberando una certa quantità di energia, dei prodot-
ti di fissione ■' /' , / > i e almeno due neutroni. Uno dei due neu-
troni viene utilizzato per continuare la reazione a catena, men-
tre l'altro o gli altri sono disponibili per la trasformazione di
un isotopo fertile in uno fìssile, permettendo la conversione del
combustibile. In alcuni anni un reattore convertitore è in gra-
do di raddoppiare la quantità originaria di combustibile.
ENERGIA
CINETICA
Il ciclo del torio di un reattore convertitore è del tutto si-
mile a quello dell'uranio, a eccezione del fatto che questo ci-
clo trova migliore applicazione in un reattore termico, cioè in
un reattore che funzioni con neutroni termici, cioè con neu-
troni relativamente lenti. In questo ciclo l'isotopo fertile che si
trasforma prima in protoattinio e poi in uranio-233 è il tori 0-232.
10
ad acqua del Bettis Atomic Power La-
boratory e il reattore a sale fuso del-
l'Oak Ridge National Laboratory.
[ reattori convertitori veloci refrige-
rati a metallo liquido presentano al-
cune interessanti caratteristiche. Il
nocciolo (core) di un reattore velo-
ce può essere molto piccolo; per ra-
gioni economiche il reattore deve fun-
zionare con una densità di potenza su-
periore rispetto a quella dei reattori a
fissione convenzionali. Il volume attivo
del nocciolo, di soli pochi metri cubi,
è grosso modo proporzionale alla ener-
gia che è in grado di fornire e la sua
densità di potenza è circa dì 0,4 mega-
watt al litro.
Per dissipare il calore durante il fun-
zionamento e per mantenere il combu-
stibile a una temperatura accettabile, il
sodio impiegato come refrigerante de-
ve quindi fluire attraverso il nocciolo
con una velocità di decine di migliaia
di metri cubi all'ora. Per permettere la
circolazione del sodio il combustibile
viene suddiviso in migliaia di sottili
sbarre verticali, racchiuse in un conte-
nitore di acciaio o di altra lega resi-
stente alle alte temperature.
Il combustibile è utilizzato preferi-
bilmente come ossido o carburo sotto
forma dì ceramica, poiché questa è sta-
bile anche dopo lunghe esposizioni alle
radiazioni e alle alte temperature, pre-
senta una temperatura di fusione mol-
to elevata ed è relativamente inerte ai
metalli liquidi. I componenti del com-
bustibile nucleare possono essere l'ura-
nio-235 arricchito, il plutonio-239 o
una miscela dei due. Normalmente il
combustibile viene diluito con uranio-
-238, in modo che una parte della con-
versione avvenga nel nocciolo del reat-
tore. L'uranio-238, presente nel noccio-
lo del reattore, contribuisce anche al si-
stema di sicurezza, come spiegheremo
più avanti con maggiori dettagli. Per
ottenere la massima economia e le mi-
gliori prestazioni il combustibile deve
non solo poter sopportare irradiazioni
neutroniche molto superiori a quelle
che si hanno nei normali reattori nu-
cleari, ma il suo consumo fra due suc-
cessivi cicli deve essere almeno doppio
di quello che si ha nei reattori conven-
zionali. Per realizzare un simile com-
bustibile occorre sperimentare nei reat-
tori varie combinazioni di elementi poi-
ché proprio il raggiungimento di que-
ste caratteristiche condiziona il succes-
so del programma di ricerca sui reat-
tori convertitori.
Una seconda importante caratteristi-
ca dei reattori convertitori veloci è rap-
presentata dalla presenza del mantel-
lo che circonda ti nocciolo. Dato che
la maggior parte della conversione av-
II nocciolo e il mantello di un reattore convertitore veloce, nella foto si vede l'Expe-
rimental Breeder Reactor II, sono il centro vitale delle operazioni di conversione.
L'area esagonale scura è il nocciolo, nel quale gli elementi di combustibile vengono in-
trodotti o rimossi per mezzo del sistema meccanico visibile sulta destra della parte
centrale della foto. Il raggruppamento di sbarre che si vede a sinistra è collegato in-
vece alle barre di controllo del nocciolo. Attorno al nocciolo vi è la parte superiore
del mantello costituita da tubi con uranio-238 che verrà poi trasformato in plutonio.
L'Experimenlal Breeder Reactor li che opera sotto il controllo della US Atomic Energy
Commission presso la National Reactor Testing Station neLTIdaho. I componenti pri-
mari del reattore nucleare si trovano sotto il piano del pavimento in un involucro ci-
lindrico di circa 7 metri di diametro per 7 metri dì altezza, contenente anche il refri-
gerante sotto forma di sodio liquido. A destra nella foto si può vedere la torre che
contiene il sistema meccanico per il movimento delle barre di controllo per la ma-
nipolazione degli elementi di combustìbile all'interno del reattore. Questo reattore vie-
ne usalo per studi sui materiali impiegati nella costruzione dei reattori convertitori.
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FORI DI ACCESSO
AL COMBUSTIBILE
CHIUSURA
SUPERIORE
DELLO SCHERMO
STRUTTURA
DI SOSTEGNO
E SCHERMATURA
DI CEMENTO
CONDOTTA
DI USCITA
DEL SODIO
CONTENITORE
DEL COMBUSTIBILE
ESAURITO
PARETE
ISOLANTI
DEL CONTENITORE
DEL REATTORE
GUIDE
DELLE BARRE
DI CONTROLLO
STRUTTURA DI
SOSTEGNO DELLA
STRUMENTAZIONE
MANTELLO
ASSIALE
NOCCIOLO
ATTIVO
..MANTELLO
RADIALE
BARRE DI
CONTROLLO
CONTENITORE
DEL REATTORE
In questo disegno è rappresentato lo spaccalo di un reattore
convertitore veloce a metallo liquido che servirà come proto-
tipo e polrù produrre circa 500 megavvatt di potenza elettrica.
L'impianto commerciale, la cui entrata in (unzione è prevista
per il 1984, si invarrà degli sludi effettuati sii questo modello,
e potrà fornire una potenza di circa 1000 megawatt. Il proget-
to è del lipo a ricircolo. In esso, il reattore vero e proprio,
contenuto in un grosso involucro riempito di sodio liquido, è
separato dallo scambiatore di calore e dalle pompe alle quali
è collegato da condotti per il sodio die funge da refrigerante.
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viene in questa zona, il mantello è co-
stituito da uranio-238 racchiuso in tubi
di acciaio inossidabile. (Questo può es-
sere l'uranio impoverito dell'isotopo
235, ottenuto come residuo del proces-
so di arricchimento operato per pro-
durre uranio-235 da usare come com-
bustibile per i reattori nucleari: sono
attualmente disponibili grandi quantità
di questo uranio impoverito). Poiché
nel mantello avvengono un certo nu-
mero dì fissioni, esso deve essere raf-
freddato per mezzo di un flusso di so-
dio liquido. Il mantelli) ha però un'al-
tra importante funzione: esso non cat-
tura tutti i neutroni che lo raggiungo-
no, ma ne riflette gran parte verso il
nocciolo del reattore, aumentando cosi
l'economia ncutronica generale.
Il sodio impiegato come refrigeran-
te è anche un ottimo trasferitore di ca-
lore e ha inoltre il vantaggio di poter
essere impiegato a bassa pressione an-
che se esce dal reattore a una tempe-
ratura (superiore a 500 gradi centigra-
di) che, impiegando acqua, darebbe ori-
gine a pressioni elevatissime e a pro-
blemi di difficile soluzione. La pressio-
ne del sodio infatti deriva solamente
dalle forze che sono richieste per man-
tenere un'alta velocità di scorrimento
fra i tubi presenti nel nocciolo e nel
mantello del reattore. Paragonato ad
altri refrigeranti, quali l'acqua e i gas.
il sodio richiede basse potenze di pom-
paggio e non risulta particolarmente
corrosivo per il reattore.
Il sodio presenta però alcuni svan-
taggi che influenzano notevolmente la
realizzazione di un simile reattore. Poi-
ché il sodio è opaco, si deve tener pre-
sente che non è possibile un'osservazio-
ne diretta durante le operazioni di ma-
nutenzione e di ricarica del combusti-
bile. Il sodio inolire è chimicamente
molto reattivo, e diventa altamente ra-
dioattivo dopo una esposizione ai neu-
troni, anche se la sua sezione d'ur-
to, o capacità di assorbimento dì neu-
troni, è relativamente bassa. Di conse-
guenza il sodio deve essere mantenuto
isolato dall'aria e dall'acqua, e si devo-
no impiegare schermi hiologici per pro-
teggere gli operatori che devono lavo-
rare vicino al sodio che è fluito attra-
verso il nocciolo e il mantello di un
reattore durante il suo funzionamento.
IVeila regione del nocciolo sono pre-
disposte numerose barre di guar-
dia e di controllo. Il loro compito è
quello di mantenere la potenza di usci-
ta al giusto livello e di permettere l'av-
viamento e lo spegnimento della reazio-
ne nel reattore. Queste barre sono co-
struite con materiali capaci di assorbi-
re i neutroni, come il carburo di boro
o il tantalio metallico.
REINTEGRATORE
DI CALORE
TURBINA A
BASSA PRESSIONE
SCAMBIATORE
DI CALORE
INTERMEDIO
EVAPORATORE
RISCALDATORE
DELL'ACQUA DI
ALIMENTAZIONE
3ISCALDAT0RE POMPA DEL
DELL'ACQUA DI CONDENSATORE
ALIMENTAZIONE
Il sistema di trasmissione termica dì un reallore convertitore veloce a metallo liqui-
do. Le pompe fanno circolare nel reattore, dove diviene radioattivo, il refrigerante co-
sdrailo da sodio liquido [linee colorate), successivamente esso passa in uno scambia.
lore di calore intermedio, nel quale il calore viene trasferito a un sistema di tra-
diti i spione indipendente e separato dal precedente ma avente come refrigerante sodio
non radioattivo i grigio seitroi. Questo circuito trasferisce il calore a un circuito termi-
co che viene impiegalo per produrre elettricità e che funziona ad acqua e vapore (grì-
gio chùirot. I valori numerici nello schema indicano la temperatura in gradi centigradi.
Tutte le sostanze presentano un coef-
ficiente dì assorbimento per i neutroni
veloci molto più basso di quello che
hanno i neutroni termici. Questa sezio-
ne d'urto pili hassa fa si che, a parità
di dimensioni, le barre di controllo ri-
sultino meno efficienti nei reattori ve-
loci che non in quelli termici. D'altra
parte, nel nocciolo di un reattore ter-
mico è presente una grande quantità
di combustihile in eccesso, il cui scopo
è quello di integrare il combustibile
consumato nella fissione e di compen-
sare l'effetto avvelenante dei prodotti
di fissione (i prodotti di fissione cattu-
rano neutroni producendo una quan-
tità di energia insignificante). Ma con
una maggiore quantità di combustibile
è indispensabile esercitare anche un
maggiore controllo. I reattori converti-
tori veloci richiedono un minor nume-
ro di barre di controllo dato che la lo-
ro maggiore efficienza nel convertire
l'uranio-238 in plutonio-23y fissile com-
pensa la minore quantità di combusti-
hile iniziale e anche perché i neutroni
veloci non sono assorbiti dai prodotti
di fissione come i neutroni termici.
Durante la fissione non tutti i neu-
troni vengono liberati nell'istante nel
quale il nucleo si disintegra, ma una
piccola percentuale di essi viene emes-
sa in seguito al decadimento dei pro-
dotti di fissione. Si possono quindi di-
stinguere dei neutroni ritardati rispetto
ai neutroni immediati emessi diretta-
mente dai nuclei durante la loro fis-
sione. Sono quindi i neutroni ritardati
che impediscono che la reazione si pro-
paghi in modo istantaneo da una gene-
razione di neutroni alla successiva.
La percentuale dì neutroni ritardati
dipende in modo sostanziale dal tipo dì
nucleo sottoposto alla fissione. La mag-
gior parte dei reattori termici è alimen-
tala con uranio-235, mentre ì reattori
convertitori veloci saranno alimentati
con plutonio-239. La percentuale di
neutroni ritardati prodotti in seguito
alla fissione dell 'uranio-235 è di circa
lo 0,65 % mentre per il plutonio-239
tale percentuale è dello 0,3 % . In con-
dizioni di funzionamento normale la
minore percentuale di neutroni ritarda-
ti presentì in un reattore veloce non
dà eccessive preoccupazioni.
A itual mente sono allo studio due di-
verse soluzioni per il montaggio
dell'insieme nocciolo-mani elio e del si-
stema primario di trasferimento termi-
co: il tipo a immersione e il tipo a
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POMPA
Il sistema a immersione prevede un unico contenitore che racchiude in sé l'insieme
nocciolo-mantello di un reattore e lo scambiatore di calore primario. Nel contenitore,
riempito di sodio, trovano posto il reattore, le pompe che convogliano il sodio nel
reattore e lo scambiatore di calore, che trasferisce il calore al sodio non radioattivo.
DEPOSITO DEL COMBUSTIBILE
CONTENITORE SECONDARIO
Nel sistema a ricircola lo scambiatore dì calore è all'esterno del contenitore del real-
tore. Il sodio che riempie solamente il contenitore del reattore viene fatto circolare
da una pompa nel circuii" dello scambiatore di calore, esterno al reattore. La tecno-
logia dei reattori convertitori studia entrambi i principi schematizzati in queste figure.
ricircolo (si vedano le figure qui ac-
canto). Nel tipo a immersione un gros-
so serbatoio riempito di sodio con-
tiene 1) il reattore vero e proprio,
2) la pompa che preleva il sodio dallo
stesso serbatoio e Io convoglia nel noc-
ciolo e nel mantello e 3) uno scambia-
tore dì calore intermedio che trasferi-
sce il calore dal sodio radioattivo a
un secondo circuito funzionante anche
esso a sodio. Nel tipo a ricircolo solo
il contenitore del reattore è riempito
con sodio e il metallo liquido viene fat-
to circolare per mezzo di una pompa
nello scambiatore di calore montato al-
l'esterno del contenitore del reattore. Il
sistema a immersione ha il vantaggio
di presentare una capacità termica mol-
to grande nel caso si manifesti un gua-
sto nel sistema di pompaggio, ma na-
turalmente richiede una quantità assai
maggiore di sodio.
Sia nel sistema a immersione che
nel sistema a ricircolo, il reattore con-
vertitore veloce a metallo liquido ri-
chiede uno scambiatore di calore mol-
to complesso per isolare il sodio che
fluisce nel nocciolo dal generatore di
vapore. A questo provvede uno scam-
biatore di calore intermedio. Esso tra-
sferisce il calore dal sodio radioattivo
al sodio non radioattivo che a sua vol-
ta viene fatto fluire nel generatore di
vapore. Per surriscaldare il vapore e
per ri innalzarne la temperatura dopo
ogni passaggio nella turbina, si impie-
gano circuiti sussidiari al sodio.
In entrambi i sistemi, a immersione
o a ricìrcolo, è necessario che parte
della struttura, che risulta essere in di-
retto contatto con il nocciolo radioat-
tivo e con il mantello, sia a perfetta
tenuta. Nelle normali operazioni non
devono esserci in modo assoluto delle
perdite o delle dispersioni di prodotti
di fissione radioattivi nell'ambiente
esterno. A causa della bassa pressione
propria del sistema di refrigerazione
al sodio, il contenitore del reattore e
le relative condutture possono essere
progettate per sopportare solo carichi
moderati, diversamente da quanto av-
viene per i contenitori a pressione e
per gli altri componenti dei sistemi pri-
mari dei reattori che impiegano come
refrigeranti acqua in pressione, acqua
bollente o gas.
Attualmente sembra che il sistema
a immersione sìa il più interessante.
Esso è indubbiamente meno complesso
del sistema a ricircolo, tuttavia non è
privo di inconvenienti uno dei quali è
senza dubbio la scarsa accessibilità al
reattore per la manutenzione.
T I reattore convertitore veloce refrige-
rato a gas sta destando un certo in»
teresse (anche se non eccessivo) come
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sistema parallelo e complementare di
quello refrigerato a metallo liquido.
Poiché i reattori termici a refrigerante
gassoso esistono e funzionano in modo
soddisfacente, un reattore convertitore
veloce a refrigerante gassoso non do-
vrebbe presentare grossi inconvenienti
tecnici per quanto riguarda il sistema
di refrigerazione. Le caratteristiche ri-
chieste e le prove cui deve essere sot-
toposto il combustibile di un reattore
veloce a refrigerazione gassosa presen-
tano molte analogie con quelle già stu-
diate per il combustibile dei reattori
convertitori veloci a metallo liquido.
La principale differenza fra i due ti-
pi di reattori è che il tipo a refrigera-
zione gassosa, invece del sodio fuso, im-
piega l'elio a una pressione variabile
fra 70 e 100 atmosfere per trasferire
il calore dal nocciolo del reattore al
generatore di vapore. Poiché il gas non
diventa radioattivo e non reagisce chi-
micamente con l'acqua del generatore
di vapore, non c'è la necessità di in-
serire uno scambiatore di calore inter-
medio. Questa semplificazione è oltre-
modo vantaggiosa e bilancia la mag-
gior complessità di progettazione deri-
vante dalla maggiore pressione di eser-
cizio di un impianto a refrigerazione
gassosa.
Ma l'impiego dell'elio come refrige-
rante presenta ulteriori vantaggi. Esso
infatti non reagisce con i neutroni velo-
ci nel nocciolo del reattore e aumenta
la produzione di nuovi elementi fìssili
da parte di nuclei fertili. Inoltre l'elio
è trasparente e chimicamente inerte;
ciò consente di eseguire le operazioni
di ricarica del combustibile e di ma-
nutenzione in visione diretta e permet-
te una maggiore semplicità nella pro-
gettazione eliminando qualsiasi fenome-
no di corrosione.
In un reattore convertitore veloce a
refrigerante gassoso, il nocciolo, il si-
stema di circolazione di elio e il gene-
ratore di vapore, sono tutti contenuti
in un involucro a tenuta costruito in
cemento armato precompresso. Questo
contenitore è simile a quello di un
reattore termico refrigerato a gas.
Lo sviluppo dì un reattore converti-
tore veloce refrigerato a gas potrà ap-
portare nuove sostanziali conoscenze
oltre a quelle che saranno acquisite per
mezzo dei reattori convertitori a metal-
lo liquido. Nell'elio i neutroni vengo-
no rallentati molto meno di quanto non
lo siano nel sodio e di conseguenza il
tempo di raddoppiamento risulta mino-
re, È inoltre possibile prevedere che in
un reattore convertitore veloce a refri-
gerazione gassosa si possa sviluppare
un sistema a ciclo diretto nel quale il
gas refrigerante fluisca direttamente
dal reattore nella turbina a gas che
muove il generatore elettrico. Questo
sistema potrebbe aiutare a ridurre l'e-
levato costo dei convertitori veloci.
Il programma di ricerca della US
Atomic Energy Commìssìon per i reat-
tori convertitori veloci a metallo liquido
viene essenzialmente sviluppato presso
tre grossi reattori, due dei quali sono
già operanti: V Experi menta! Breeder
Reactor II (EBR II) e lo Zero Power
Plutonium Reactor (ZPPR).
L'EBR II è un reattore sperimentale
a neutroni veloci funzionante presso la
National Reactor Testing Station del-
l'Idaho e gestito dall' Argonne Natio-
nal Laboratory. Questo reattore, che
al 1 luglio vantava un record di più
di 35 000 mega watt-giorno di funzio-
namento, è il punto focale del pro-
gramma di ricerca sui combustibili per
ì reattori convertitori veloci a metallo
liquido, A tutt'oggi sono state irradia-
te nel reattore più di 800 barre di com-
bustibili sperimentali e più di 100 cap-
sule contenenti centinaia dì campioni
di materiali strutturali, di controllo e
di schermo. L'EBR II ha raggiunto
l'anno scorso la potenza di progetta-
zione di 62,5 megawatt (termici).
L'Argonne National Laboratory ha
fatto entrare in funzione l'anno scorso
anche lo ZPPR (zero power o poten-
za zero significa in questo caso che il
reattore non deve produrre una quanti-
tà significativa di calore). Questo reat-
tore è il reattore veloce di potenza ze-
ro più grande d'America e il solo nel
mondo sufficientemente grosso e ricco
di plutonio (almeno 3000 chilogrammi)
da rappresentare un modello in dimen-
sioni reali del sistema a combustibile al
plutonio che sarà impiegato nei gran-
di reattori convertitori che saranno co-
struiti entro il 1980 e negli anni succes-
sivi. Questo reattore fornirà importan-
ti informazioni sul comportamento dei
neutroni nel nocciolo dei convertitori.
Il terzo reattore, ora in fase di pro-
gettazione, sfrutta le conoscenze otte-
nute da EBR II, da ZPPR e da altri
reattori più piccoli. Questo reattore,
chiamato Fast Flux Test Facìlity, fun-
zionerà con flussi di neutroni molto
elevati e sarà in grado di collaudare e
di sperimentare i combustibili e i ma-
teriali strutturali che dovranno essere
impiegati nei reattori convertitori com-
merciali. Il reattore, che verrà a costa-
re circa 100 milioni di dollari, funzio-
nerà a una potenza di 400 megawatt
(termici) che non verranno però con-
vertiti in energia elettrica. Il reattore
verrà costruito a Richland sotto l'egi-
da della Atomic Energy Commissioni
la sua costruzione inizi era quest'anno
e la massima potenza sarà raggiunta
presumibilmente intorno al 1974-75.
Lo sviluppo dei reattori termici ha
permesso di acquistare molte nuove co-
noscenze sulla base delle quali la com-
missione ha incominciato a muovere i
primi passi verso la costruzione di di-
versi impianti sperimentali di reattori
convertitori veloci a metallo liquido. La
spesa sarà sostenuta dal governo e dal-
t'industria americana. Il primo di que-
sti impianti, con una capacità da 300 a
500 megawatt (elettrici), permetterà di
accumulare una valida esperienza sia
sul reattore che sul sistema di conver-
sione di potenza. Questo impianto, da
un punto di vista economico, non sarà
competitivo con gli impianti termoelet-
trici o con quelli nucleari ora esistenti,
sia a causa delle sue dimensioni rela-
tivamente piccole, sia perché sì troverà
al primo stadio di sviluppo, I reattori
convertitori veloci a metallo liquido che
potranno entrare in funzione nel 1980
saranno in grado di fornire 1000 o più
mega watt di potenza elettrica.
Mei programma di sviluppo di un reat-
tore convertitore veloce è necessa-
rio fare alcune considerazioni sui pro-
blemi della sicurezza. I prodotti di scar-
to della fissione sono costituiti da ele-
menti che hanno collocazione nella
parte centrale della tavola degli elemen-
ti e che derivano dalla fissione degli
atomi di combustibile; molti isotopi di
questi elementi sono radioattivi. Fin dai
primi anni di sviluppo dei reattori è
stata subito evidente la necessità di un
continuo controllo dei prodotti di fis-
sione, controllo che deve essere effet-
tuato anche nel ciclo del combustibile.
Nei reattori convertitori, oltre ai pro-
dotti di fissione, è presente anche una
grande quantità di plutonio, che in cer-
te forme è radiologicamente tossico. La
procedura seguita, sia nei reattori ter-
mici che in quelli veloci, consiste nel
racchiudere tutte le sostanze potenzial-
mente dannose in un involucro a tenu-
ta in grado di resistere a qualsiasi even-
to improvviso, compresi i terremoti.
Forse il sistema di sicurezza pili im-
portante è rappresentato dal fatto che
i reattori nucleari commerciali sono au-
toregolati, nel senso che essi sono pro-
gettati per compensarsi automaticamen-
te nel caso che un qualsiasi inconve-
niente possa portare a un aumento in-
desiderato e incontrollato della potenza
prodotta. Nei reattori ad acqua questa
compensazione è ottenuta sfruttando
la diminuzione della densità dell'acqua
all'aumentare della sua temperatura.
Nei reattori veloci la variazione di den-
sità del refrigerante può portare in-
vece a un effetto controproducente,
cioè a un aumento di reattività.
15
Nei reattori convertitori veloci la
compensazione è ottenuta quindi sfrut-
tando l'effetto Doppler, che provoca un
aumento della velocità di assorbimento
dei neutroni da parte deiruramo-238
allorquando nel nocciolo del reattore
aumenta la temperatura del combusti-
bile. Poiché un improvviso aumento dt
potenza è necessariamente accompa-
gnato da un aumento di temperatura
del combustibile, si manifesterà un au-
mento deH'assorhi mento neutronìco e
conseguentemente si avrà una tendenza
verso una riduzione della potenza svi-
luppata. Per misurare questi effetti in
condizioni analoghe a quelle che si ve-
rificano in un grande reattore di po-
tenza, è stato costruito nell'Arkansas,
con capitale privato, un piccolo reatto-
re veloce con refrigerante al sodio. A
questo programma di studio è stato da-
to il nome Southwest Experimental Fast
Oxide Reactor.
TI fatto che una diminuzione della den-
sità o del volume del refrigerante
comporti un aumento della reattività,
porta ad altre considerazioni sul proble-
ma della sicurezza dei reattori veloci re-
frigerati al sodio. Se per esempio si ve-
nisse a formare una bolla di gas o di
vuoto per la quale una zona del noccio-
lo potrebbe surriscaldarsi in modo in-
controllato, alcune barre di combustìbile
potrebbero presentare pericolosi inde-
bolimenti che darebbero luogo a ulte-
riori disturbi, e una serie consecutiva
di tali eventi non porterebbe necessa-
riamente a uno spegnimento automa-
tico del reattore. Per questo è necessa-
rio evitare, già in fase di progetto, la
propagazione di tali inconvenienti alle
barre di combustibile.
Questo controllo può essere effettua-
to con tecniche diverse. Per esempio,
l'aggiunta di un moderatore quale l'os-
sido di berillio, aumenta l'efficenza del-
l'effetto Doppler sui neutroni, mentre
gli effetti di vuoto possono essere ridot-
ti variando il rapporto tra refrigerante e
combustibile. Altri metodi ancora si
basano sul criterio di distribuzione del-
le barre di combustibile che possono
essere sistemate in modo tale da ridur-
CONTENITORE
DEL REATTORE
IN CEMENTO
PRECOMPRESSO
RICIRCOLATOLE
AUSILIARIO
GENERATORE
DI VAPORE
GUIDE
DELLE BARRE
DI CONTROLLO
RICIRCOLATORE
DELL'ELIO
TENSORI
CIRCONFERENZIALI
NOCCIOLO
DEL REATTORE
Nel disegno è raffigurato lo spaccato di un reattore refrigerato
a gas. con potenza elettrica di 300 megavvatt, costruito per le
ricerche sul processo di conversione. La differenza principale
fra questo tipo di reattore e quello refrigerato a metallo liqni-
16
ANCORE DELLE
ASTE VERTICALI
DI TRAZIONE
FORO Di TRASFERIMENTO DEL COMBUSTIBILE
FORO DEL DEPOSITO DI COMBUSTIBILE
do consiste nel fatto che in questo caso il refrigerante è elio
ad alta pressione invece di sodio liquido. Per sopportare l'eie-
vata pressione l'intero complesso del reattore è contenuto al-
l'interno di un contenitore di cemento armato precompresso.
re la potenziale reattività dei vuoti di
refrigerante aumentando il numero di
neutroni perduti dal nocciolo.
In un reattore veloce refrigerato a
gas non esistono ovviamente problemi
di vuoti dato che nel gas non è pos-
sibile la formazione di boHe. E tuttavìa
necessario tener conto di altre eventua-
lità come improvvisi cali di pressione
del gas dovuti a incrinature del conte-
nitore a pressione. L'impiego di conte-
nitori di cemento armato precompresso
minimizza tuttavia la possibilità di que-
sti inconvenienti.
Una volta sicuri che in condizioni
normali di funzionamento le perturba-
zioni non si autoesaltino, è necessario
prendere in esame gli altri problemi.
Il primo consiste nella possibilità di ar-
resto del sistema di raffreddamento a
causa di un blocco meccanico. Simili
incidenti sono già capitati, ma è chiaro
che essi diventano meno frequenti man
mano che si acquista una esperienza
tecnica specifica in materia. In caso
di simili incidenti si evita la fuoriu-
scita di quantità significative di prodot-
ti di fissione impiegando più contenito-
ri strutturali concentrici per l'intero si-
stema del reattore.
Un altro incidente potrebbe essere
provocato da un aumento di potenza
in un punto dove il calore viene pro-
dotto con un ritmo superiore a quello
con cui viene asportato dal refrigeran-
te. Un incidente di questo tipo è acca-
duto all'EBR I alcuni anni fa. Anche
in questo caso un miglioramento del
progetto può eliminare l'inconveniente.
Per ogni tipo di incidente, anche se
molto improbabile, si devono preve-
dere opportuni accorgimenti struttura-
li al fine di ridurre al mìnimo i possi-
bili danni.
Nella progettazione di un reattore
convertitore veloce si devono anche
prendere Ln considerazione i fattori am-
bientali. Poiché i reattori convertitori
veloci funzioneranno a temperature
molto più alte di quelle che sì sono
finora avute con i reattori refrigeranti
ad acqua, essi dovranno presentare ef-
ficenze termodinamiche molto più ele-
vate. Oggigiorno i reattori ad acqua
funzionano con una efficenza di circa
ti 32 %, cioè il 32 % dell'energia ter-
mica prodotta viene convertita in ener-
gia elettrica, mentre gti impianti ter-
moelettrici a combustibile fossile han-
no un'efficenza del 39 % . I reattori ad
acqua forniscono quindi all'ambiente,
per dispersione, una quantità di calore
per unità di energìa elettrica prodotta,
maggiore di quella dispersa da un im-
pianto a combustibile fossile. I reat-
tori veloci raggiungeranno probabilmen-
te efficienze uguali a quelle dei più
REATTORE
TURBINA
AD ALTA PRESSIONE
TURBINA
A BASSA PRESSIONE
GENERATORE
ELETTRICO
GENERATORE
DI VAPORE
RISCALDATORE
DELL'ACQUA DI
ALIMENTAZIONE
RISCALDATORE
DELL'ACQUA DI
AUMENTAZIONE
POMPA DEL
CONDENSATORE
Lo schema del circuito di refrigerazione di un reattore convertitore veloce refrigerato
a gas comprende il sistema di trasferimento termico del refrigerante a elio (colorato!
al sistema a vapore acqueo [grigio), fi sistema non ha uno scambiatore di calore inter-
medio. I valori numerici riportali in fi pura indicano le temperature in gradi centigradi.
moderni impianti a combustìbile fossi-
le, riducendo in questo modo il proble-
ma delle dispersioni di calore dovute
a effetti nucleari.
L'immissione di radioattività nell'a-
ria da parte di questi reattori è molto
prossima a zero. Anche la piccola per-
centuale di radioattività dovuta ai gas
dei prodotti di fissione (principalmente
cripto-85 e tritio) dispersa attualmen-
te in condizioni controllate dai reattori
refrigerati ad acqua, verrà a essere
eliminata. Infatti, poiché il contenitore
racchiude il nocciolo ermeticamente, es-
so stesso costituirà un sistema efficen-
te per la raccolta e l'immagazzinamen-
to dei gas, che non potranno quindi
costituire un pericolo, fnoltre, poiché
il refrigerante in un reattore converti-
tore veloce è mantenuto in un conteni-
tore sigillato, e poiché l'acqua impie-
gata per generare il vapore non è espo-
sta ai neutroni, non si avrà formazione
radioattiva negli scarichi liquidi pro-
venienti dall'impianto nucleare.
T I vantaggio economico dei reattori
convertitori veloci sta principalmen-
te, ma non interamente, nel fatto che
essi permettono un risparmio di com-
bustibile nucleare. Nei prossimi 50 an-
ni l'impiego dei reattori convertitori po-
trà, secondo le attuali previsioni, ri-
durre di 1,2 milioni di tonnellate la
quantità di uranio che verrebbe con-
sumata qualora si impiegassero reat-
tori normali. Questa quantità è equi-
valente a circa 3 miliardi di tonnella-
te dì carbone.
Lo sviluppo dell'economia di un reat-
tore convertitore dovrebbe inoltre por-
tare a un guadagno finanziario diretto
di grandi proporzioni. Gli studi ora con-
dotti hanno indicato che la spesa per
la ricerca e lo sviluppo dei reattori con-
vertitori veloci a metallo liquido supe-
rerà entro il 2020, per la sola US
Atornk Energy Commission, i 2 miliar-
di di dollari, senza considerare molte
altre spese industriali. Se il primo reat-
tore convertitore commerciale entrerà
in funzione, secondo i programmi, nel
1984, la riduzione nella spesa per la
produzione di energia elettrica negli
anni seguenti (fino al 2020) può essere
valutata in 200 miliardi di dollari.
L'attuale costo per la produzione di
energia elettrica negli Stati Uniti va-
ria da 5 a 10 millesimi di dollaro per
chilowattora all'uscita della centrale
elettrica, a seconda del tipo, dell'età e
dell'ubicazione dell'impianto di produ-
zione. Praticamente tutti gli impianti
rientrano in questi limiti di costi. Il reat-
tore convertitore veloce dovrebbe in-
vece produrre energia elettrica con un
costo compreso fra 0,5 e 1 millesimo
di dollaro per chilowattora. 1 sistemi di
grossi reattori convertitori capaci di ab-
bassare il costo dell'energìa elettrica
sotto i 2 millesimi di dollaro per chilo-
wattora renderanno possibile l'estrazio-
ne, l'uso e la riutilizzazione delle risor-
se naturali in modo oggi impensabile.
17
©
L'attività genetica
dei mitocondri e dei cloroplasti
Questi organelli cellulari, che contengono DNA e RNA, sono capaci di
sintetizzare le proteine. La loro organizzazione fa ritenere che
possano aver avuto origine da organismi indipendenti simili ai batteri
di Ursula W. Goodenough e R. P. Levine
La genetica della cellula vivente è
più complessa di quanto possa
apparire da una concisa defini-
zione. Infatti si usa dire che il DNA,
la struttura a doppia elica, che si trova
nel nucleo di ogni cellula vegetale e
animale, contiene la completa matri-
ce genetica per ricostruire l'intero orga-
nismo. Però da un po' di tempo i ge-
netisti hanno riconosciuto che questa
affermazione non può essere rigorosa-
mente vera, giacché il citoplasma (la
regione non nucleare) di tutte le cellu-
le vegetali e animali contiene certi or-
ganelli, o strutture subcellulari, che
possiedono un loro DNA. Un organa-
lo del genere, il mitocondrio, si trova
nelle cellule di tutte le piante e di tut-
ti gli animali; ai mitocondri è dovuto
l'accumulo di energia sotto forma di
ade n osi ntri fosfato (ATP) e ia produzio-
ne di una varietà di altre piccole mo-
lecole essenziali. Un altro organello
contenente DNA, il cloroplasto, si tro-
va soltanto nelle alghe e nelle piante
superiori. I cloroplasti contengono clo-
rofilla e simili pigmenti per catturare
l'energia della luce solare e produrre
carboidrati mediante la fotosintesi. Du-
rante questo processo anche i cloropla-
sti producano ATP. Di tanto in tanto
c'è chi descrive la presenza di DNA
anche in altri organelli ma, anche se
questo verrà confermato, i mitocondri
e i cloroplasti probabilmente rimarran-
no unici in quanto contengono non so-
lo acidi nucleici (DNA e RNA), ma so-
no anche in grado di sintetizzare alcu-
ne proteine. Una ipotesi affascinante è
che i mitocondri e i cloroplasti, presen-
ti oggi nelle cellule vegetali e animali,
una volta fossero organismi indipenden-
ti, parenti alla lontana degli odierni
batteri, che vennero incorporati in cel-
lule più grandi divenendo endosimbion-
ti durante il corso dell'evoluzione.
Quando i biologi cellulari del XDC se-
colo studiarono per la prima volta i mi-
tocondri e i cloroplasti con il microsco-
pio ottico furono colpiti dal loro com-
portamento chiaramente indipendente
all'interno della cellula. Questi organel-
li spesso si riproducono in momenti in
cui la cellula stessa non si divide e,
in genere, si sviluppano in grandezza e
in complessità funzionale. Per esempio,
i precursori dei cloroplasti nei semi
delle piante sono minuscoli corpiccioli
incolori chiamati proplastidi. Certi pro-
piasti di rimangono nelle radici delle
piante e si differenziano in amiloplastì
incolori, particelle piene di amido che
predominano in alcuni vegetali come
nelle patate. Altri proplastidi, quando
vengono esposti alla luce, diventano
cloroplasti acquistando un complesso si-
stema di membrane, la clorofilla e i
pigmenti carotenoidi essenziali per la
fotosintesi (sì veda la figura a pagina
20). I cloroplasti dei pomodori e si-
mili si differenziano infine in crorhopla-
sti accumulando grandi quantità di ca-
rotenoidi rossi (si veda la figura a pa-
gina 21). Lo sviluppo strutturale dei
mitocondri è generalmente meno visto-
so di quello dei cloroplasti, ma con il
microscopio elettronico si può seguire
la trasformazione dei piccoli mitocon-
dri delle cellule embrionali in organelli
assai più grandi come quelli presen-
ti nel muscolo cardìaco (si veda la fi-
gura in alto a pagina 22). La crescita
e lo sviluppo dei cloroplasti e dei mito-
condri sono influenzati da molti fatto-
ri. Però quello che ci interessa di più
in questo articolo è come il DNA di
questi organelli influenzi la loro strut-
tura e funzione e quanto gli organelli
siano sotto i] controllo del DNA con-
tenuto nel nucleo.
L'acido desossiribonucleico (DNA) e
l'acido ribonucleico sono i soli due tipi
di molecole capaci di codificare e tra-
smettere l'informazione genetica. Oltre
al DNA i mitocondri e i cloroplasti con-
tengono RNA-polimerasi DNA dipen-
denti, enzimi che provvedono alla sin-
tesi di vari tipi di RNA. Un tipo, noto
come RNA messaggero, trascrive l'in-
formazione genetica del DNA. Altri ti-
pi di RNA sono chiamati RNA di tra-
sferimento (l-RNA) perché * riconosco-
no » singoli amminoacidi e li dispon-
gono nella precisa sequenza dettata dal-
l'RNA messaggero, per la sintesi di una
proteina specifica. Per compiere questa
sintesi anche i mitocondri e i cloropla-
sti possiedono piccole ma complesse
particelle, chiamate ribosonù, costituite
da almeno due tipi di RNA e da 30 a
50 tipi di proteine. I ribosomi agisco-
no da supporto per l'RNA messaggero
mentre i t-RNA portano gli amminoa-
cidi ai posti loro assegnati. Infatti, se a
mitocondri e cloroplasti, isolati dal re-
sto della cellula, vengono forniti i sub-
strati appropriati, essi possono duplica-
re il loro DNA, sintetizzare nuovo
RNA e incorporare amminoacidi per
formare proteine. Capacità genetiche
comparabili a queste non sono mai sta-
te descritte per altri organelli cellulari,
quali il reticolo endoplasmico, l'appara-
to di Golgi, i centrioli, i corpi basali e
i glìossisomi (si veda la figura nella pa-
gina a fronte).
Il fatto che i mitocondri e i cloro-
plasti compiano funzioni genetiche non
sarebbe particolarmente interessante se
essi semplicemente utilizzassero pezzi
dì DNA provenienti dal nucleo median-
te ribosomi ed enzimi del citoplasma.
Però, non avviene così. L'apparato ge-
netico di questi organelli è chiaramen-
te differente da quello presente nel nu-
cleo o nel citoplasma. Un'indicazione
di questa differenza si ha dal confron-
to della composizione chimica del DNA
nucleare con quella del DNA mitocon-
dri ale. La molecola del DNA consiste
in due filamenti appaiati le cui subunì-
L'alga unicellulare C. reinh/irdi possiede sia cloroplasti che mi-
tocondri, due organelli che contengono oltre all'acido desossi-
ribonucleico (DNA) anche l'apparato per la sintesi delle pro-
teine. La cellula, in questa fotografia al microscopio elettro-
nico eseguita da Ursula W. Goodenough, è ingrandita 15 500
volte. I costituenti cellulari sono indicati nella figura qui sotto.
MITOCONDRI
STROMA DEL CLOROPLASTO
(CONTENENTE HIBOSOMI)
CLOROPLASTO
VACUOLI
AMIDO
RETICOLO ENDOPLASMICO
(CON RIBOSOMI)
MEMBRANA CELLULARE
PARETE CELLULARE
AMIDO
APPARATO DI GOLGI
RETICOLO ENDOPLASMICO
(CON RIBOSOMI)
FLAGELLO
SOSTANZA CITOPLASMATICA
FONDAMENTALE (CON RIBOSOMI)
NUCLEOLO
NUCLEO
Il cloroplasto di C, re.inhardi (area colorata) è costituito da mol-
te membrane circondate da un rivestimento. I ribosomi, cioè
le particelle su cui vengono sintetizzate le proteine, si trovano
nello stroma, la fase solubile del cloroplasto. I ribosomi cito-
plasmatici, sintetizzati nel nucleolo, si trovano nella sostanza
citoplasmatica fondamentale, attaccati al reticolo endoplasmico.
Sono indicali" soltanto due dei numerosi mitocondri. Il vacuolo
è una vescicola citoplasmatica circondata da una membrana.
18
19
Questo cloroplasto maturo, ingrandito
22 000 volte nella foto in allo, proviene
da una foglia della graminacea « coda di
topo . Questi cloroplasti si sviluppano
da proplastidi, due dei quali sono foto-
grafali a sinistra, ingranditi 38 000 volte-
Questi sono proplastidi di un apice radi-
cale del comune fagiolo, ma la loro sem-
plice struttura è tipica di tulli i propla-
stidi. Essi contengono alcuni fillosomi
sparsi e, in un caso, l'inizio di una ripiega-
tura della membrana. Nel cloroplasto ma-
turo le membrane sono organizzate in nu-
merose pile chiamate grana. I grana sono
collegali Ira loro da altre membrane chia-
male lamelle dello stroma. Nello stroma
si possono vedere molti cromosomi clo-
roplasti» (punti neri). La funzione delle
gocce nere, i granuli osmiofili, è scono-
sciuta. Le fotografie sono stale fatte da
William Wergin nel laboratorio di Eldon
H. Newcomb dell'Università del Wisconsin.
tà, chiamate nucleolidi, sono sempre
complementari. Cosi un nucleotide con-
tenente la base aderti n a (A) si accoppia
sempre con uno contenente ti mina (T);
analogamente i nucleolidi conlenenti
guanina (G) e cìtosìna (C) sono appaia-
ti. Anche se è molto diffìcile stabilire !a
sequenza di nucleolidi in un campione
di DNA, è abbastanza facile determi-
nare il rapporto delle coppie di nucleo-
lìdi. Si è trovato che la percentuale di
G più C nel DNA mitocondriale è in
genere abbastanza diversa da quella del
DNA nucleare della stessa cellula. In
una cellula vegetate il contenuto in G
più C è spesso differente per le tre spe-
cie di DNA (nucleare, mitocondriale e
cloroplastico) cosi che essi possono es-
sere separati l'uno dall'altro mediante
centrifugazione ad alta velocità in un
gradiente di densità ottenuto con clo-
ruro di cesio (si veda la figura in alto
a pagina 24),
A differenza del DNA nucleare, il
DNA di questi organelli non si associa
con certe proteine chiamate istonì, e
quindi si trova nell'organello come una
fibra nuda. Nei mitocondri le fibre nu-
de di DNA in genere si chiudono su se
stesse formando molecole circolari.
Questi anelli non sono ancora stati iden-
tificati nei cloroplasti, dove invece il
DNA appare sotto forma di ammassi
di lunghi filamenti (si veda la figura in
basso a pagina 22).
Le fibre nude di DNA prive di isto-
ni e spesso di forma circolare, sono ti-
piche dei cloroplasti e dei mitocondri
nelle cellule fornite di nucleo, ma non
sono le sole nel regno biologico. Tutti
i batteri conosciuti e le alghe azzurre
contengono cromosomi che rispondo-
no esattamente a questa descrizione. È
questa soltanto una coincidenza? Molti
biologi pensano che non lo sia. è sta-
to suggerito che i mitocondri e i cloro-
plasti siano moderni discendenti delle
forme primitive dei batteri o delle alghe
azzurre che si insediarono in cellule
primitive dove subirono un'evoluzione
indipendente. Si suppone che le cellule
primitive che avevano come « inquili-
ni * tali batteri e alghe azzurre dispo-
nessero di mezzi addizionali per pro-
durre energia e fossero cosi più av-
vantaggiati di quelli che non li ave-
vano.
I batteri e le alghe azzurre sono chia-
mati procarioti, perché mancano di un
nucleo delimitato da una membrana,
presente invece negli organismi nuclea-
ri, chiamati eucarioti (karion in gre-
co significa nucleo). Il DNA dei bat-
teri e delle alghe è situato in € nu-
cleoidi » che sì trovano anche nei mito-
condri e nei cloroplasti (si veda la fi-
gura a pagina 25), il che fornisce una
ulteriore prova all'ipotesi che essi una
volta fossero procarioti indipendenti.
TVrse la più evidente somiglianza tra
mitocondri, cloroplasti e gli attuali
procarioti sta nell'apparato per la sin-
tesi proteica. Per esempio, i loro ribo-
somi sono molto simili: quando ven-
gono centrifugati essi hanno un coeffi-
ciente di sedimentazione di 70 unità
svedberg (70 S). Il coefficiente di sedi-
mentazione è una misura relativa della
grandezza di un ribosoma: più grande
è il coefficiente, più grande è la parti-
cella. I ribosomi che si trovano nel ci-
toplasma delle cellule eucariote hanno
un coefficiente di sedimentazione di 80
S. Cosi se si prepara un omogenato to-
tale di cellule vegetali o animali e lo si
centrifuga in un gradiente di soluzione
di saccarosio di densità diverse, la po-
polazione di ribosomi si separa in due
frazioni, che appaiono in grafico come
un grande picco corrispondente a 80
S e uno più piccolo equivalente a
70 S circa (si veda la figura in basso
a pagina 24). Una eccezione a questa
regola è rappresentata da certi funghi.
come il lievito e la muffa rossa del pa-
ne Neurospora, che hanno i ribosomi
mitocondri ali con un coefficiente di
77 S.
Se si dissociano i ribosomi nei loro
due principali componenti di RNA, la
somiglianza tra i ribosomi dei procario-
ti e i ribosonii dei mitocondri e cloro-
plasti persiste. Tutti e tre contengono
una specie di RNA più pesante con un
coefficiente di sedimentazione di 23 S e
una specie più leggera con un coeffi-
ciente dì 16 S. Invece nei ribosomi del
citoplasma la specie di RNA più pesan-
te ha un coefficiente da 25 a 28 S e la
specie più leggera un coefficiente di
18 S.
Anche i tipi di proteine contenute
nei ribosomi 70 S e 80 S sembrano ap-
partenere a due distinte famiglie, co-
me si può dimostrare dalla loro rispo-
sta a certe sostanze chimiche. Si pensa
che un certo numero di antibiotici (tra
cui la streptomicina, il cloramfenicolo
e la tetraciclina) uccidano i batteri rea-
gendo con le proteine specifiche dei ri-
bosomi, impedendo cosi la sintesi di
altre proteine batteriche. Questi stessi
antibiotici impediscono efficacemente ai
ribosomi 70 S dei mitocondri e dei clo-
roplasti di sintetizzare proteine, ma non
hanno effetto sui ribosomi 80 S delle
cellule vegetali e animali. AI contrario,
il fungicida cicloeximide inibisce la sin-
tesi proteica dei ribosomi 80 S, ma non
ha effetto sui ribosomi 70 S dei proca-
rioti e degli organelli cellulari.
Gli antibiotici forniscono altre indi-
cazioni sulle affinità tra l'apparato ge-
netico dei procarioti e degli organelli.
La rifampicina, un antibiotico scoperto
recentemente, si lega, inattivandola, al-
l'RNA-polimerasi DNA dipendente che
si trova nei batteri, ma non si lega alla
polìmerasi nucleare delle cellule euca-
riote. Questo antibiotico inibisce an-
che la sintesi di RNA nei cloroplasti e
mitocondri, indicando che l'RNA-poli-
merasi in questi organelli rassomiglia a
quella dei batteri.
Il fatto che mitocondri e cloroplasti
abbiano un sistema genetico simile a
quello dei batteri e l'ipotesi che essi ab-
biano antenati comuni, non significa
che essi siano simili in tutto. I proca-
rioti di oggi, e probabilmente anche
quelli primitivi, contengono tutta l'in-
formazione genetica necessaria, per la
loro, autoriproduzione. In un ambiente
adatto e con una disponibilità di car-
bonio, azoto e minerali, essi possono
sintetizzare tutto ciò che a loro serve
per crescere e dividersi. D'altra parte i
mitocondri e i cloroplasti non sono ca-
paci di sintetizzare la maggior parte
delle proteine che li costituiscono e
muoiono subito se isolati dal resto del-
la cellula. Gli organelli mancano di
molti enzimi necessari per la biosintesi
Il cromoplasto del pomodoro è un cloroplasto che si sta differenziando con l'accumulo
di una grande quantità di pigmento rosso carotenoide. La struttura a grana della
membrana cloroplasti va perduta durante questo processo. Questa fotografìa al mi-
croscopio elettronico, ingrandita 45 000 volle, è stata eseguita da William M. Harris.
20
21
In queste due fotografìe at microscopio elettronico con un in-
grand ime Etto di 35 000 si può osservare Io sviluppo dei mito-
condri. La foto a sinistra mostra mitocondri immaturi di una
cellula muscolare proveniente da una coda rigenerante di giri-
no. Essi presentano poche introflessioni della membrana inter-
na, dette creste. I mitocondri maturi, a destra, forniti di creste
addossate l'una all'altra, appartengono invece a una cellula mu-
scolare di cuore di pipistrello. Si può notare clie in questo ca-
so i filamenti sono disposti ordinatamente, mentre nella cellu-
la del girino appaiono disorganizzali. La fotografia della cellula
di girino è stata fatta da R. Warren. La fotografìa della libra
miocardica è di Kcith Porter dell'Università del Colorado.
Il DNA cloroplasto isolato da foglie di spinaci appare come
una rete di fibre in questa fotografia di L.F, Woodcock otte-
nuta al microscopio elettronico con un ingrandimento di 32 000
volte. Ira alto a destra si vede un'ammasso di cloroplasti che,
fatti scoppiare per osmosi sulla superfìcie dell'acqua, hanno libe-
rato le fibre di DNA insieme a membrane granali e ìntergranali.
dì nucleotidi, dì amminoacidi e di al-
tre molecole essenziali. Gli enzimi ri-
chiesti sono localizzati esclusivamente
nel citoplasma della cellula ospite. Co-
si gli organetti sono veri endostmbion-
ti, che dipendono dal loro ospite per
funzioni metaboliche indispensabili.
Che ì mitocondri e i cloroplasti sia-
no, o siano diventati, cosi dipendenti
dai loro ospiti non fa poi tanta mera-
viglia. Sembra ragionevole che, per una
migliore economia ed efficienza, le uni-
tà molecolari necessarie per varie parti
di una cellula debbano venire sintetiz-
zate ne! citoplasma dove sono facil-
mente accessibili a tutti gli organeili.
Quello che invece sorprende è trovare
che la maggior parte degli enzimi e dei
componenti che si trovano esclusiva-
mente nei mitocondri e nei cloroplasti
siano sintetizzati sotto la direzione di
geni localizzati nel DNA del nucleo cel-
lulare.
Gli esempi sono molti, il più chiaro
ci è dato dal citocromo e, componente
essenziale del processo respiratorio me-
diante il quale i mitocondri ossidano i
carboidrati e immagazzinano energia
sotto forma di ATP. Nelie cellule for-
nite di nucleo organizzato vegetali e
animali, il citocromo e si trova soltan-
to nei mitocondri. Nel lievito sono sta-
te trovate molte mutazioni geniche che
impediscono la formazione del citocro-
mo e, bloccando cosi la respirazione.
Questi ceppi mutanti possono crescere
soltanto per fermentazione. È stato di-
mostrato (in gran parte dal lavoro di
Fred Sherman e dei suoi colleghi della
Rochester School of Medicine and
Dentistry) che la maggior parte di que-
ste mutazioni alterano un gene nuclea-
re che contiene l'informazione per la
sequenza primaria dì amminoacidi nel-
la porzione proteica della molecola del
citocromo e. Un altro gene nucleare
codifica per una specie minore della
molecola, il citocromo fj. Se un ceppo
di lievito porta mutazioni in ambedue
i geni non si trova nessun citocromo di
tipo e in nessuna parte della cellula,
compresi i mitocondri. Si può dunque
concludere che il DNA dei mitocondri
non contiene l'informazione per la sin-
tesi di questa proteina mitocondri ale.
Bernhard Kadenbach dell'Università di
Monaco ha dimostrato inoltre che la
proteìna del citocromo e viene sintetiz-
zata sui ribosomi 80 S nel citoplasma
e poi trasferita nel mitocondrio. Il ci-
tocromo e non è un caso isolato. Per
esempio, i geni nucleari controllano gli
enzimi solubili dei mitocondri che
prendono parte alla respirazione. Altri
geni nucleari sono responsabili della clo-
rofilla, i carotenoidi, i citocromi e mol-
ti enzimi fotosintetici dei cloroplasti.
Nella maggior parte degli organismi
i geni nucleari si distìnguono dai ge-
ni degli organeili per il modo in cui
vengono ereditati durante la riprodu-
zione sessuale. Le cellule germinali ma-
schili e femminili contengono una quan-
tità uguale di DNA nucleare, cosi che
la progenie erediterà un egual numero
di geni nucleari da ciascun genitore.
Questo tipo di eredità viene chiamata
mendelìana dal nome di Gregor Men-
del che la scopri. Però la cellula ger-
minale femminile, o cellula uovo, ha
una cospicua quantità di citoplasma
con mitocondri e proplastidì, mentre
le cellule germinali maschili e il polli-
ne non portano quasi niente citopla-
sma alio zigote al momento della ferti-
lizzazione. Ne deriva che la progenie
eredita il DNA dei suoi organeili qua-
si interamente dal genitore femminile.
Questa eredità viene chiamata non-men-
deliana o materna.
/""he tipo dì mutazione genica non
mendelìana è stata identificata che
sia in grado di alterare le funzioni degli
organeili? Il gruppo di mutazioni più
ampiamente studiate si trova nel lievi-
to. Queste mutazioni, genericamente
chiamate p~, risultano essere piuttosto
complesse. Descritte per la prima vol-
ta circa vent'anni fa, da Boris Ephrussì
al Centre de Génétique Moléculair a
Gif-sur-Yvette, continuano a essere stu-
diate in molti laboratori, specialmen-
te in quello di Piotr P. Sionimskì, pu-
re a Gif,
Le cellule del lievito, che sono p~
non possono respirare e possono soltan-
to crescere lentamente mediante il pro-
cesso noto come glicolisi. Poiché for-
mano piccole colonie esse vennero de-
nominate f petites » dai ricercatori fran-
cesi che te scoprirono. I mitocondri
nelle cellule p- sono tipicamente rudi-
mentali, ma i vari ceppi di cellule
p- differiscono molto per l'entità di ta-
li difetti. Inoltre, in alcuni mutanti la
composizione in nucleotidi del DNA
mitocondri ale è simile a quella dei cep-
pi normali; in altri mutanti il conte-
nuto in G più C è drasticamente al-
terato. Questa distruzione dell'informa-
zione genica dei mitocondri del lievito
avviene spontaneamente, ma può anche
venire indotta da vari mutageni.
A differenza delle mutazioni « pun-
tiformi * che spesso avvengono nel
DNA, alterazioni causate nel DNA mi-
tocondri ale p~ sono difficili da analiz-
zare. Una mutazione puntiforme, poi-
ché colpisce un solo gene del genoma,
che è un patrimonio completo di geni,
causerà tipicamente l'assenza di un sin-
golo enzima. Quando l'intero genoma
mìtocondriale è reso non funzionale e
il mitocondrio che ne risulta manca di
molti enzimi e di molte attività, è diffi-
cile capire che cosa sia successo, fe pos-
sibile che la condizione p~ impedisca
semplicemente la sintesi di una o due
proteine critiche, forse importanti per
l'integrità di certe strutture, il che poi
porta a un certo numero di difetti se-
condari. O forse la condizione p - im-
plica una radicale alterazione del DNA
mitocondriale si che molte proteine non
vengono sintetizzate.
Simili problemi complicano lo stu-
dio delle mutazioni non-mende] iane che
si verificano nei cloroplasti. Nella mag-
gior parte dei casi queste mutazioni non
portano a una chiara e facilmente ana-
lizzabile perdita di una singola protei-
na o enzima. Si osserva piuttosto un or-
ganetto genericamente difettoso, comu-
nemente mancante dì clorofilla o caro-
tenoidi, dalla struttura molto disorga-
nizzata e privo di attività fotosintetica.
In questi casi qual è l'effetto primario
della mutazione e che cosa è invece do-
vuto a una alterazione secondaria del-
l' integrità dell'organello? Almeno un
fatto è chiaro; la presenza di DNA nor-
male; il DNA non è affatto un residuo
superfluo di una precedente esistenza
di tipo procariota.
■Decentemente sono state indotte mu-
tazioni ereditarie per vìa materna
che sono più accessìbili a un'analisi
biochimica. Queste rendono il lievito
resistente agli effetti di antibiotici, co-
me quelli sopra elencati, che inibiscono
specificamente la sintesi proteica sui ri-
bosomi 70 S. L'esistenza di queste mu-
tazioni suggerisce che il DNA mitocon-
driale contenga geni che controllano la
sintesi di certe proteine che costituisco-
no i ribosomi 70 S dei mitocondri; le
proteine normali sono evidentemente
inattivate dagli antibiotici, mentre le
proteine mutate non lo sono. Ruth Sager
del Hunter College e altri ricercatori
hanno studiato mutazioni analoghe che
conferiscono resistenza agli antibiotici
all'alga unicellulare Chlamydomonas
reinhardi, ma non hanno ancora stabi-
lito se le mutazioni risiedono nel DNA
dei mitocondri o dei cloroplasti del-
l'alga.
L'esistenza di mutazioni che confe-
riscono resistenza agli antibiotici sugge-
rirebbe che una delle funzioni del DNA
dell'org anello sia quella di contenere
l'informazione per la costruzione del-
l'apparato per la sintesi proteica del-
l'organello. Che il DNA dell'organello
sia infatti responsabile della sintesi del-
l'RNA rìbosomale dell'organello stesso
è stato dimostrato in vari organismi.
Una tecnica molto usata è quella di
isolare l'RNA rìbosomale degli orga-
22
23
1.68) 1,695 1,723
DENSITÀ (GRAMMI PER MILLILITRO)
I tre tipi di DNA estratti dall'alba unicellulare C. reinhardi, vengono rentrifugati in
un gradiente di cloruro di resto, in modo da separarli secondo la densità. In grafico
appaiono come Ire picchi olire al picco R che serve da controlio ed è ottenuto da
UNA sintetico. Il DNA più abbondante nella cellula (A), deriva presumibilmente dal
nucleo. Il picco di grandezza intermedia lill deriva probabilmente dai cloroplasti. 11
picco (C) si pensa che rappresenti il DNA milocondriale. ma non è ancora stalo
dimostralo. I dati sperimentali riportati sono siali ottenuti da Kwen-»heng Chiang.
FONDO
POSIZIONE ENTRO IL GRADIENTE
I ribosomi della C. reinhardi, centrifugali in un gradiente di saccarosio, danno luogo
a due picchi. Il maggiore è costituito di ribosomi citoplasmatici con un coefficiente dì
sedimentazione di 80 S. Il picco minore è costituito di ribosomi più leggeri (68 S),
probabilmente derivali dai cloroplasti. L'ampia banda di assorbimento all'estrema destra
è data dalla clorofilla. La curva è stala ottenuta da SJ. Surzychi dell'Università di Iowa.
24
nelli cresciuti in una coltura radioatti-
va e incubarli con DNA non radioat-
tivo per vedere se si forma tra loro un
complesso stabile, ovvero un ibrido.
L'avvenuta ibridazione indica che il
DNA contiene sequenze di nucleotidi
complementari alle sequenze dell'RNA
e quindi l'RNA è presumibilmente sin-
tetizzato sullo stampo del DNA. Que-
sti esperimenti hanno dimostrato una
complementarietà tra DNA milocon-
driale e cloroplastico e i loro corrispon-
denti RNA ribosomali. Un altro modo
per studiare lo stesso problema, segui-
to da Stefan J. Surzychi dell'Univer-
sità di Iowa, fa uso della rifampicina
l'antibiotico che inattiva l'RNA polime-
rasì DNA dipendente che si trova nei
batteri e nelle alghe azzurre. In pre-
senza di rifampicina la C. reinhardi non
è capace di sintetizzare le specie 16 S
e 24 S dell'RNA ribosomale dei cloro-
plasti, indicando che questi RNA sono
sintetizzati su uno stampo di DNA
cloroplastico.
Che cosa si può dire delle altre par-
ti dell'apparato per la sintesi proteica
degli organelli? Sia i mitocondri che i
cloroplasti contengono ai meno certe
specie dì t-RNA con proprietà differen-
ti da quelle dei loro corrispondenti cito-
plasmatici. Sono anch'essi trascritti da
geni localizzati nell'organello? Forse,
ma non necessariamente. Fino a che
non sarà stato dimostrato diversamen-
te, mediante esperimenti di ibridazione,
o in qualche altro modo, l'esistenza di
un particolare tipo di RNA in un or-
ganello non significa che esso debba
essere stato trascritto dal DNA dell'or-
ganello stesso. Per esempio il t-RNA
del citoplasma potrebbe migrare nel
cloroplasto o mitocondrio e venire ivi
modificato in qualche modo critico si
che le sue proprietà biochimiche sì
adattino al sistema di sintesi proteica
dell'organello.
IV oi abbiamo constatato che certi geni
nucleari codificano per le proteine
che si troveranno poi localizzate esclu-
sivamente negli organelli e che, nel ca-
so ben documentato del citocromo e
del lievito, il componente proteico del
citocromo è completamente sintetizza-
to sui ribosomi 80 S presenti nel cito-
plasma e poi trasportato dentro il mi-
tocondrio, Però, non c'è motivo di cre-
dere che questa via debba essere segui-
ta dal l'RNA messaggero derivante da
tutti i geni nucleari che codificano le
proteine degli organelli. Poiché i ribo-
somi sono chiaramente capaci di tra-
durre qualsiasi RNA messaggero ven-
ga a essi fornito, è possibile, sebbene
ancora non sìa stato dimostrato, che
l'RNA messaggero del nucleo venga
4 T,V* ^*Tj
■ - *»«
è.±
Batteri, cloroplasti e mitocondri presentano caratteristiche comu-
ni che fanno ritenere che questi moderni organelli e i batteri
possano avere antenati comuni. Il batterio cilindrico In sinistrai
è circondato da una parete e da una membrana cellulari, ma
non contiene organelli attaccali alla membrana. Contiene però
ribosomi fortemente addensali e nucleoidi, in cui si possono
vedere i filamenti di DNA, Anche il cloroplasto di C. reinhardi
■iti mézzo) ronticne ribosomi fortemente addensati e nucleoidi
con fi lamenti dì DNA, A destra si vedono due mitocondri di
C. reinkardi immersi nel citoplasma. Essi contengono .pochi
ribosomi e il DNA milocondriale non è visibile. Le tre fotogra-
fie, tulle ingrandite 50 000 volte, sono di Ursula W, Goodenoughi.
trasportato nell'organello e tradotto dai
ribosomi 70 S dell'organello stesso. Al
contrario, l'RNA messaggero dell'or-
ganello potrebbe venire tradotto sia nei
cloroplasti che nel citoplasma.
Queste considerazioni sono impor-
tanti per dare la corretta interpretazio-
ne a certi tipi di esperimenti. Per esem-
pio, è stato dimostrato che organelli
isolati incorporano amminoacidi in
proteìne relativamente insolubili che
si pensa facciano parte delle membra-
ne degli organelli. Questi esperimenti
indicano che gli organelli isolati con-
tengono RNA messaggero che porta
l'informazione per le proteine della
membrana, ma essi non possono da soli
dirci dove sono localizzati i geni per
queste proteine. Similmente, è stato di-
mostrato che la sintesi di certe protei-
ne specifiche degli organelli viene ini-
bita da antibiotici specifici per i ribo-
somi 70 S. mentre la sintesi di altre
proteine non viene inibita.
FJopo queste considerazioni, possiamo
riassumere quello che correntemen-
te e ipotelieamente si pensa sulla capa-
cità genetica degli organelli cellulari.
Probabilmente il DNA mitocondriale
contiene l'informazione per l'RNA ribo-
somale dei mitocondri, per almeno alcu-
ne proteine dei ribosomi mitocondria-
li e per certe proteine necessarie per
l'integrità strutturale e funzionale delle
membrane mitocondri ali. I ribosomi
mitocondriali sono impegnati nella sin-
tesi di alcune proteine, probabilmente,
ma non è stato ancora dimostrato, quel-
le codificate dal DNA mitocondria-
le. La maggior parte del complesso en-
zimatico dei mitocondri è chiaramente
codificato dal DNA nucleare e sinte-
tizzato nel citoplasma. Quindi il geno-
ma mitocondriale non sembra contene-
re molti geni, cosa che non fa mera-
viglia considerando le sue dimensioni.
Una tipica molecola di DNA (cromo-
soma) dei mitocondri di cellule anima-
li ha un peso molecolare di circa li
milioni, minore di quello dei più pic-
coli virus. Ciò significa DNA sufficien-
te per costituire forse da 10 a 25 geni
di media lunghezza. 4Mb
Il peso molecolare medio del DNA
cloroplastico è più diffìcilmente deter-
minabile, ma sembra che sia circa 300
volte più grande dì quello del DNA
mitocondriale e quindi dovrebbe essere
in grado di portare un'informazione
molto maggiore. Questa informazione
probabilmente include parecchi geni per
l'RNA ribosomale dei cloroplasti, al
meno alcuni per le proteine ribosomali
dei cloroplasti, parecchi geni per la
corretta organizzazione delle membra-
ne cloroplastiche e uno o più geni per
la sìntesi di un complesso fotosintetico
funzionale. Probabilmente i ribosomi
cloroplasitci sono impegnati nella sin-
tesi della maggior parte di queste pro-
teine. Nel C. reinhardi ì ribosomi dei
cloroplasti partecipano alla sintesi del-
la ribosio-!,5-fosfatocarbossilasi, enzi-
ma impegnato nella fissazione fotosin-
tetica dell'anidride carbonica. È noto
però che il DNA dei cloroplasti non
contiene l'informazione per la sintesi
di questo enzima.
Abbiamo studiato un ceppo mutan-
te di C. reinhardi chiamato ac-20 che
può fabbricare solo pochi ribosomi clo-
roplastici in certe condizioni di cresci-
ta. Le lesioni fotosintetiche e struttu-
rali di queste cellule sono molto simili
a quelle di cellule la cui sintesi proteica
viene bloccata dal cloramfenicolo, co-
me ci sì potrebbe aspettare. È signifi-
cativo il fatto che il gene ac-20 venga
ereditato secondo lo schema mende) ia-
no suggerendo che il nucleo può eser-
citare un controllo sulla sintesi dei ri-
bosomi degli organelli. 11 controllo nu-
cleare sulla sintesi del DNA degli or-
ganelli è pure stato riscontrato. Se si di-
mostrerà che il nucleo ha acquistato un
controllo sostanziale sulla produzione
dei sistemi genetici dell'organello in tut-
ti i casi, diventerà difficile capire per-
ché questi sistemi genetici continuino
a essere prodotti, per quale ragione i
mitocondri e i cloroplasti, tralasciando
la loro origine, non si siano evoluti in
semplici organelli contenenti enzimi la
cui perpetuazione è interamente con-
trollata dal nucleo. Sì può pensare che
questo non sia avvenuto perché il DNA
degli organelli contiene geni essenziali
le cui funzioni, per qualsivoglia ragio-
ne, non possono essere esplicate da ge-
ni nucleari e che almeno alcuni di que-
sti geni debbano essere trascritti e tra-
dotti da un sistema primitivo di sinte-
si proteica, simile a quello dei batteri.
25
Woodhengi
es
Il celebre monumento di Stonehenge è solo uno degli 80 complessi del
periodo neolitico noti in Gran Bretagna. Recenti scavi hanno rivelato
che essi racchiudevano all'origine strutture di legno e non di pietra
di Geoffrey Wainwright
I] complesso circolare in pietre mas-
sicce nella piana di Salisbury, cono-
sciuto con il nome di Stonehenge,
è cosi noto presso il pubblico da de-
formare l'idea che la maggior parte del-
la gente si è fatta sugli altri monu-
menti dello stesso tipo, costruiti nel pe-
riodo neolitico in Gran Bretagna. Tut-
ti questi monumenti consistono, essen-
zialmente, in un terrapieno circolare
che racchiude un fossato. In alcuni ca-
si, come a Stonehenge, il terrapieno
racchiude un gruppo di monoliti. Re-
centi ricerche archeologiche, condotte
in due fra i più grandi monumenti esi-
stenti in Gran Bretagna, hanno rivela-
to che i vasti terrapieni circondavano
delle strutture di legno e non di pietra.
Questa scoperta aumenta da due a quat-
tro il numero noto di questo tipo di
monumenti dalle strutture lignee, e a
otto il numero conosciuto di strutture
in legno all'interno di questi complessi.
II fattore più importante di questa sco-
perta è che, per mezzo di essa, si può
in parte capire la funzione per la qua-
le erano stati costruiti questi vasti com-
plessi del secondo millennio a.C. Per
un periodo che va dalla fine del terzo
millennio alla metà del secondo millen-
nio a.C, gli abitanti neolitici della Gran
Bretagna costruirono almeno 80 di que-
sti monumenti. In termini di fatica
umana lo sforzo fu veramente gigante-
sco. Per esempio, la costruzione di uno
dei quattro complessi più grandi, la
cerchia di Avebury nel Wiltshire, ri-
chiese lo scavo di un fosso circolare
profondo all'incirca 10 metri, largo un
po' più del doppio, e lungo più di un
chilometro. La terra rimossa servi per
innalzare una banchina, al di fuori del
fossato, alta quasi 6 metri e larga 25.
Si ritiene che l'impresa abbia richiesto
più dì un milione e mezzo di ore la-
vorative.
G i sono fatte molte ipotesi sul signifi-
cato di questi monumenti. Il prezzo
di energia umana complessivamente im-
piegato, suggerisce che la società di al-
lora fosse sufficientemente solida per
permettersi di trasferire la mano d'o-
pera dal compito principale, quale era
quello della produzione del cibo, a cosi
impegnative opere di costruzione. Ciò
che sappiamo sulla vita familiare nel
periodo neolitico in Gran Bretagna,
non può condurci a pensare che esistes-
se una società cosi ricca da permettere
la costruzione di simili monumenti. Gli
scavi condotti in queste due nuove co-
struzioni lignee, hanno avvalorato le
nostre ipotesi su questo, in apparenza
paradossale, enigma. Prima di dare un
resoconto delle nuove scoperte da noi
fatte sarà però utile collocare questi
monumenti nella loro esatta prospettiva.
I quattro monumenti più importanti
della Gran Bretagna neolitica sono si-
tuati tutti in una zona dell'Inghilterra
meridionale, nota per il gran numero di
altri monumenti di ogni dimensione ri-
trovati. Uno dei quattro, chiamato
Mount Pleasant, giace vicino alla costa
del Dorset, 96 chilometri a sud-ovest
di Stonehenge. Gli altri tre, da nord a
sud^^o: Avebury, Marden e Dur-
rington Walls nel Wiltshire. Sono tutti
sulle sponde del fiume Avon e distano
fra loro non più di una cinquantina di
chilometri. Alcuni lavori stradali in
quella zona, condussero il Dipartimento
alle antichità, divisione del Ministero
dei lavori pubblici, a intraprendere uno
studio archeologico a Durrington Walls
nel 1966-1967. Le scoperte fatte con-
dussero poi a intraprendere degli scavi
a Marden nel 1969.
II risultato di più di due secoli di
studi da parte di appassionati e di pro-
fessionisti, è che solo un quarto dei
molti monumenti neolitici scavati in
Gran Bretagna, hanno prodotto dei re-
perti che possono venire datati. Appare
però evidente, che la tradizione di co-
struire terrapieni circolari iniziò nelle
Isole Britanniche, verso il terzo millen-
nio a.C. All'inizio, 1 fossati intorno al-
le cerchia centrali non erano continui:
questi circoli interrotti -vennero definiti
con il nome di e zone rialzate » . L'evi-
denza archeologica ìndica che questi
primi terrapieni non erano, come inve-
ce era stato suggerito all'inizio, dei luo-
ghi di accampamento o dei recinti per
il bestiame. In molti di questi la quan-
tità di reperti che indicano animali ma-
cellati, strumenti per macinare cereali
e diversi tipi di terraglia, fa pensare,
piuttosto, che gente proveniente da va-
rie parti, si radunasse in queste zone
rialzate di tanto in tanto e in gran
numero. Anche oggi non si può visi-
tare uno di questi complessi neolitici,
senza pensare che fosse stato creato
per dei raduni pubblici. Il terrapieno o
banchina, più alto dell'area che rac-
chiude e che sembra ancora più alto
a causa del fossato profondo all'inter-
no, è una tribuna ideale per poter se-
guire le attività all'interno della cer-
chia. Niente di simile accoglie chi vì-
sita Durrington Walls, sebbene le sue
dimensioni siano abbastanza impressio-
nanti. La sua banchina esterna, in ori-
gine larga circa 28 metri, ha un diame-
tro approssimativo di oltre mezzo chi-
lometro e aveva un'altezza di 2,70 me-
tri dal livello del suolo. All'interno del-
la banchina si estende una superficie
piana, larga da 6 a 43 metri, sino alla
sponda del fossato in origine largo 15
metri e profondo quasi 6. Ho calcola-
to che la costruzione del fossato e del-
la banchina di Durrington Walls abbia
richiesto circa 900 000 ore di lavoro
umano.
Approssimativamente 12 ettari di
una vallata arida che scende verso il
fiume Avon, sono circondati dal terra-
pieno. Purtroppo, si può ora intrave-
dere ben poco dell'antico splendore del
monumento; secoli dì aratura hanno
del tutto cancellato il terrapieno, il fos-
sato e le tracce dei due « marciapie-
di » che servivano d'accesso alla cer-
chia sia da nord-ovest che da sud-est.
Ciononostante, non si può fare a me-
no d'immaginarsi la vista della vallata
26
Lo scavo che si vede in questa fotografia aerea, attraversa il
fossato che circondava Durrington Walls. All'incirca 27 me-
tri all'interno del recinto {al centro a destra), sono state
riportate alla luce tracce di una struttura lignea antecedente.
27
come doveva essere dalla sommità del-
la banchina e vìen fatto di domandar-
si se quel luogo non fosse stato scelto
proprio per quella ragione.
TV e! 1966, venne dato il permesso di
costruire una strada che attraver-
sasse la parte est della cerchia di Dur-
a
rington Walls a patto che venisse pri-
ma compiuta un'investigazione archeo-
logica su! posto scelto. Gli scavi, ini-
ziati ne! 1966 e completati nel 1967,
prevedevano lo scavo di una striscia
che seguiva il tracciato della futura
strada e comprendeva una parte del
fossato e del marciapiede dì sud-ovest.
N
Nel punto d'incontro tra il fossato e il
marciapiede, riportammo alla luce una
gran quantità di terraglie rotte, di ossa
di animali, di pietre focaie e di uten-
sili appuntiti fatti di corno di cervo.
Evidentemente tutti questi oggetti era-
no stati gettati nel fossato da chi era
passato dal marciapiede per entrare o
BANCHINA
FOSSATO
(SEZIONE)
Quattro dei maggiori complessi neolitici della Gran Bretagna
sono riprodotti nel disegno qui sopra. Essi sono: Mount Plea-
sant (a\ Avebury ib), Durrington Walls (e) e Marden (i). I
disegni mostrano le dimensioni attuali o ricostruite della ban-
china e del fossato di ogni complesso. 1 contorni delle strutture
di legno, che sono 6tale riportate alla luce a Diari ngton Walls
e a Marden, sono qui riprodotte in nero; l'insieme di pietre
che è stato riportato alla luce ad Avebury è indicato in colore.
uscire dalla cerchia.
All'i nei re a 27 metri all'interno di
questa, scoprimmo, nel corso degli sca-
vi, delle buche per pilastri che forma-
vano una complessa struttura circolare.
Esse giacevano, protette da una coltre
di terra arata e spessa circa un metro
e mezzo, in una zona piana del terreno
in fondo alla vallata. Procedendo con
gli scavi, divenne evidente il fatto che
non una, ma due strutture erano state
costruite nella zona che chiamammo la
cerchia meridionale. L'evidenza della
prima struttura ci venne data da una
serie di quattro cerchi quasi concentri-
ci di buche che dovevano avere soste-
nuto delle esili colonne di legno; il cer-
chio più esterno aveva un diametro
di circa 30 metri e quello piti interno
di un paio di metri. Questa prima strut-
tura era stata sostituita da una più va-
sta, formata da 6 cerchi, quasi concen-
trici, di pali. Molte buche della secon-
da struttura incrociavano o addirittura
avevano cancellato le impronte delle bu-
che della precedente struttura.
Il cerchio esterno di questa seconda,
aveva un diametro di 39 metri. Parten-
do dal cerchio più esterno, da noi con-
trassegnato come cerchio A, e arrivan-
do a quello più interno, cerchio E, le
buche aumentavano di misura. Le bu-
che di quest'ultimo cerchio avevano in
media un diametro un po' inferiore a
2 metri ed erano profonde poco più
di 2 metri; era evidente che esse ave-
vano sostenuto dei pali di circa 60 cm
di diametro. La struttura aveva una
sola entrata da sud-ovest, davanti al
marciapiede. L'entrata era indicata da
due buche più larghe di quelle del cer-
chio A. Una buca aveva un diametro
di 1,80 metri, e l'altra di 1,50; esse
avevano rispettivamente sostenuto dei
pali del diametro di 100 e di 90 cm.
Al dì fuori dell'entrata, si ergeva una
piattaforma costruita con blocchi di
gesso e breccia di selce. Su questa era-
no stati fatti bruciare dei fuochi e il
terreno intorno conteneva frammenti di
terraglia, di pietre focaie, pezzetti di
corno e ossa di animali. A nord della
struttura era stata ricavata, nello stra-
to di roccia gessosa, una cavità in par-
te circondata da uno steccato di palet-
ti. Questa cavità era riempita di terra
nera cinerina che conteneva anch'essa
frammenti di terraglia, di pietre focaie
e di ossa di animali.
Continuando con gli scavi, trovam-
mo i resti di una seconda struttura cir-
colare, circa 120 metri a nord della
prima. Chiamammo questa la cerchia
settentrionale; essa era molto più sem
plice e piccola della sua vicina. Quat-
tro larghe buche tracciavano il contor-
no di un cerchio interno del diametro
11 basso fossato di Marden visto durante ima fase degli scavi; la fotograna è presa
dal recinto. La supernee piana a sinistra, un po' più in basso di quella attuale, è il
marciapiede di accesso a nord. I sassi in alto a destra, sono ciò che rimane della
banchina che una volta formava un semiperimetro intorno al recinto di circa 15 ettari.
di 7,50 metri. Concentrico a questo
cerchio interno, trovammo un cerchio
di buche più piccole, de! diametro di
circa 14,50 metri. L'unica entrata guar-
dava quasi esattamente a sud e veniva
raggiunta attraverso una via tracciata
irregolarmente da pertiche di legno e
nascosta alla vista da pali disposti ai
due lati della strada, in fila e molto vici-
ni l'uno all'altro, perpendicolari alla via
d'accesso e a circa 6 metri di distanza
da questa.
Vi sono molti dati che permettono
di dimostrare che Durrington Walls
venne frequentato per più di 500 anni.
Analizzando il carbonio- 14 contenuto
in campioni di carbone trovati nel fos-
sato, si potè dimostrare che questo era
stato affondato nello strato di roccia
gessosa, ali 'incirca 2000 anni a.C. Una
delle buche della cerchia meridionale
conteneva frammenti di carbone, di os-
sa di animali e di corno; le analisi del
carbonio- 14 su questi resti, indicarono
che la più recente delle strutture fu
eretta fra il 2000 e il 1900 a.C. Fram-
menti di carbone, presi in due zone
del fossato dove vi era evidenza che
erano stati accesi dei fuochi, provaro-
no che questi fuochi erano stati accesi
a Durrington Walls fino al 1600 a.C.
I" a fondamentale domanda da porsi
sulle strutture di Durrington Walls
è se i pali di legno verticali fossero
parte di un qualche ornamento all'a-
perto, oppure se fossero invece il so-
stegno dì tetti. Il mio collega C.R. Mus-
son ha condotto delle ricerche su que-
sto problema. La sola forma di costru-
zione che egli pensa si adatti alla di-
sposizione delle buche della cerchia
meridionale di data più recente, è un
recinto a forma anulare, coperto da un
tetto di paglia, inclinato verso il basso
e in fuori, il cui colmo fosse all'altezza
del cerchio E. La costruzione dovrebbe
aver racchiuso un cortile centrale aper-
to e il tetto in pendio avrebbe dovuto
finire con un muro esterno, rappresen-
tato dal cerchio A (xi veda la figura nel-
la pagina seguente). Supponendo che la
pendenza del tetto sia di 25 gradi e
l'altezza esterna di circa 2.70 metri, il
tetto sarebbe stato alto poco più di
9,20 metri in corrispondenza al cerchio
E. I pali che formavano il cerchio F,
probabilmente rappresentavano un cir-
colo di pali verticali, posti nella corte
non con funzione di sostegno, ma come
ornamento centrale della costruzione.
Musson considera le buche della cer-
chia settentrionale come ì resti della
struttura di una costruzione a tetto, me-
no importante della prima, con un tet-
to di paglia esterno circolare a forma
di cono, e al centro, un « lucernario »
sorretto dai quattro pali grossi di cui
restano le tracce delle buche.
Da tutti gli scavi nelle varie zone di
Durrington Walls. abbiamo ricavato
una gran quantità di materiale, in rap-
28
29
porto a quanto poco è stato ricavato
dagli scavi negli altri monumenti del
genere. La terraglia appartiene a un
tardo esempio di ceramica del periodo
neolitico, conosciuta con il nome di
« Grooved Ware ». Nel riunire con at-
tenzione i vari pezzi di coccio, ci si ac-
corse che, talvolta, frammenti dello
stesso vaso erano depositati accura-
tamente in luoghi diversi. Per esem-
pio, dei frammenti dello stesso vaso
erano stati messi vicino ai vari pali del-
la cerchia meridionale. In un caso, il
frammento di un recipiente era stato
appoggiato contro un palo all'interno
della struttura, e un altro, invece, in un
cumulo insieme ad altri resti, al di fuo-
ri della stessa. Ritorneremo sull'argo-
mento per cercare di capire il signifi-
cato di queste azioni.
Le ricerche nel fossato, nelle buche,
sulla piattaforma e nel cumulo di ro-
vine, fruttarono un totale di circa
12 000 pietre focaie usate e di 360 at-
: - : "
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Il maggiore edificio di Durrington Walls è ricostruito in alto
a sinistra. La pianta delle buche (a destra al centro) mostra che
gli scavi non hanno riportato alla luce l'intera struttura. Il
B A
disegno della sezione (in basso a destra), mostra che la
lunghezza dei pali verticali aumentava verso l'interno. Questa è
la più recente delle due costruzioni della cerchia meridionale.
trezzi; tra questi vi erano 200 raschiet-
ti e 60 punte di frecce, quasi tutte del
tipo trasversale (si veda la figura qui ac-
canto). I 30 strumenti di osso trovali sul
luogo comprendevano dei punteruoli e
delle spille. Fra i resti di animali ven-
nero identificate in maggioranza ossa
di maiale. I resti completi o i frammen-
ti di 440 strumenti appuntiti fatti di
corno di cervo e usati, in quel periodo,
principalmente per scavare, ci danno
una qualche indicazione sullo sforzo
compiuto nel costruire le cerchia e per
innalzare le costruzioni interne.
Ideile operazioni di scavo compiute
su 29 monumenti in Inghilterra,
Galles e Irlanda, solo in 9 casi vi è evi-
denza di attività umana all'interno del-
le cerchia. Fu quindi con un certo pes-
simismo che Fanno scorso iniziammo
gli scavi a Marden, il più vasto dei
quattro grandi monumenti neolitici. Si-
tuato nella valle di Pewsey, in una pia-
nura bassa vicina alle sorgenti dell' A-
von, esso dista una quindicina di chi-
lometri da Durrington Walls, 13 chi-
lometri da Avcbuxy e comprende un'a-
rea dì 14 ettari. Secoli di aratura han-
no quasi completamente cancellato ogni
traccia del terrapieno e del fossato
che, in ogni caso, non formano un
cerchio; tutta la delimitazione della
cerchia a sud e metà del loro quadrante
ovest, è invece segnata dal corso del-
l'Avon {si veda la figura a pag. 28).
Marden è unico rispetto agli altri mo-
numenti neolitici, non solo per questa
caratteristica, ma anche perché le sue
due entrate, invece di essere diametral-
mente opposte, sono ad angolo retto,
una a nord e l'altra a est.
Trovandoci davanti a 14 ettari dì su-
perficie e avendo un periodo di tempo
a disposizione limitato, non sapevamo
da dove cominciare a lavorare. Data
la natura del sottosuolo e a causa delle
innumerevoli tane scavate dalle talpe,
non potemmo fare uso di nessuno de-
gli apparecchi per saggiare il terreno,
alla ricerca di tracce di eventuali strut-
ture lignee. Infine venne deciso di co-
minciare a scavare dall'entrata nord e
di ripulire anche 3 metri quadri all'in-
terno della cerchia, approssimativamen-
te a 30 metri dall'entrata. Prendemmo
questa decisione in seguito al succes-
so ottenuto con analogo metodo a Dur-
lington Walls, la cui cerchia sud venne
infatti scoperta all'incirca 30 metri al-
l'interno dell'entrata di sud-est, speran-
do che fra i due monumenti vi fos-
sero delle analogie.
Scoprimmo che il fossato di Marden
era stato largo più di 1 5 metri, ma pro-
fondo solo 2 metri circa. Le dimen-
sioni originali del terrapieno che l'ave-
Fra gli oggetti portati alla luce a Durrington Walls vi erano 440 punteruoli intatti o
in frammenti, ricavati da pezzi di corno; nella figura ne sono raffigurati due, le cui
dimensioni sono un quarto delle reali (a, 6). Fra gli oggetti di selce, trovati sul
luogo, 60 erano punte di frecce; quattro di esse sono qui riprodotte, in scala 2:3 ri-
spetto alla dimensione reale (e, d, e, /). Quasi tutti i frammenti di terraglie apparten-
gono al tipo Grooved Ware, comune in Gran Bretagna durante la tarda epoca neoli-
tica; due esempi sono qui riprodotti a un quarto della loro dimensione reale (g, h).
30
31
va circondato sono incerte. Come a
Durrington Walls, la parte del fossa-
to adiacente al marciapiede che porta-
va all'entrata, quando venne da noi sca-
vata, ci procurò quantità di vasi, pie-
tre focaie, strumenti appuntiti di cor-
no e ossa di animali, li gettati dalla
gente che entrava o usciva dalla
cerchia (si veda la figura qui sot-
to). Quando iniziammo i lavori nel-
le due zone prescelte all'interno della
cerchia, trovammo un'analogia pure qui
fra Marden e Durrington Walls. Du-
rante gli scavi scoprimmo un cerchio
di buche all'incirca di 9,70 metri di dia-
metro e altre tre buche poste in fila più
o meno al centro del cerchio. Il terre-
no sopra di esse era stato così smosso
da secoli di aratura che oramai era ri-
masto intatto solo il fondo di queste.
Le buche di Marden contenevano
pietre focaie e frammenti di terraglia.
Come quelli trovati nel fossato, anche
questi appartenevano allo stesso tipo
di ceramica Grooved Ware, trovata a
Durrington Walls, suggerendoci che
questi due luoghi, distanti fra loro solo
sedici chilometri, abbiano svolto una
funzione pubblica contemporaneamente
per un periodo di molti secoli. Può an-
che darsi, tuttavìa, che Durrington
Walls abbia avuto una vita più lunga.
Alcuni frammenti di terraglia li dissot-
terrati, mostrano l'influenza stilistica ti-
pica di un gruppo di persone emigra-
te dall'Europa, conosciuto con il nome
di Beaker, Questi nuovi arrivati costrui-
vano strumenti di rame e di bronzo, e
il loro arrivo segnò il principio della
fine del periodo neolitico in Gran Bre-
tagna, Nessuna traccia di frammenti di
tipo Beaker è stata trovata a Marden e
si può quindi dedurne che Durrington
Walls venisse frequentato in un perio-
do più tardo.
Questo verrà chiarito probabilmen-
te del tutto, quando le analisi del car-
bonio- 14 compiute sui resti organici ri-
trovati a Marden verranno rese note.
Gino a oggi, nessun lavoro archeo-
logico è stato intrapreso a Mount
Pieasant, il grande monumento nel Dor-
set. Qui l'aratura ha profondamente in-
cìso sullo stato del terrapieno e del fos-
sato; si può solo vedere che la cerchia,
un ovale di 274 metri per 366, aveva
una soia via d'entrata, posta nel qua-
drante di sud-est. Il quarto dei grandi
monumenti neolitici. Avebury, è sta-
to invece oggetto d'intensi studi. Ho
già accennato al suo terrapieno e al
suo fossato. Fra i due si estende
una striscia di terreno livellato che va-
ria in larghezza; l'accesso alla cerchia
è dato da quattro entrate separate, si-
tuate all'incirca a 90 gradi l'ima dal-
l'altra. Avebury è il solo in Gran Bre-
tagna ad avere tante entrate.
Come a Stonehenge, il terrapieno di
Avebury racchiude un gruppo di mo-
noliti, ma questa è la caratteristica co-
mune ad ambedue. Stonehenge consiste
essenzialmente di quattro fila di pie-
tre: due cerchi esterni concentrici e,
dentro di essi, due semicerchi a ferro
di cavallo, sempre concentrici. Il cer-
chio più esterno, che in origine consi-
steva di 30 monoliti verticali, ha un
diametro dì circa 30 metri e il terra-
pieno che lo circonda un diametro di
M
»•**
^a
La maggior parie degli oggetti di Marden, è stata ritrovala al-
l'incrocio del marciapiede nord con il fossato. Nella fotografìa
ai possono vedere vari punteruoli di corno e frammenti di
ossa di animali, inclusa parte della mandinola di un maiale,
che ancora giacciono nelle stesse posizioni dove sono stali ab-
bandonati dagli antichi visitatori del grande complesso neolitico.
90 metri. Al contrario, il grande cer-
chio di pietre dì Avebury, immediata-
mente all'interno del fossato, ha un dia-
metro di più di 300 metri e in origine
può darsi abbia contenuto un totale di
98 grandi monoliti. All'interno di que-
sto insieme di pietre, vi erano due cer-
chi, sempre di pietre, entrambi più
grandi di Stonehenge. Quello a nord
ha un diametro di quasi 50 metri;
quello a sud, due metri di più. I
monoliti di Avebury sono blocchi di
arenaria locale formati naturalmente e
non ricavati dalla roccia. Da secoli, la
gente del posto se ne è servita, spez-
zandoli uno dopo l'altro, e ora non ne
rimane che meno della metà di quanti,
in origine, avevano formato l'intera
struttura.
Nel 1930 un ricco appassionato di ar-
cheologia, Alexander Keiller, esegui de-
gli scavi in alcune zone della cerchia
di Avebury. La sua ricerca nel fossato
riportò alla luce cosi pochi oggetti da
far ritenere che Avebury fosse stata de-
liberatamente mantenuta pulita dai suoi
visitatori neolitici. Sulla superficie ori-
ginale, sotterrati sotto il terrapieno.
Keiller ritrovò dei resti fra i quali dei
frammenti di Grooved Ware e due pun-
te di freccia in selce del tipo trasver-
sale, cosicché si può dedurne che il luo-
go sia stato frequentato nello stesso pe-
riodo di Durrington Walls e Marden.
Dai tempi di Keiller nessun altro sca-
vo è stato fatto nella cerchia di Ave-
bury,
/"'osa possiamo dedurre dai dati, an-
che se sommari, dello studio di tre
dei quattro monumenti neolitici più im-
portanti della Gran Bretagna? Soffer-
miamoci prima un momento a conside-
rare altri fatti che riguardano Avebury
e ciò che lo circonda. Un « viale » di
pietre conduce dal monumento a un
punto distante quasi 2 chilometri, do-
ve si trova una pìccola costruzione di
pietre, conosciuta con il nome di * San-
tuario ». formata da cerchi concentrici
di pietre verticali. Degli scavi condotti
nel 1930 rivelarono, però, che il san-
tuario non era sempre stato una strut-
tura di pietra. All'origine era stato fat-
to in legno e ricostruito in legno alme-
no due volte prima di raggiungere la
sua definitiva struttura di pietra. Un
cerchio di buche, del diametro circa
di 4 metri, forma la prima struttura,
probabilmente una capanna. Questa
venne sostituita da una seconda strut-
tura in legno del diametro di circa 10
metri che, a sua volta venne sostituita
dalla terza, sempre in legno, dei diame-
tro di circa 18 metri.
I monumenti di pietra, possono quin-
di in origine essere stati di legno. Per
Parie dello scheletro di un essere umano adulto è stata ritrovata tra i riliuti nel fos-
sato di Marden. 11 peso del terreno che lo ricopriva ne ha schiacciato il cranio.
quanto riguarda il Santuario, la cosa è
stata provata; solo altri studi potranno
provare se si può dire lo stesso per il
monumento di Avebury. In questo
caso, è interessante la scoperta fatta
nel 1920 da William Hawiey della So-
ciety of Anliquaries, a Stonehenge,
quando vennero alla luce molte buche,
alcune delle quali possono appartenere
al periodo che a noi interessa, anche se
la più gran parte del recinto centrale
è ancora inesplorata. A Stonehenge so-
no state pure ritrovate terraglie del tipo
Grooved Ware.
A Durrington Walls vi è un piccolo
monumento di pietra solo 55 metri al
di fuori del recinto centrale. Noto con
il nome di « Woodhenge * , fu sottopo-
sto a scavi tra il 1926 e il 1928. Come
il suo nome indica, in origine aveva una
struttura di legno; i suoi resti sono 6
cerchi concentrici di buche. I cerchi
formano un disegno ovale e hanno un
diametro massimo di 40 metri.
Stuart Piggott dell'università di Edim-
burgo, nel 1940, suggerì che le buche
significavano la presenza, in passato, di
un solo grande edificio, probabilmen-
te con un cortile centrale aperto e un
tetto che scendeva, sia all'interno che
all'esterno, da un alto colmo centra-
te. Il mio collega Musson suggerisce,
come alternativa, che le buche della co-
struzione lignea siano ì resti di due
strutture di legno consecutive, ciascuna
con un cortile centrate ma con un solo
tetto inclinato all'esterno come a Dur-
rington Walls. Non vi sono indicazioni
che suggeriscano quali delle due rico-
struzioni sia la giusta.
Tuttavia, è evidente che le tre strut-
ture di Durrington Walls e quella sco-
perta a Marden, sebbene siano scoper-
te recenti, non sono le sole strutture in
legno conosciute nei monumenti neoli-
tici inglesi. Tre di esse vennero erette
consecutivamente nel Santuario, una o
due (a seconda di quale interpretazio-
ne si preferisca) a Woodhenge, proba-
bilmente una a Stonehenge e vi è la pos-
sibilità che ve ne siano altre a Avebury
e altre ancora a Mount Pieasant, Dur-
rington Walls e a Marden.
Prima di fare delle congetture sull'u-
so al quale queste strutture erano de-
stinate, vediamo cosa ci possono rivela-
re sulla costruzione centrale le rovine
di Durrington Walls, preservate in mo-
do ammirevole.
T dentificando i resti di carbone trova-
ti nelle buche della cerchia meridio-
nale, si potè sapere che il materiale per
la struttura della costruzione posterio-
re era la quercia. Il diametro dei pali
può venir desunto dalla grandezza del-
le buche che essi occupavano; per ciò
che concerne la toro altezza si sono
fatti dei calcoli sulla base della rico-
struzione di Musson. In aggiunta ai pa-
li, devono essere state usate delle tra-
vi di legno più piccole per controven-
tare e per intelaiare la struttura che so-
steneva il tetto di paglia. Dai calcoli
fatti risulta che più di 900 metri lineari
di tronchi di varie dimensione erano
32
33
®
occorsi per costruire i pali per la strut-
tura portante e più di 1350 metri di
legname più piccolo per travi, travetti
e altri elementi. 1 due pali all'entrata,
i più grossi dell'intera costruzione, pe-
savano rispettivamente all'i ncirca 5 e
3,5 tonnellate; il peso totale del legna-
me utilizzato deve essere stato di 260
tonnellate. Si dovrebbero abbattere al-
l'incirca 145 ettari di foresta dì quercia
per ottenere la stessa quantità di legna-
me, tuttavia questa struttura in legno
era solo una delle varie esistenti nella
zona. Non è quindi un'esagerazione af-
fermare che la distruzione del patrimo-
nio boschivo del sud dell'Inghilterra
deve aver avuto inizio al principio del
secondo millennio a.C.
Sebbene vadano considerate molte
variabili, è possibile valutare la durata
delle costruzioni. Ricerche compiute al
Forest Products Research Laboralo-
ry, mostrano come la resistenza dì
un palo di legno conficcato vertical-
mente nel suolo, è direttamente pro-
porzionale al suo diametro. I pali di
quercia, come quelli usati a Durrington
Walls, hanno una probabilità di resi-
stenza vitale di circa 15 anni per ogni
2,30 cm di raggio. Calcolando i tempi
su questa base, la costruzione posterio-
re della cerchia meridionale ha resisti-
to da un minimo di 100 a quasi 200
anni. Gli enormi pali all'entrata sareb-
bero rimasti in piedi rispettivamente
per 270 e 315 anni; ma poiché essi
non sono degli elementi chiave della
struttura, la loro durata non è determi-
nante per valutare la vita complessiva
della costruzione stessa. Il probabile
investimento in ore lavorative necessa-
rie per tagliare il legname e per erigere
la costruzione non pare eccessivo se
ammortizzato in più di un secolo.
Quale era la funzione di questi mo-
numenti lignei? La prima domanda da
porsi è se questi fossero delle abitazio-
ni o costruzioni ideate e realizzate per
scopi pubblici. Il cortile aperto al cen-
tro di Woodhenge e quello centrale or-
nato di pali decorativi di Durrington
Walls, sembrano ambedue più adatti
per cerimonie che per usi domestici.
Il viale di arrivo e la facciata che
protegge alla vista la struttura nord di
Durrington Walls sono altri aspetti che
non sembrano adattarsi a un contesto
domestico. Si deve inoltre considerare
che l'ultima struttura in legno, il San-
tuario, fu sostituita da cerchi di mono-
liti, congiunti al gran recinto di Ave-
bury da un viale. Quest'ultima disposi-
zione in pietra dà certo l'impressione
di essere ritualistica. Non può essere
stata la stessa cosa per le anteceden-
ti costruzioni in legno? Un'altra ra-
gione per suggerire delle attività socia-
li, piuttosto che domestiche in tutti que-
sti monumenti lignei, è la natura e la
posizione degli oggetti li ritrovati, in
particolare dei frammenti di terraglie.
Non sì può mettere insieme un solo
vaso, sebbene a Durrington Walls, nel
fossato e nelle altre parti, si siano tro-
vati enormi quantità di vasellame e al-
cuni pezzi, trovati in luoghi diversi,
appartenessero allo stesso oggetto. È
difficile distinguere fra i rifiuti di una
occupazione domestica e ì detriti la-
sciali da pratiche religiose; tuttavia il
vasellame trovato a Durrington Walls.
non suggerisce in alcun modo un im-
piego domestico di questi luoghi. Un
paragone etnografico di questi monu-
Un cerchio di huclie del diametro di circa 9 m, è stato trovato 30 m all'interno della
entrata nord di Marden. Secoli di aratura hanno cancellato lutto fuorché il loro fondo.
menti, può venir fatto con le * Sedi di
Consiglio » degli indiani Creek e Che-
rokee nel diciassettesimo e diciottesi-
mo secolo, delle quali abbiamo molte
descrizioni lasciateci da chi fece i pri-
mi viaggi nell'America del nord meri-
dionale. Il paragone è particolarmen-
te interessante perché oltre ad avere
delle testimonianze visive, esiste pure
una dettagliata descrizione archeolo-
gica di una di queste strutture. Essa
era stata eretta fra il 3 500 e il 1600
d.C. su un promontorio del fiume Sa-
vannah, e venne messa alla luce du-
rante gli scavi compiuti da studenti
dell'Università di Georgia fra il 1937 e
il 1940. Per colmare le lacune che esi-
stono in ambedue le documentazioni,
considerate singolarmente, possiamo
andare dall'evidenza etnografica a quel-
la archeologica e viceversa, attingendo
informazioni da entrambe.
Il naturalista William Bartram. de-
scrivendo una sede del consiglio Creek
del 1700, scrisse: « La grande... casa
o rotonda... è una costruzione vasta e
conica o un duomo circolare, capace di
accogliere centinaia di persone. Vi è
una sola grande porta che serve anche
a immettere luce dal di fuori e a per-
mettere al fumo di uscire quando vie-
ne acceso il fuoco ». Nel discutere que-
sta costruzione Bartram dichiara: « Es-
si fissano per prima cosa nei suolo una
fila circolare di pali o tronchi d'albero
alti approssimativamente 2 metri, a
uguale distanza uno dall'altro, i quali
vengono intagliati all'estremità per in-
castrarvi, tra l'uno e l'altro, una serie
di travi o piani di posa: all'interno di
questi vi è un'altra serie circolare di
pilastri molto larghi e forti, intagliati
all'estremità allo stesso modo per ac-
cogliere un'altra serie di travi s>. Secon-
do Bartram una delle attività che si
svolgevano nella sede del consiglio,
era rappresentata dal bere una bevan-
da sacra chiamata « cassine ». Essendo
questa bevanda sacra, anche il vasel-
lame usato in quelle occasioni può
aver assunto un carattere speciale.
La sede del consiglio, scavata in
Georgia, era parte dell' « Irene Mound ».
Oltre ai resti della costruzione circo-
lare, che aveva una sola entrata, un
posto adibito a focolare e un diametro
esterno di più di 35 metri, furono mes-
se alla luce un gran numero di abita-
zioni domestiche di forma quadrata e
rettangolare. La forma della struttura
principale era evidente dal disegno for-
mato da sei cerchi concentrici di sol-
chi profondi che accoglievano un tem-
po delle palizzate. Il cerchio più esterno
era il muro della sede del consiglio; gli
altri cinque cerchi più interni costitui-
vano i tramezzi che incorporavano i
supporti del tetto. Proprio fuori dal
34
muro esterno, si trovò una grossa fossa
per i rifiuti contenente solo i frammen-
ti di recipienti di coccio contempora-
nei alla struttura stessa. Gli archeologi
pensarono che t recipienti fossero sta-
ti usati per bere il cassine, e poi messi
nella fossa, dopo averli rotti intenzio-
nalmente o per caso. Il paragone fra
l'eliminazione del vasellame delle ceri-
monie degli indiani del Nuovo Mondo,
e l'accurata ripartizione a Durrington
Walls di alcuni dei pezzi di coccio neo-
litici, sebbene non completo, fa pensa-
re a dei riti in ambedue i casi.
Senza troppo sforzo, nonostante la
differenza di era di più di 3000 anni.
la descrizione di Bartram sulla sede del
consiglio Creek nel diciottesimo secolo,
può venire applicata ai monumenti neo-
litici della Gran Bretagna. Ci viene.
cost> la tentazione di sfruttare la cono-
scenza che abbiamo dell'uno, per ri-
spondere alle domande che ci poniamo
sugli usi sconosciuti degli altri. Ciò,
evidentemente, non si può fare, non so-
lo perché ce lo impedisce la diversità
di era, ma anche la distanza geografica
e le immense differenze di cultura. Tut-
tavia, in ciò che è minimamente pa-
ragonabile, troviamo la conferma che
le strutture neolìtiche erano adibite a
qualche funzione pubblica e non a uso
domestico.
presumendo che questa ipotesi sia
corretta, ne conseguono subito altre
domande. Queste strutture erano dei
templi? Oppure avevano uno scopo più
laico? Potevano avere una funzione al-
lo stesso tempo religiosa e laica? So-
pralluoghi fatti con i magnetometri che
indicano le discontinuità del suolo,
hanno portato a pensare che, un tem-
po, vi fossero state all'interno della
cerchia di Durrington Walls, molte al-
tre costruzioni lignee; cosi come si può
pensare di Marden e degli altri luoghi
simili. Se questa ipotesi è esatta, si
tratta di monumenti aperti al pubblico
che, di tanto in tanto, li visitava pro-
venendo da abitazioni ancora non sco-
perte? Oppure, come nel caso di Irene
Mound. essi includevano sia gli edifici
pubblici che quelli privati? La struttu-
ra di questi ultimi, durante il perio-
do neolitico, è ancora praticamente
sconosciuta, eppure essi devono essere
esistiti per provvedere alla mano d'o-
pera necessaria per erigere i grandi ter-
rapieni dell'epoca e per costruire gli
edifici in essi racchiusi. Mancando ogni
indicazione che questi edifici privati
possano essere scoperti altrove, occor-
re iniziare la loro ricerca proprio al-
l'interno della cerchia di Durrington
Walls, di Marden, di Mount Pleasant e
di Avebuxy.
LA BIOSFERA
Il fascicolo monografico di dicembre 1970 di LE SCIENZE
edizione italiana di SCIENTIFIC AMERICAN è dedicato ai
problemi della biosfera e all'influsso della tecnologia sull'am-
biente. Esso contiene i seguenti contributi:
La biosfera
di G. Evelyn Huichinson
Come la sottile pellicola di so-
stanza vivente della Terra è so-
stenuta da cicli energetici e
chimici su grande scala.
Il ciclo energetico della Terra
di Abraham H. Oort
L'energia solare assorbita dalla
Terra viene alla fine reirradia-
ta nello spazio extraterrestre
ma solo dopo essere stata di-
stribuita sul nostro pianeta dal-
la circolazione atmosferica e
oceanica.
Il ciclo energetico
della biosfera
di George M, Woodwetl
La vita si mantiene grazie alla
quantità finita di energia sola-
re che è fissata dalle piante
verdi. Una frazione sempre
maggiore di quest'energia vie-
ne deviata oggi a diretto van-
taggio di un'unica specie:
l'uomo.
Il ciclo dell'acqua
di H, L. Penman
L'acqua, il mezzo in cui si svi-
luppa la vita e sorgente del-
l'idrogeno a essa necessario,
fluisce nella materia vitale so-
prattutto attraverso il meccani-
smo della traspirazione.
Il ciclo dell'ossigeno
di Presto n Cloud e Aharon Gibor
L'ossigeno fu introdotto nell'at-
mosfera dai primi organismi
vegetali. Essi hanno reso pos-
sibile l'evoluzione delle piante
superiori e degli animali.
Il ciclo del carbonio
di Beri Boiin
Il ciclo fondamentale si com-
pie tra l'anidride carbonica at-
mosferica e la materia vivente.
Una parte del carbonio, tutta-
via, viene accumulata in grandi
quantità sotto forma di compo-
sti nelle rocce sedimentarie.
Il ciclo dell'azoto
dì C. C. Deiwiche
L'azoto costituisce il 79 per
cento dell'atmosfera, ma non
può essere usato direttamente;
deve prima essere « fissato »
da organismi specializzati o
mediante processi industriali.
I cicli inorganici
di Edward S. Deevey jr.
La biosfera è composta in pre-
valenza da idrogeno, carbonio,
azoto e ossigeno. Altri elemen-
ti sono, tuttavia, costituenti es-
senziali della materia vivente:
tra essi, in particolare, il fosfo-
ro e lo zolfo.
L'industria umana
e la biosfera
di Harrìson Brown
Materiali come i metalli e il ce-
mento non si riproducono. Il
problema è di organizzare ci-
cli di utilizzazione che conser-
vino queste risorse naturali e
che impediscano il loro accu-
mularsi sotto forma di rifiuti.
La produzione di alimenti
di Lester R. Brown
II rapporto tra aumento della
popolazione umana e aumento
della produzione alimentare
pone un problema: quante per-
sone la biosfera può sostenere
senza pregiudicare il comples-
so delle sue operazioni?
La produzione di energia
dì S. Fred Singer
Liberando l'energia immagaz-
zinata nei combustibili fossili e
nucleari, l'uomo accelera lenti
cicli naturali. I prodotti di rifiu-
to che si hanno in questa pro-
duzione vanno a interagire con
cicli veloci della biosfera.
L'ingegneria ambientale
di Luigi Mendìa
Gli sviluppi della tecnologia
vanno controllati secondo una
coscienza ecotecnica.
L'Italia e i problemi della biosfera
Tavola rotonda con la partecipazione di: Enzo Capaccioli, Emi-
lio Gerelli, Luigi Mendia, Giorgio Nebbia, Roberto Passino, Ma-
rio Pavan, Gabriele Scimemì. Moderatore Felice Ippolito.
35
Intelligenza e razza
Hanno una base genetica le differenze tra bianchi e negri nei valori di
quoziente d'intelligenza (Q.L)? Due genetisti esaminano criticamente i
dati disponibili e concludono che attualmente è impossibile rispondere
dì Walter F. Bodmer e Luigi Luca Cavalli Sforza
In quale misura differenze di com-
portamento tra classi sociali e ira
razze potrebbero avere una deter-
minazione genetica? 11 problema viene
discusso spesso, anche se generalmen-
te non a livello scientifico. Recentemen-
te un esperio dì psicologia dell'educa-
zione, Arthur R. Jensen, e un fisico,
William Shockley, hanno richiamato
l'attenzione sulle differenze medie d'in-
telligenza, quale viene misurata dal
Q.L, tra bianchi e negri degli Stati
Uniti. Noi siamo genetisti interessati al-
lo studio dell'interazione tra eredità e
ambiente. Lo scopo di questo nostro ar-
ticolo è di esaminare criticamente, so-
prattutto per i non genetisti, il signifi-
cato dei termini razza e Q.I.. nonché le
metodologie utilizzate per stabilire in
che misura il Q.L sia ereditario. Questo
esame può fornire la base per una va-
lutazione oggettiva della evidenza ri-
guardante l'esistenza di una componen-
te genetica nelle differenze di Q.L tra
razze e tra classi.
Prima di tutto bisognerebbe defini-
re i termini «eredità», «intelligenza»
e « razza ». Il termine * eredità » si ri-
ferisce a tutte le caratteristiche dell'in-
dividuo che questi eredita dalle prece-
denti generazioni. L'unità funzionale
primaria dell'eredità è il gene. L'intero
corredo genetico di un individuo è in-
dicalo con il termine di genoma e con-
siste nell'uomo di circa dieci milioni di
geni. Alcuni di questi geni, e la loro
espressione, possono essere analizzati a
livello biochimico. Caratteri comporta-
mentali complessi come l'intelligenza
subiscono però probabilmente l'influen-
za dell'azione combinala di molti geni.
A tal riguardo giova osservare subito
che mentre e possibile fare previsioni
attendibili circa l'ereditarietà di quelle
differenze che sappiamo essere determi-
nale da uno o da pochi geni, non è pos-
sibile fare altrettanto circa l'ereditarietà
di caratteristiche più complesse, perché
mancano ancora adeguati mezzi di in-
dagine.
Che cosa è l'intelligenza? Non è fa-
cile formulare una rigorosa e obietiiva
definizione di questo complicato carat-
tere, ma per i fini di questa discussione
ci si può limitare a qualità che pos-
sono essere oggettivamente osservale
e misurate. Fra gli strumenti atti a que-
sta misurazione si annovera il reattivo
mentale di Stanford-Binet, realizzato
per misurare le capacità di apprende-
re, o, più in generale, la capacità di
trarre profitto dall'esperienza.
I reattivi per misurare l'inlelligenza
si fondano sulla risoluzione di brevi
problemi di vario genere, nonché sulla
risposta a domande semplici. Il punteg-
gio totale viene standardizzato per una
certa età confrontandolo con i valori di
un grande campione di una determinata
popolazione (per esempio, i bianchi na-
ti negli Stali Uniti). Il punteggio finale
standardizzato che va sotto il nome di
Q.L. viene abitualmente espresso in una
scala che pone la media della popola-
zione dì riferimento uguale a 100, con
una distribuzione tale che il 70 % de-
gli individui hanno un Q.L tra 85 e 115
e il 5 "b un Q.L o sotto 70 o sopra 130
(la misura di variabilità indicata con il
termine di deviazione standard corri-
sponde dunque, nel caso del Q.L. a cir-
ca 15 punti!
Con il reattivo di Stanford-Binet e
con gli altri reattivi dello stesso tipo,
si ottengono risultati suscettibili di re-
cìproco confronto. Sono stati compiuti
tentativi anche più ambiziosi per mi-
surare il « fattore generale dell'intelli-
genza », e vi sono psicologi tanto otti-
misti da ritenere che i reattivi di que-
sto tipo possano effettivamente misu-
rare una abilità * innata » potenziale.
Tuttavia bisogna notare che tutti i reat-
tivi mentali saggiano necessariamente
l'abilità posseduta da un soggetto a una
determinala età della sua vita. Poiché
tale abilità è il prodotto di una combi-
nazione fra la disposizione innata e
l'esperienza del soggetto stesso, i reatti-
vi d'intelligenza sono necessariamente
test di abilità acquisita.
Questa limitazione risulta confermata
dal fatto che il valore diagnostico di
tulli i test d'intelligenza è funzione del
particolare ambiente culturate. L'appli-
cazione di un determinato reattivo a
soggetti di cultura differente da quella
per cui è stato realizzato è difficile e in
qualche caso impossibile. Fino a oggi
i tentativi di costruire reattivi assoluta-
mente * lìberi da influenze culturali s
sono regolarmente falliti.
L'utilità dei reattivi mentali può es-
sere verificata attraverso l'esame della
loro attendibilità (che è la costanza a
breve terni ineì, stabilità ( che corrispon-
de invece alla costanza a lungo termi-
ne) e validità. Per quanto riguarda il
reattivo di Stanford-Binet la differenza
modi li tra prove ripetute a brevi inter-
valli varia da 5,4 punti - quando il Q.L
è di 130 - a 2.5 punti - quando il Q.L
è inferiore a 70 - indicando una ripro-
ducibilità piuttosto alta.
A lungo termine la consistenza è me-
no marcata, soprattutto se il soggetto ha
subito la prima prova in età inferiore
ai sci anni. La ripetizione della prova
a distanza di anni può far registrare
forti discrepanze (persino di 20 o 30
punti), tanto più pronunciale quanto
più lungo è l'intervallo fra una prova
e l'altra.
La validità di ogni reattivo viene
giudicata in riferimento ai suoi scopi
preditevi. Se lo scopo è quello di pre-
dire future prestazioni scolastiche al-
lora la validità è misurata dalla bontà
delle previsioni del Q.I. riguardo alle
prestazioni. A ogni modo tutte le pre-
dizioni hanno un carattere di probabi-
lità, nel senso che un alto Q.L si as-
socia a un buon rendimento scolastico
in un elevato numero di casi, ma non
in tutti. Tuttavia si è in genere d'accor-
do che vi è una alta correlazione tra
Q.L e successo scolastico. La stessa cor-
relazione esiste in ordine al successo
nelle professioni e. più in generale, nel-
la società. 1 test di intelligenza hanno
dunque un certo valore prediti vo, in
senso probabilistico. In questo senso
si può dire che i test per la misurazione
del Q.L hanno qualche validità.
T e razze sono sottogruppi che si diffe-
renziano nell'ambito di una detcr-
minata specie. La specie umana, come
ogni altra specie, è composta di indivi-
dui cosi somiglianti gli uni agli altri
per ciò che riguarda la costituzione ge-
netica che in linea teorica qualunque
maschio può congiungersi a qualunque
femmina e dar vita a una prole fer-
tile. La specie umana e caratteriz-
zala da un'alta mobilità territoriale,
tanto che nel corso dell'evoluzione es-
sa si è distribuita su tutta la superficie
della Terra. Tuttavia sono molti gli in-
dividui che. anche ai nostri giorni, tra-
scorrono l'intera esistenza sempre nel
medesimo luogo. Questo tipo di com-
portamento, insieme con le barriere
geografiche e quelle d'altra natura, fa
st che in diverse parti del mondo esi-
stono popolazioni in condizioni di ac-
centuato «isolamento produttivo».
Poiché i diversi habitat di una spe-
cie possono differire profondamente tra
loro per ciò che concerne le caratte-
ristiche ecologiche - quali la composi-
zione del suolo, il clima, la flora e la
fauna - la selezione naturale, cioè il
processo per cui preferenzialmente so-
pravvivono e si riproducono i soggetti
meglio adattati al loro habitat, porta
inevitabilmente alla formazione di ca-
ratteristiche che differenziano l'uno dal-
l'altro i gruppi isolati. In più, l'isola-
mento riproduttivo favorisce l'emer-
genza di un fattore di differenziazione
correlato con le fluitazioni statistiche
casuali che le caratteristiche geniche di
qualsiasi popolazione subiscono nel suc-
cedersi delle generazioni; tale processo
va sotto il nome di deriva genetica.
Nell'ambito di una specie i sotto-
gruppi isolati tendono dunque a diffe-
renziarsi. Il processo si svolge con estre-
ma lentezza: centinaia o addirittura mi-
gliaia di generazioni possono essere ne-
cessarie perché certe differenze biolo-
giche diventino apprezzabili a prima
vista. A ogni modo, noi indichiamo
quei soltogruppi con il termine di razze
quando, per il tempo trascorso, le ca-
ratteristiche che li differenziano sono
diventate palesi.
Nella specie umana la differenziazio-
ne biologica è di solito accompagnata
o preceduta da una differenziazione
culturale: un processo, questo, che si
svolge con una velocità di gran lunga
superiore a quella dell'evoluzione biolo-
gica. 1 due tipi di differenziazione ine-
vitabilmente interagiscono. Infatti le
differenze culturali possono contribuire
alla perpetuazione delle barriere geo-
grafiche che hanno determinato l'isola-
mento riproduttivo. Per esempio, diffe-
renze d'ordine religioso possono pro-
muovere l'isolamento riproduttivo. Ne-
gli Stati Uniti le differenze relative alla
pigmentazione cutanea, riflesso di una
differenza biologica, riducono le pro-
babilità di matrimonio fra i gruppi raz-
ziali. Tuttavia la rarità di questi scambi
è probabilmente attribuibile anche a un
atteggiamento psicologico che non di-
pende direttamente dalla differenza di
colore ma piuttosto da divergenze cul-
turali che si accompagnano a quel trai-
lo somatico.
6 straordinariamente diffìcile stabili-
re quale sia la rispettiva incidenza dei
fattori biologici e dei fattori culturali
nella determinazione di fatti complessi
quali le differenze di comportamento,
comprese quelle che distinguono le raz-
ze. A tal riguardo è utile considerare
prima di tutto le differenze razziali che
possono essere facilmente attribuite a
fattori biologici. È chiaro, per esem-
pio, che le differenze relative alla pig-
mentazione cutanea sono generalmente
di natura biologica. In certi casi il ca-
rattere della pigmentazione cutanea può
essere determinato da un qualche fat-
tore non genetico, che opera durante
la vila di un individuo (l'irradiazione
solare è uno di questi fattori). Si tratta
allora di un adattamento fisiologico a
breve termine, quasi sempre reversibile.
A parte questi processi adattativi, le dif-
ferenze di pigmentazione cutanea fra
le diverse razze o fra i lipi di una raz-
za hanno origine genetica.
In realtà molte differenze tra indivi-
dui sono interamente sottoposte al
conUollo genetico, e perciò sottratte a
qualsiasi processo di adattamento fisio-
logico, sia pure di modesta portata co-
me quello ricordato a proposito della
cute. Le differenze genetiche di questo
tipo, quando le versioni alternative dei
geni che le determinano si riscontrano
in una determinata popolazione con
una certa frequenza, vanno sotto il
nome di polimorfismi genetici. Di soli-
to esse possono essere rilevate median-
te l'analisi biochimica o immunologica,
come nel caso dei gruppi sanguigni del
sistema ABO (in questo sistema si di-
stinguono quattro gruppi sanguigni, in
rapporto alla distribuzione di tre geni :
A, B. O).
Vi sono profonde differenze fra le
varie razze per quanto riguarda l'inci-
denza statistica dei geni polimorfici.
Per esempio, nelle popolazioni orientali
la frequenza dei geni A, B, O è rispetti-
vamente del 49 per cento, del 1 8 per
cento e del 65 per cento; nelle popola-
zioni caucasiche è invece del 29 per
cento, del 4 per cento e del 60 per cen-
to. Questi polimorfismi sono di prezioso
aiuto quando si vuole stabilire la natura
e l'entità delle differenze e delle somi-
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è $ a é è
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PUNTEGGIO Q.I.
Per quanto riguarda il 0-1- la differenza tra nianrii) e neri statunitensi emerse dui con-
fronto Ira un campione rappresenlativo di bianchi (ftiruu col rirafni e un campione ili
18111) scolari negri dell'Alabama, della Florida, della Georgia, del Tennessee e della
Carotina de-! -ud irunm nemi, Wallace A. Kennedy della Florida State University, che
si è orrtipalo dell'indagine, ha arcertato che per il secondo gruppo il Q.I. medio era
8U.7, mentre per il rnnipione ilei bianchi era 1111,8, con una differenza di 21, i punti.
Tra Ì due campioni si nota una marcata sovrapposizione, ma anche una notevole ilinv-
renza Ira le due medie. Studi diversi indicano una differenza ira i 10 e ì 21) punti.
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70 SS 100 115
PUNTEGGIO Q.l.
130
La curva registra la distribuzione normale di frequenza del Q.l. per una popolazione
con media 100. La deviazione standard, cioè la misurazione di variazione più co-
mune, è di circa 15 punti, e la distanza nei due sensi dalla media è misurata in multi-
pli della deviazione standard. Pertanto, circa il 34% ha un valore Q.l. tra 85 e 100,
mentre un altro 34% della popolazione registra valori tra 100 e 115 teotore scuro).
I soggetti con punteggio molto elevato o mollo basso sono una parte mìnima: solo il 2 %
circa con Q.l. inferiore a 70, e un altro 2 % con QJ. superiore a 130 (colore chiaro*.
glìanze esistenti fra le diverse razze:
sono infatti dovuti a fattori d'ordine
esclusivamente genetico.
L'analisi dei polimorfismi genetici
melte in luce tre fatti molto importan-
ti circa la natura delle differenze gene*
tiene che contraddistinguono le singole
razze o i diversi tipi di una razza. Pri-
mo, il grado di variabilità che si os-
serva nell'ambito dì una qualsiasi popo-
lazione supera di gran lunga le diffe-
renze medie tra popolazione e popola-
zione. Secondo, le differenze fra popo-
lazione e popolazione, tra razza e raz-
za, sono più d'ordine quantitativo che
qualitativo, nel senso che esse general-
mente dipendono dalla diversa frequen-
za di una data serie di geni e non dalla
presenza, in ciascuna popolazione o raz-
za, di geni peculiari. In altre parole,
una data combinazione genica può es-
sere riscontrata in quasi tutte le razze:
ciò che varia da razza a razza è la sua
frequenza. Terzo, per effetto di proces-
si di ibridizzazione, che a dispetto del-
l'isolamento riproduttivo si verificano dì
continuo nelle zone di frontiera dei
gruppi razziali, e altresì per la forma-
zione di gruppi ibridi dovuta a una
migrazione recente che sia seguita da
un profondo mescolamento di gruppi
precedentemente isolati, i caratteri che
differenziano una razza dall'altra sono
caratteri continui: e con questa espres-
sione del linguaggio statistico si vuol
dire che la loro variazione passa attra-
verso numerose gradazioni intermedie
dì gruppi o tipi di » confine ».
Pome abbiamo già rilevato l'intelligen-
za è probabilmente una caratteristi-
ca complessa, cioè sottoposta al con-
trollo dì molti geni, Le deviazioni estre-
me dai livelli medi, quali si verificano
in casi di grave ritardo mentale, pos-
sono nondimeno essere attribuite alle
modificazioni di un unico gene. Le de-
viazioni di questo tipo sono utili per
descrivere importanti meccanismi attra-
verso cui i fattori genetici influenzano
il comportamento. Si consideri per
esempio quella particolare malattia del
metabolismo protidico che va sotto il
nome di fenilchetonuria. Essa si presen-
ta nei soggetti che ricevono da ambe-
due i genitori una versione mutata del
gene designato al controllo dell'enzima
che converte l'amminoacido fenilalanina
in un altro amminoacido, la tirosina.
Quando in soggetti omozigoti il gene è
presente in questa versione mutata l'en-
zima è assente, sicché nel sangue e nel
cervello di tali soggetti si verifica un
accumulo di fenilalanina che causa un
grave ritardo mentale (oligofrenia fe-
nilpinivica). Se fin dai primi giorni di
vita si impedisce l'accumulo di fenil-
alanina somministrando una dieta po-
vera dì questo amminoacido l'accumulo
viene impedito e il ritardo mentale non
si verifica.
La differenza fra la concentrazione
ematica della fenilalanina nei soggetti
fenilehetonurici e quella dei soggetti
normali, strettamente correlata all'at-
tività primaria del gene la cui altera-
zione provoca fenilchetonuria, permet-
te di distinguere nettamente due classi
genetiche di soggetti (vedi l'illustrazione
nella pagina 40, in basso). Quando si
confronta la curva relativa alla distri-
buzione di queste differenze con la cur-
va relativa alla distribuzione del Q.L i
soggetti affetti da fenilchetonuria risul-
tano nettamente distinguibili da quelli
che hanno una normale concentrazione
ematica dì fenilalanina anche sotto l'a-
spetto dello sviluppo intellettuale, tanto
è lieve il grado di sovrapposizione del-
le due curve. Ciò riflette semplicemen-
te il fatto che il genotipo fenitchetonu-
rico, cioè la costituzione genetica che
porta alla fenilchetonuria, è associato
a un gravissimo ritardo mentale. Se
invece sì confrontano le differenze re-
lative alle dimensioni della testa e al
colore dei capelli (i soggetti fenilehe-
tonurici tendono a presentare microce-
falia e capelli biondissimi) le curve mo-
strano un notevole grado di sovrappo-
sizione. Ciò significa che la misura di
queste caratteristiche somatiche non rie-
sce utile per distinguere il genotipo fe-
nile he ton urico da quello normale anche
se bisogna dire che il gene della fenil-
chetonuria influenza le dimensioni del-
la testa e il colore dei capelli. Ciò di-
pende dal fatto che nei soggetti nor-
mali si osservano ampie variazioni per
quanto riguarda tali caratteristiche. Si
deve perciò concludere che le differen-
ze genetiche tra soggetti fenilehetonu-
rici e soggetti normali sono la causa
principale delle variazioni del tasso
ematico di fenilalanina, ma incidono so-
lo in misura secondaria sulle variazioni
relative alle dimensioni della testa e al
colore dei capelli.
T a natura della fenilchetonuria dimo-
stra un altro fatto importante : l'e-
spressione di un gene è profondamen-
te influenzata dall'ambiente. Esistono
notevoli differenze fra i fenilehetonu-
rici per quanto riguarda i valori della
concentrazione ematica di fenilalanina.
Ciò significa che la differenza genetica
implicata nella fenilchetonuria è lungi
dall'essere l'unico fattore, e neppure il
più importante, nella determinazione
del livello ematico dì questo amminoa-
cido. È chiaro che le differenze diete-
tiche hanno effetti di rilievo, dal mo-
mento che somministrando a un fe-
ntlchetonurico una dieta povera dì fe-
nilalanina se ne abbassa la concentra-
zione ematica fino a valori quasi nor-
mali. Se un soggetto riceve il gene
fenilchetonurico da uno solo dei geni-
tori, il suo sviluppo mentale non risul-
ta alterato in modo clinicamente sen-
sibile, e nondimeno egli tende ad avere
una concentrazione ematica di fenil-
alanina più elevata di quella normale.
Tale concentrazione dipende dunque da
una combinazione di fattori genetici e
ambientali. Pertanto se si stabilisce la
misura in cui i fattori genetici contri-
buiscono alla variazione complessiva si
arriva altresì a stabilire quale sia l'im-
portanza delle differenze genetiche nel-
la determinazione di questo tipo di
variazione quantitativa.
Quando noi ci volgiamo all'analisi
di una caratteristica complessa come il
Q.L, sottoposta al controllo di molti
geni, ciascuno dei quali esercita, media-
mente, un'influenza modesta, possiamo
anche supporre che tale caratteristica
sia influenzata, in modo più spiccato,
anche da tutta la storia precedente del-
l'individuo e da una serie di altri fat-
tori esterni, non-genetici, che possono
tutti insieme essere designati con il ter-
mine di % ambiente >. Per distinguere
l'uno dall'altro gli effetti di questi vari
fattori bisogna ricorrere all'analisi sta-
tistica. C'è un esperimento approntato
dalla natura stessa che consente la di-
sti n/ione, sia pure approssimativa, fra
fattori genetici e fattori ambientali.
Questo esperimento è dato dall'esisten-
za di due tipi di gemelli : gemelli mono-
vulari, che derivano da un unico zigote,
cioè dalla fecondazione di una cellula-
-uovo e gemelli biovulari. che derivano
da due distinti zigoti, cioè dalla fecon-
dazione simultanea di due distinte cel-
lule-uovo. I primi hanno il medesimo
corredo genetico, e perciò sono anche
detti * gemelli identici »; i secondi han-
no un diverso corredo genetico, e per-
ciò vengono detti * gemelli fraterni ».
Senza dubbio la differenza fra i due
membri di una coppia di gemelli mo-
novulari dipende esclusivamente da fat-
tori ambientali. Pertanto si può suppor-
re che la distribuzione di tali differen-
ze in un certo numero di coppie ge-
mellari permetta di stabilire in che
misura due soggetti possano differire
esclusivamente a causa di fattori am-
bientali. I membri della coppia gemel-
lare di solito non hanno lo stesso Q.L:
vi può essere fra l'uno e l'altro persino
una differenza di 20 punti, anche se
nella maggior parte dei casi essa non
supera i 10 punti. Da ciò si può desu-
mere che i fattori ambientali possono
influire sul Q.t, determinando fra sog-
getto e \oageito differenze ì 1 cui valore
medio è uguale, o leggermente superio-
re, al valore delle differenze che si ri-
scontrano fra i diversi Q.l. volta a
volta presenti nello stesso soggetto che
sia stato sottoposto a diverse prove per
un certo periodo di tempo.
Per stabilire se esistono o no diffe-
renze di Q.L dovute a fattori genetici,
e per determinare la loro entità, vol-
giamoci ai gemelli biovulari. L'osser-
vazione di questo tipo di gemelli in
effetti consente di affermare che in que-
sto caso le differenze non sono dovu-
te soltanto a fattori ambientali ma an-
che a fattori genetici. Le differenze di
Q.l. che possono sussistere tra gemelli
biovulari hanno una ampiezza maggio-
re di quelle riscontrate fra gemelli mo-
novutari, e ciò dimostra che la diver-
sità del corredo genetico, sommando-
si ai fattori ambientali di differenzia-
zione, aumenta la differenza complessi-
va fra i due membri della coppia ge-
mellare. Da ciò si può desumere che
i fattori genetici possono contribuire a
stabilire una differenza di Q.L anche
fra due individui qualsiasi.
Potrebbe sembrare che i dati relativi
ai gemelli possano fornirci facilmente
la misura dell'importanza che i fattori
genetici e quelli ambientali hanno nelle
determinazioni del Q.l. Si può pensare
infatti che si possa ottenere un buon
indice della rispettiva importanza dei
fattori dell'imo e dell'altro ordine met-
tendo a confronto la differenza media
rilevala fra i gemelli monovulari e la
differenza media rilevata fra i gemel-
li biovulari. (Si noti che nelle moderne
analisi statistiche abitualmente si calco-
la non la media delle differenze ma la
media del loro quadrato. Un tal va-
lore può essere confrontato con la va-
rianza, che è una nota misura di varia-
zione, o addirittura essere convcrtito in
essa).
Vi sono tuttavia due fondamentali e
opposte ragioni per cui questo sempli-
ce metodo di misurazione non è del tut-
to soddisfacente. Primo, la differenza
tra due gemelli biovulari costituisce solo
una parte delle differenze genetiche
che possono sussistere tra due indivi-
dui. I gemelli biovulari si assomigliano
come si assomigliano due fratelli ger-
mani, e tuttavia la loro somiglianza è
più forte di quella che può sussistere
fra due soggetti presi a caso da una
certa popolazione: in altre parole, le
differenze genetiche medie che sì riscon-
trano fra gemelli biovulari messe a con-
fronto con le differenze genetiche me-
die che si riscontrano tra due soggetti
presi a caso risultano nettamente mi-
nori. Secondo, le differenze d'origine
ambientale tra due gemelli costituiscono
solo una parte di tutte le differenze di
identica origine che possono sussistere
tra due individui, sia pure appartenenti
alla stessa famiglia. Anche nell'ambito
della stessa famiglia le differenze d'ori-
gine ambientale tra due gemelli sono
meno numerose di quelle che si riscon-
trano fra fratelli germani : per esem-
pio, non esiste per essi quel particola-
re fattore ambientale di differenziazione
collegato con lordine delle nascite. Per
questa ragione le differenze fra fra-
PfiOFES- PROFES- IMPIEGATI SPECIA- QUALI- COMUNI
SIONI SIONI LIZZATI FICATI
SUPERIORI INFERIORI
CLASSE SOCIALE
< .>me rivela l'indagine condotta da Cyril Hurt dell'Università di Londra, esiste una
relazione stretta ira riassi sociali e intelligenza. Le colonnine a sinistra indicano che
il C*.L medio per le professioni superiori i colonna scura') è 139,7 e che i tigli di questi
professionisti hanno un QJ. medio pari a 120,8 (colonna chiara*. La seconda coppia di
colonne indica che le professioni inferiori hanno un Q.l. medio di 130,6 e che i figli
di questi altri professionisti hanno QJ. medio 114.7. La lena coppia di colonne indira
che gli impiegati hanno un Q.L medio di 115,9 e i loro figli di 107,8. La quarta coppia
mostra un Q.L medio di 108,2 per gli operai specializzati e di 104,6 per i loro figli.
1.B quinta coppia indica un Q.l. medio di 97,8 per i qualificati e di 98,9 per i loro figli.
La s e s|a roppia di colonne per gli operai specializzati indica, rispettivamente p<*r
padri e figli. ì valori di 84,9 e 92,(i. Il Q.l. medio delle mogli iche qui non compare! è
in buona correlazione con quello dei mariti. Al di sopra della media il QfX dei figli
tende a essere inferiore a quello dei genitori. Il ronlrario avviene al di sotto della media.
La mobilità sociale conserva tale distribuzione, in quanto il QJ. tende a rresrere nei
soggetti che lo tanno già elevati, e a diminuire in quelli rhe lo hanno più basso.
38
39
GRUPPO SANGUIGNO AGO
GENE Rh
ALTRI GRUPPI SANGUIGNI
ALTRI GHUPPI SANGUIGNI
ENZIMI ERITROCIT1CI
PROTEINE SERICHE
_ 100
Rn Ri Ri r
KELL LEWIS KIDD
DIEGO
Le frequenze dei se"' polimorfi presso gli africani, i raucasici
e gli orientali forniscono un elemento di differenziazione ira le
Ire razze. (Per pene polimorfi! fi intende quello appartenente
a un gruppo rapare di determinare la variabilità di mi cara!-
tfat
LUTHEHAN
DUFFY
FOSFA-
FOSFO-
ADENIL-
TASI
GLUCO-
ATE
ACIDA
MUTASI
CHINASI
CPGD
INV< CO BETA- LIPO-
LIPO- PROTEINE
PROTEINE
tere
ni"
l. Qui vediamo circa la metà dei sistemi polimorfi nell'un-
Le differenze medie di frequenza Ira africani (in colore)
e caucasici (colore scurai sono del 22%, ira africani e orientali
(colore chiaro' del 30 % e tra caucasici e orientali del 22
telli germani tendono a essere più mar-
cate che non fra gemelli biovulari.
D'altra parte si ha ragione di credere
che fra gemelli monovulari le differen-
ze dovute all'ambiente per il particola-
re tipo di relazioni che essi tendono a
stabilire con gli altri siano minori di
quelle che si riscontrano fra gemelli
biovulari. In breve, il confronto fra ge-
melli monovulari e quello tra gemelli
biovulari, fa apparire trascurabile il pe-
so delle differenze genetiche e conside-
revole invece quello delle differenze
ambientali.
per superare tutte queste difficoltà bi-
sogna cercare di utilizzare lutti i
possibili confronti tra consanguinei di
vario tipo e grado. I dati relativi ai ge-
melli costituiscono solo un caso parti-
colare. Per ragioni tecniche sì misura-
no più spesso le somiglianze che le dif-
ferenze fra due serie di valori, per
esempio il Q.I. dei genitori e quello
dei figli. Questa misura di somiglianza
è chiamata coefficiente di correlazione,
ed è uguale a I quando nelle due se-
rie di misure i valori sono identici, o,
più in generale, quando un valore può
essere espresso come funzione lineare
dell'altro. Il coefficiente di correlazio-
ne è invece uguale a quando le due
serie di misure sono completamente in-
dipendenti, mentre ha un valore inter-
medio se la relazione tra le due serie è
tale che il valore dell'una tende ad au-
mentare quando aumenta l'altra.
In ordine al Q.I. i valori medi del
coefficiente di correlazione tra genitori
e figli o tra membro e membro di cop-
pie di fratelli comuni è risultato assai
vicino a 0.5. Questo effettivamente
è il valore che ci si poteva attendere
sulla base del più semplice dei modelli
genetici possibili, sulla base cioè di un
modello genetico secondo il quale il Q.I.
è sottratto all'influenza di lutti ì fattori
ambientali ed è esclusivamente deter-
minato in via genetica, senza interfe-
renze d'altro tipo. Sembra tuttavia che
tale valore sia il risultato di un compli-
cato gioco di coincidenze. Diversi fat-
tori di complicazione, quali differenti
modalità dell'azione genica, la tenden-
za al matrimonio fra persone che si so-
migliano, l'esposizione dei membri di
una stessa famiglia agli stessi fattori am-
bientali - si equilibrano sulla bilancia
in modo che il risultato coincida con
quello del modello genetico piti sem-
plice. Se noi ignorassimo queste possi-
hili complicazioni e coincidenze pò
Iremmo ingenuamente concludere (con-
tro altre prove, come quelle che deri-
vano dall'osservazione dei gemelli) che
il Q.I. è determinalo interamente dai
meccanismi più elementari dell'eredita-
rietà biologica.
È invece necessario cercare i mezzi
atti a determinare sia la rispettiva im-
portanza dei fattori ambientali e dei fat-
tori genetici, in modo da prendere in
con siderazione molti dei fattori di com-
plicazione. In teoria questa misura può
essere realizzata calcolando i quozienti
che sono noti sotto il nome di stime di
ereditabilità. Per capire ciò che si in-
tende misurare con questi quozienti si
consideri una situazione semplificata. Si
immagini che sia possibile identificare
il genotipo di ogni individuo relativa-
mente ai geni che influenzano il Q.I.
In tal caso i soggetti caratterizzati dal-
lo stesso genotipo possono essere rag-
gruppati insieme, le differenze tra ì sog-
getti appartenenti al medesimo gruppo
potranno essere attribuite a fattori am-
bientali, e sarà possibile pertanto misu-
rare l'ampiezza della distribuzione di
tali differenze. Per semplificare ulterior-
mente, si assuma che l'ampiezza della
variazione del Q.I, dovuta a fattori am-
bientali sia la stessa per ogni genotipo.
Se noi misuriamo il Q.I. di tutti gli in-
dividui di una data popolazione ot-
teniamo una distribuzione che ci pre-
senta la variazione totale del Q.I. Nel-
l'ambito di ciascun genotipo la varia-
zione è di origine ambientale. La diffe-
renza tra il valore della variazione to-
tale e il valore della variazione dì ori-
gine ambientale permette di determi-
nare quanto della variazione totale può
essere attribuito alle differenze geneti-
che. Questa componente quando espres-
sa come frazione della variazione to-
tale, è una possibile misura dcU'eredi-
tabilieà.
Tuttavia la stima della componente
della variazione totale che può essere
attribuita alle differenze genetiche (in
base ai dati che si riferiscono alle cor-
relazioni tra affini) in pratica dipende
sempre dalla costruzione di un modello
genetico specifico e ha pertanto i limiti
di tutti i modelli. Un problema sta ne!
fatto che vi è un certo numero di
definizioni alternative dell'ereditabili tà,
ognuna delle quali risulta collegata alla
scelta di un particolare modello gene-
tico, perché le variazioni genetiche pos-
sono avere molte componenti, e queste
a loro volta differenti significali. Spesso
si usa una definizione di ercditabìlitàche
riguarda unicamente gli aspetti della
variazione genetica che generalmente si
ritengono importanti nella riproduzione
di piante e animali. Rispetto a questi
casi si parla di ereditabilità in senso
stretto. Se invece si usa una definizione
di ereditabilità che prenda in considera-
zione tutti i fattori genetici di varia-
zione si parla di ereditabilità in senso
lato. Le stime di ereditabilità variano a
seconda della definizione prescelta. Nel
primo caso saranno ovviamente minori
che nel secondo.
Le differenze tra queste stime di ere-
ditabilità possono essere valutate con
sufficiente precisione in termini di mo-
delli genetici specifici. Tali differenze
possono essere notevoli. Tipiche stime
di ereditabilità de! Q.I. (ottenute sulla
popolazione londinese a! principio de-
gli anni '50, secondo i dati di Cecil
Burli danno per l'ereditabilità in senso
stretto valori dal 45 per cento al 60 per
cento, per l'ereditabilità in senso lato
dall'SO per cento all'85 per cento.
ITn "altra difficoltà di rilievo in cui ci
si scontra quando si procede a sti-
me dì ereditabilità è data da quell'insie-
me di processi che si designa con D termi-
ne di « interazione genotipo-ambiente ».
La difficoltà sia nel fatto, che non vi è
una chiara possibilità di predire quale
Q.I. determinati genotipi potranno con-
seguire in determinati ambienti. Un
dato genotipo potrà avere uno sviluppo
intellettuale migliore in un ambiente
piuttosto che in un altro, ma questo
10 15 20 30 40
FENILALANINA NEL PLASMA SANGUIGNO (•/. PER MILLIGRAMMO)
1 livelli di fenilalanina nel plasma sanguigno che compaiono
nella coppia di curve a sinistra servono a distinguere I soggetti
portatori di una doppia dose del gene difettoso che determina
elevati valori fenilalaninici (curva coloratili, cioè l'affezione
nota come fenilchetonuria, dai soggetti con livelli fenilalaninici
normali (curva nernl. La seconda serie di curve rivela come
50
PUNTEGGIO O.l.
questo genotipo abbia un'incidenza diretta sull'intelligenza: i
feni Ichetonurici (curva colorata* presentano bassi quozienti d'in-
lelligenza poiché l'accumulazione nel sangue e nei tessuti ner-
vosi della fenilalanina e dei suoi prodotti danneggia il cervello.
I suggelli con gene funzionante (curva nera* hanno Q.I. normali.
Nella terza coppia di curve i valori fenilalaninici sono riferiti
\ ~i r i r~i m
350 330 310 290 270
DIMENSIONI CRANICHE (LUNGHEZZA PIO LARGHEZZA IN MILLIMETRI)
alle dimensioni craniche 'rome somma dell» lunghezza più la
larghezza del cupol. mentre nel quarto diagramma i livelli di fe-
nilalanina sono riferiti al colore dei capelli (come percentuale di
In..- .i liitiglii-z/Li d'onda di Tini niilliiiiii roit rifletei d.ti eapeUD,
È evidente in enlramhi i casi il notevole effetto del genotipo
fenilchetonurico sulle caratteri stiche in esame: il fattore di ri-
r ~r
D 1 2 3 4 5 6 7 8
PERCENTUALE DI LUCE INCIDENTE RIFLESSA DAI CAPELLI
flessione dei capelli è maggiore mentre le dimensioni craniche
risultano minori 'rune in colare' per, i -nagctii fenilclietonurìci
rispetto agli individui normali irurpe scure'. Tuttavia dai dise-
gni risulta altrettanto evidente ionie queste caratteri sii che siano
distribuite in modo tale che non possono -ervire a distingue-
re i soggetti ammalali da fenilchetonuria da quelli sani.
40
41
GEMELLI M0N0ZIG0T1CI
GEMELLI DIZIGOTICI
ai
20
15
o .
CE 10
3
-
■
■ - 1
5 10 15 20 ?5 30 15 40
DIFFERENZA TRA GEMELLI (PUNTI CU.)
La Rpei i mediazione diretta basala sui dati di (J.L rari- olii da
Horatio II. New man del l'Uni verbi là di Chicago fornisce 1 1 n . ■
misura generica dell'incidenza relativa dell'ereditarietà e del-
1'atnhiente sull'intelligenza. Il grafico a sinistra mostra le diffe-
renze di Q.l. tra i gemelli facenti parie di cinquanta coppie. Si
tratta di gemelli iminozigolici. ossia nati dal medesimo ovulo e
in possesso di genotipi identici. Le differenze sono in questo
raso molto deboli: in 24 coppie l pari a quasi la metà del cani'
pione) la differenza in punti va da zero a cinque. Solo per una
coppia sì è avuta una differenza Ira 15 e 20 punti. In media
la differenza tra ì gemelli di una stessa coppia è di 5,9 punti.
Dato elle nelle coppie i genotipi sono idenliri, si può affermare
tQ 15 20 25 30 35
DIFFERENZA TRA GEMELLI (PUNTI Q.l.)
40
che l'incidenza dell'ambiente sia trascurabile, Il secondo grafico
si riferisce alle differenze di Q.t. riscontrate in 45 coppie di ge-
melli dizigotici, ossia nati da ovuli diversi e in possesso di gè-
nolipi differenti. In questo caso la differenza media tra Ì gemelli
delie varie coppie è di cirra 11), per mi sembra di poter attri-
buire un effetto marcato aLTereditarielà. Il confronto non può
tuttavia dìscernere con esattezza Ira l'incidenza dell'ereditarietà
<• quella dell'ambiente. I gemelli monozigotici, infatti, hanno
ambiente mollo simile, mentre ì genotipi dei gemelli dizigotici
sono in media meno diversi tra loro Iper un fattore 21 che non
quelli dei soggetti senza alcun nesso. Si sottovaluta quindi l'ef-
fetto dell'ereditarietà, ma si minimizza l'influenza ambientale.
non è necessariamente vero per un altro
genotipo, e anche se fosse vero la mi-
sura del vantaggio potrebbe non essere
ia stessa. L'ideale sarebbe prevedere la
reazione di tutti ì genotipi in tutti gli
ambienti. Ma la varietà dei genotipi è
praticamente infinita, come la varie-
tà degli ambienti. Perciò questo genere
di previsioni è praticamente impossibi-
le, tanto più che rispetto all'uomo non
abbiamo i mezzi per controllare i fat-
tori ambientali che influiscono sul Q.L
E anche se fossero conosciuti tutti Ì
fattori ambientali che influiscono in
modo rilevante sullo sviluppo del com-
portamento, il controllo statistico con
adeguate misure e la successiva analisi
Statìstica dei dati farebbero sorgere ul-
teriori e gravissime difficoltà. Bisogna
d'altra parte sottolineare il fatto che le
quote di ereditarietà dipendono dal rap-
porto di forza fra fattori ambientali e
fattori genetici esistente in quella popo-
lazione al momento dell'analisi, e per-
ciò non valgono per un'altra popola-
zione, e neppure per la popolazione cui
si riferiscono una volta trascorso il mo-
mento storico in cui è stata compiuta
l'analisi.
Quando si tratta di animali e dì
piante il controllo sperimentale delle
condizioni ambientali è più facile, ed è
perciò possibile esplorare l'interazione
genotipo-ambiente. Al riguardo, un in-
teressante esperimento è slato realiz-
zato da R. Cooper e da John P. Zubek,
dell'Università di Manitoba, su due
ceppi di ratti nei quali erano state
accumulate, mediante un processo dì
selezione artificiale, differenze geneti-
che rispetto alla capacità di orientarsi
in un labirinto. I due ceppi erano stali
differenziati in modo che rispetto a que-
sto compito gli individui di un gruppo
erano * intelligenti i- mentre gli indivi-
dui dell'altro ceppo erano istupidì».
Quando esemplari di questi due ceppi
venivano allevati insieme, per una ge-
nerazione in un ambiente « ristretto »,
cioè povero di stimoli, e diverso da
quello di provenienza, non si osservava
fra loro alcuna differenza. Gli esem-
plari di ambedue i ceppi, quelli « intel-
ligenti » e quelli » stupidi*, mostra-
vano la stessa scarsa capacità di ese-
cuzione. Quando invece l'allevamento
misto di esemplari dei due ceppi av-
veniva in un ambiente ricco di stimoli,
allora essi eseguivano ugualmente bene
il loro compito (si veda l'ili lustrazione
a pai;. 47), Poiché la differenza fra
i due ceppi è genetica, da questo espe-
rimento si desume che l'effetto delle
condizioni ambientali dovrebbe essere
reversibile nelle generazioni successive.
Data la struttura delle società umane
questo esperimento è di rilevante im-
portanza nell'esame delle differenze di
Q.l. Se i bambini che crescono nei
ghetti e i bambini che hanno genitori di
elevata condizione socio-economica ten-
dono ad avere indici di Q.l. rispettiva-
mente inferiori e superiori a quelli che
si potrebbero attendere se ambedue i
gruppi fossero allevali nello stesso am-
biente, allora i valori di ereditabìlità
possono essere sovrastimati.
La sola potenziale salvaguardia con-
tro questi vizi di stima è lo studio dello
stesso genotipo o di genotipi molto so-
miglianti in differenti ambienti. Nel-
l'uomo uno studio di questo lipo può
essere fatto solo attraverso l'osservazio-
ne dei bambini adottati. Di particolare
interesse, in questo ambito di ricerche
è lo studio di gemelli monovulari che
siano stati separati al momento della na-
scita o subito dopo per essere allevati in
famiglie differenti. In generale si rileva
che la somiglianza tra gemelli che siano
stali separati e allevati in ambienti di-
versi è di poco inferiore a quella dei
gemelli cresciuti insieme. Sulla stessa
linea di ragionamento la somiglianza
tra genitori e figli adottivi può essere
misurala e confrontata con quella tra
genitori e figli e veri». Al riguardo
sono state compiute alcune ricerche, da
cui risulta che l'ambiente familiare ha
effettivamente un'influenza, sebhene
non così marcata come quella dell'ere-
dità biologica. Il coefficiente di corre-
lazione fra genitori e figli adottivi è
superiore a zero ma e indubbiamente
inferiore a quello che si riscontra tra
genitori e figli * veri »,
rjn'analisi approfondita di questi dati è
quasi impossibile perché l'ambiente
varia da famiglia a famiglia, perché le
interazioni genotipo-ambiente sono nu-
merose e di vario genere, e perché infi-
ne fattori ambientati e fattori genetici
si intrecciano in tanti modi cosi che
è difficile stabilire, caso per caso, quale
sia la loro importanza. L'adozione e
l'allevamento in ambienti diversi dj ge-
melli che siano stati separati fin dalla
nascita avvengono in condizioni che
son lungi dall'essere quelle ideali per
un esperimento, e pertanto tutte le con-
clusioni restano solo semiquantitative.
Sulla base dei dati di cui disponiamo,
e tenuto conto di queste limitazioni, si
può dire che l'ereditarietà dell'intelli-
genza, misurata in base al Q.l., è an-
cora abbastanza elevata. Tuttavia bi-
sogna badare al fatto che in queste ri-
cerche l'analisi dei fattori ambientali
e delle loro conseguenze è generalmen-
te limitata alle differenze tra famiglia
e famiglia nonché tra membro e mem-
bro della stessa famiglia, nell'ambito di
una frazione abbastanza omogenea del-
la popolazione inglese o americana.
Pertanto non sì possono fare estrapo-
lazioni per predire le conseguenze di
differenze ambientali più marcate o di
diversa natura.
Tra le varie classi sociali vi sono
rilevanti differenze per quanto riguarda
il Q.l. Lina delle ricerche più ampie e
apprezzate circa queste differenze e
circa le ragioni della loro persistenza
è quella pubblicata da Burt nel 1961,
che ebbe per oggetto gli scolari di un
tipico sobborgo londinese e i loro ge-
nitori {si veda la figura nella pagina
39). In base allo status lavorativo de-
gli adulti i soggetti furono suddivisi,
dal punto di vista socioeconomico, in
sei classi. Si andava dalla classe I, che
comprendeva « professori universitari,
professionisti di ugual rango del campo
giuridico, medico, educazionale, eccle-
siastico, l'alta borghesia commerciale
e industriale, i funzionari di grado ele-
vato della amministrazione pubblica. »
fino alla classe 6, che comprendeva « la-
voratori specializzali, lavoratori occa-
sionali, e gli addetti ai lavori manuali
pio grossolani ». I dati essenziali emer-
si dalla ricerca possono essere raggrup-
pati nei seguenti quattro ordini :
1. Esiste una stretta correlazione tra
il Q.l. medio dei genitori e la loro
classe occupazionale. La differenza me-
dia fra classe superiore e classe in-
feriore è dì oltre 50 punti. Il livello
socioeconomico di una famiglia è gene-
ralmente determinato dallo status la-
vorativo de! padre, ma il coefficiente
di correlazione tra il Q.l. del padre e
quello della moglie è piuttosto elevato,
e contribuisce a differenziare le classi
sociali Putta dall'altra rispetto al Q.l.
2. Malgrado il Q.l. medio dei geni-
tori presenti una notevole variazione
da classe a classe, la variazione residua
del Q.l. tra genitori appartenenti alla
medesima classe presenta anch'essa una
notevole ampiezza. La deviazione sian-
dard media de! Q.l. dei genitori in
ognuna delle 6 classi è 8.6, cioè quasi
Ire quinti della deviazione standard per
l'intero gruppo. Questa deviazione stan-
dard è di circa 15 punti e si osserva
generalmente per quanto riguarda il
Q.l. in ogni gruppo.
3. II Q.L, medio della prole in cia-
scuna classe dista in misura quasi ugua-
le dal Q.L medio dei genitori e dal Q.L
medio della popolazione globale (que-
st'ullimo corrisponde a 100). Si tratta
di un daio che era prevedibile e che
conferma la correlazione tra il Q.L dei
genitori e quello dei figli, che, come
abbiamo già visto, tende, in qualsiasi
popolazione a essere pari a 0.5.
4. Un altro dato importante emerso
dalla ricerca è che la deviazione stan-
dard del Q.L della prole, che in media
è di 13,2, ha quasi lo stesso valore
della deviazione standard della popo-
lazione globale, cioè 15. Questo è un
altro segno del fatto che nell'ambito di
ciascuna classe sociale esiste un'ampia
variabilità del Q.L
Da tulli questi dati sembra risultare
che il Q.L è il principale dei fattori che
determinano la classe occupazionale in
cui un individuo si colloca, e che d'al-
tronde tale quoziente ha uno spiccato
carattere di ereditarietà (sebbene non
sia possibile distinguere l'eredità biolo-
gica dall'eredità culturale I. Tenendo
conto de! fatto che tra i giovani di ogni
classe socio-economica il Q.l. presenta
ampie variazioni e che esso tende a
spostarsi verso il Q.L medio della po-
polazione globale. Burt ha notato che
le differenze di Q.L tra classe e classe
possono persistere solo a condizione che
ogni generazione sia caratterizzata da
un intenso processo dì mobilità socia-
le. Secondo le sue slime affinché la di-
stribuzione delle differenze di Q.L tra
le varie classi possa permanere, biso-
gnerebbe che a ogni generazione alme-
no i! 22 per cento della popolazione
potesse cambiare classe fondamental-
mente a causa del Q.L Questa percen-
tuale è inferiore a quelle riguardanti la
mobilità sociale intergenerazionale in
Inghilterra, che risulla pari a circa il 30
per cento.
T esistenza nell'ambito di una popo-
lazione umana di sottogruppi in
condizioni di isolamento riproduitivo
per ragioni culturali, e spesso anche
razziali, provoca quasi inevitabilmen-
te l'insorgenza di tensioni sociali che
sono i semi del razzismo. Questa è una
verità generale che vale per tutta la
storia del genere umano, e non è dun-
que riferibile solo alle odierne teasio-
ni fra i gruppi razziali, del genere di
quelle che esistono fra bianchi e negri
degli Stali Uniti. I conflitti fra gruppi
religiosi, per esempio il conflitto tra
protestanti e cattolici dell'Irlanda de!
nord, sono un altro caso di tensioni
sociali dello stesso tipo. La divergenza
culturale spesso s'accompagna a una
condizione economica di inferiorità del-
l'uno o dell'altro gruppo, e ciò inaspri-
sce le teasioni.
Alle forti differenze culturali fra
bianchi e negri s'aggiungono forti dif-
ferenze somatiche che contribuiscono
potentemente al conflitto razziale. Se le
differenze culturali fra protestanti e
cattolici venissero meno non vi sareb-
be alcun modo dì distinguere un grup-
po dall'altro. Non si può dire la mede-
sima cosa a proposito delle tensioni
fra bianchi e negri degli Stati Uniti. La
differenza dì colore della pelle potrebbe
diminuire solo se per molte generazio-
ni i matrimoni avvenissero completa-
mente a caso.
Questi matrimoni avvengono di rado
negli Stati Uniti. La frequenza media
dei matrimoni tra bianchi e negri cor-
risponde ancora al 2 per cento circa di
quella che ci sì potrebbe attendere se
i matrimoni si verificassero a caso, cioè
senza riguardo alle differenze di razza.
Questo dato riflette la persistenza di
un altro grado di isolamento riprodut-
tivo dei gruppi razziali, malgrado il
movimento sviluppatosi in anni recen-
ti per sollecitare un energico interven-
to legislativo in favore della desegrega-
zione. In fatto di separazione razziale te
Hawaii costituiscono un'eccezione degna
dì rilievo, ma anche qui la frequenza
dei matrimoni misti è solo del 40 o 50
per cento di quella che sì registrerebbe
se i matrimoni capitassero a caso.
L'inferiorità socioeconomica di un
gruppo rispetto all'altro suscita inevi-
tabilmente la domanda se essa dipenda
o no prevalentemente da fattori gene-
tici. Di recente si è cercato di rispon-
dere a questa domanda, riguardo ai
bianchi e ai negri degli Stati Uniti, pren-
dendo in esame le differenze inedie tra
i due gruppi rispetto al Q.L Molte ri-
cerche hanno dimostrato che tra i due
gruppi esistono effettivamente forti dif-
ferenze nella distribuzione del Q.l. De-
pongono, per esempio, in questo senso
i dati ottenuti da Wallace A. Kennedy
e dai suoi collaboratori dell'Università
Statale della Florida, in una ricerca
estensiva, pubblicata nel 1961. che fu
eseguita mediante la somministrazione
di reattivi mentali a 1800 bambini negri
nelle scuole elementari di cinque stati
del sud (Florida, Georgia, Alabama,
Tennessee, Carolina del sud). Se si con-
fronta la distribuzione messa in evi-
denza da questi ricercatori con quella
rilevata in un campione di 190 bam-
bini appartenenti alla popolazione bian-
ca degli Stati Uniti, si rilevano forti dif-
42
43
GENITORE E FIGLIO
FRATELLI E SORELLE CRESCIUTI INSIEME
GEMELLI DIZIGOTICI (SESSO DIVERSO)
GEMELLI DIZIGOTICI (SESSO UGUALE)
GEMELLI MONOZ1 GOTICI CRESCIUTI INSIEME
0,10 O.Z0 0.30 0.40 0,50 0,60 0,70 O.BO
SIMILARITÀ (COEFFICIENTE DI CORRELAZIONE)
0.90
I coeflicienti di correlazione servono u determinare, per
pio, la somiglianza Ira i Q.l. di due serie di congiunti, per esem-
plo peni tori da un lato e figli dal l'altro. Il coefficiente 1 sigili li-
ca idenlità; In zero indica l'indipendenza reciproca delle varia-
bili. Questi dati sono ^tati traili dalla letteratura da L. Erlen-
tneyer-Kimling e Lissy F, Jarvik dell'lstiluto psichiatrico dello
Stalo di New York allo scopo dì oltenere la misura dell'inciden.
sa relativa dell'ereditarietà e dell'ambiente, tenendo conto di
lutti i possibili effetti dei legami di parentela tra i soggetti in
esame. Il segmento in alto indica che per campioni di genitori e
figli attinenti a indagini diverse i coefficienti vanno da circa
0,20 a circa 0,80. 11 secondo segmento indila che i eoetToienti
per fratelli e/o sorelle allevati insieme rata» da MQ ;i circa
78. Il campo di correlazione per gemelli dizigotici di sesso op-
posto va da 0.Ì8 a 0.65: per gemelli dizigotici del medesimo
-e-M. va da 0.43 a II.8K- La media i trottino verticale sui «"«■
Menti) per ciascuna serie di parentela è di circa 0.50. IV r i ge-
melli monozigolici I identici I, però, si ha un campo di correlazio-
ne tra «.77 e 0.92 con media 0,8". Il coefficiente medio 0...H e
quello ebe sì dovrebbe avere ili assenza completa degli .•(Tetti ani-
Mentali sul Q.l. Ma proprio a causa dell'incidenza dell'ambimi e
questi calcoli avrebbero bisogno di ulteriore approfondimento.
fetenze. La differenza media dì Q.L tra
bianchi e negri era di 21.1 punti, men-
tre la deviazione standard della distri-
buzione tra negri era inferiore di circa
il 25 per cento a quella rilevata fra i
bianchi (12,4 contro 16,4). Come c'era
da attendersi, le due curve di distribu-
zione tendono a sovrapporsi, perché la
variabilità del Q.l. come la variabilità
di altre caratteristiche, è, nell'ambito
dì una qualsiasi popolazione, più gran-
de dì quella che si riscontra fra due
popolazioni qualsiasi. Nondimeno il
95,5 per cento dei negri ha un Q.l. in-
feriore a 101,8, che è il valore medio
dei bianchi, e il 18 per cento inferiore a
70. Solo nel 2 per cento dei bianchi il
Q.l. scende al dì sotto di questo valore.
Poiché le differenze tra media del
Q.L nei bianchi e media del Q.L nei
negri segnalate da altri ricercatori sono
generalmente comprese fra 10 e 20
punii, il valore trovato da Kennedy e
dai suoi collahoratori e uno dei più pro-
nunciali. Negli stati del nord la diffe-
renza tra bianchi e negri è minore che
negli stati del sud, e ciò è in evidente
rapporto con le particolari condizioni
delle popolazioni esaminate. Un noto
studio sui risultati del reattivo Alfa,
usato nell'esercito degli Stati Uniti, ha
dimostralo che negri di alcuni stali -del
nord avevano indici di intelligenza su-
periori a quelli di bianchì degli stati
del sud, sebbene i bianchi risultassero
costantemente superiori ai negri del
medesimo stato. Vi sono indubbiamen-
te molte variabili che influenzano il
Q.L, ma le differenze medie riscontra-
te fra bianchi e negri negli Stati Uni-
ti sono confermate da molle ricerche e
risultano piuttosto marcate.
Le differenze correlate con la classe
sociale si distinguono da quelle corre-
late con le differenze razziali riscon-
trate tra bianchi e negri in base a due
principali caratteristiche. La prima di
queste caratteristiche è data dal fatto
che i fattori ambientali sono più rile-
vanti nella determinazione delle diffe-
renze correlate alla razza che non nella
determinazione delle differenze correlate
alla classe sociale. Infatti non si può
assumere che la variazione dì tali fat-
tori nell'ambito di una popolazione in-
glese relativamente omogenea abbia
una ampiezza tale che le differenze
derivanti da essa siano paragonabili alle
differenze ambientali medie che si ri-
scontrano tra bianchi e negri degli Sta-
ti Uniti. Il secondo fattore di distin-
zione, ancor più importante, è che le
differenze di Q.L tra classe e classe si
mantengono nel tempo a causa della
mobilità occupazionale, dovuta soprat-
tutto al Q.L. per cui sono i soggetti
intellettualmente più dotati che di nor-
ma entrano nelle classi occupazionali
più elevate. La mobilità professionale
non ha corrispettivo quando in luogo
delle differenze correlate alla classe si
considerano le differenze correlale alla
razza: il colore delta pelle impedisce
la mobilità da una razza all'altra.
Le argomentazioni che sostengono
la natura prevalentemente genetica del-
le differenze di Q.L tra razza e razza
si basano sul presupposto che le attua-
li stime circa l'ereditarietà del Q.L. ben-
ché rimandino esclusivamente a osser-
vazioni effettuate nell'ambito della razza
bianca, stano valide anche per la mi-
surazione delle differenze razziali d'or-
dine genetico. Noi abbiamo sottolinea-
to il fatto che le stime di ereditarietà
hanno valore solo per la popolazione
studiata, e in riferimento all'ambiente
a essa peculiare. L'estrapolazione del-
le attuali stime dì ereditarietà alle dif-
ferenze razziali si fondano sul presup-
posto che le differenze ambientali fra
razza e razza siano comparabili alle
variazioni d'ordine ambientale che sì
rilevano nell'ambito di ciascuna razza.
Poiché questo presupposto è arbitrario,
bisogna concludere che dalle stime di
ereditarietà compiute nell'ambito delle
singole razze non si possono derivare
indicazioni di sorta circa le differenze
gè n eli che tra razza e razza. Il fatto che
la variazione del Q.L nell'ambito di
una razza sìa interamente determinato
da fattori genetici o interamente deter-
minalo da fattori ambientali non ha
niente a che fare con la domanda rela-
tiva alla misura in cui i fattori am-
bientali e i fattori genetici rispettiva-
mente influiscono sulla determinazio-
ne delle differenze tra razza e razza.
Una delle principali prove fomite da
Jensen per dimostrare che le differen-
ze di Q.L hanno una cospicua compo-
nente genetica è data dal fatto che es-
se sussistono anche quando si mettono
a confronto bianchi e negri appartenen-
ti al medesimo status socioeconomico.
Poiché tale status è definito in termini
di scolarità, occupazione e reddito, esso
può consentire una misura delle varia-
zioni ambientali o almeno di quelle che
risultano correlate alle differenze di
classe che abbiamo esaminato in pre-
cedenza.
Se si assume che lo status socioeco-
nomico è veramente una misura dello
ambiente totale - i dati che si otten-
44
gono da questo confronto potrebbero
effettivamente dimostrare che le diffe-
renze di Q.l. hanno una determinazio-
ne genetica. Tuttavia è diffìcile stabi-
lire fino a che punto sia legittimo con-
frontare lo status dei negri con lo sta-
tus dei bianchi. La reale esistenza di
una stratificazione razziale collegata con
la stratificazione socioeconomica rende
sospetto un confronto del genere. Tut-
ti sanno che nelle scuole per ragazzi
negri il livello delle prestazioni didat-
tiche generalmente è inferiore a quello
delle scuole per bianchi, sicché il me-
desimo numero di anni dì scuola non
garantisce il medesimo grado di pre-
parazione. D'altra parie nella medesima
classe occupazionale c'è ampia varia-
zione del livello di occupazione e si
potrebbe dimostrare che anche nel-
l'ambito della stessa classe occupazio-
nale i negri sono situati a livelli in-
feriori a quelli dei bianchi. Non v'è ric-
chezza che possa far entrare un negro
nella upper-class di una comunità bian-
ca, o annientare tutti i pregiudizi raz-
ziali che per più di duecento anni si
sono accumulati nei bianchi, o ricosti-
tuire la famiglia negra, sgretolata an-
che a causa di fattori culturali che ven-
gono trasmessi di generazione in gene-
razione sin dai tempi della schiavitù. È
impossibile accettare l'idea che le mi-
surazioni relative allo status socioeco-
nomico possono fornirci un'adeguata
verifica circa le più importanti diffe-
renze ambientali tra bianchi e negri.
Tensen ha avanzato altre prove in fa-
vore della tesi che le differenze me-
die tra bianchi e negri in ordine al Q.l,
sono interamente o quasi di natura ge-
netica, e ha sfidato i lettori di un suo ar-
ticolo sulla * Harvard Educational Re-
view » a verificarle. Una di queste prove
è costituita da una serie di dati da cui
risulta che anche fra i negri è presente
il fenomeno da noi già segnalato a
proposito di alcune ricerche su sogget-
ti di razza bianca: il fatto, cioè, che il
Q.l, della prole sia in rapporto con la
classe sociale cui i genitori apparten-
gono, e che esso tende d'altronde' a
spostarsi verso i valori medi. La sola
conclusione che sì può trarre da questi
dati è che nei negri l'ereditabilità del
Q.l. è piuttosto marcala. Ma nulla ci
dicono sulle differenze tra bianchi e ne-
gri che più influenzano il Q.L, e qui
sta il vero problema.
Jensen ha esaminato anche le diffe-
renze razziali relative sia agli indici di
sviluppo della motricilà durante i pri-
mi mesi di vita, sia agli indici di svi-
luppo di altre funzioni che si ritengono
correlate al Q.l. Il presupposto di tali
indagini è che l'incremento di questi in-
dici di sviluppo sia determinato da fat-
tori genetici. In realtà le influenze am-
bientali sullo sviluppo sono state og-
getto di ampie ricerche, ma le informa-
zioni in merito non ci aiutano a risol-
vere i problemi riguardanti l'eredita-
rietà del Q.l. Jensen. inoltre, basandosi
sul noto rapporto Coleman. afferma che
gli indiani americani, per quanto ri-
guarda il Q.L, nonostante il basso gra-
do di scolarità si discostano meno dei
negri dai soggetti di razza bianca. Biso-
gna tuttavia osservare che secondo il
rapporto Coleman gli indiani americani
frequentano generalmente scuole in cui
i bianchi costituiscono la maggioranza,
ciò che di solito non si verifica nella
maggior parte delle scuole frequentate
da negri. (Del resto è possibile che la
differenza tra bianchi e indiani ameri-
cani sia in realtà maggiore di quella se-
gnalata dal rapporto Coleman. dal mo-
mento che il campione di indiani pre-
so in esame forse non è veramente rap-
presentativo del 70-80 per cento della
popolazione indiana che vìve nelle ri-
serve). La verità è che le differenze
fra indiani americani e bianchi, o fra
indiani e negri, non sono più facili da
determinarsi di quanto lo siano quelle
fra bianchi e negri.
Jensen afferma che sono note tante
differenze fra il corredo genetico dei
negri e quello dei bianchi, e che « dif-
ferenze genetiche emergono da tutti i
confronti - anatomici, fisiologici, bio-
chimici - operati fra campioni rappre-
sentativi di ben definiti gruppi razziali...
non vi è alcuna ragione per supporre
che il cervello e l'intelligenza costitui-
scono un'eccezione a questa regola ge-
nerale ». Come genetisti noi possiamo
affermare con certezza che non vi è al-
cuna ragione a priori per cui t geni che
aumentano il Q.l. siano, in media, più
numerosi nei bianchi che nei negri, tan-
to più che nel corredo genetico delle
due razze la frequenza dei geni che in-
fluenzano il Q.L non è la medesima. Al
contrario, assumendo che i geni che in-
fluenzano positivamente il Q.l. non han-
no alcuna tendenza ad accumularsi per
selezione nell'una o nell'altra razza, sì
può supporre che quanto più sono nu-
merosi i geni polimorfi che influenzano
il Q.L, e la cui frequenza varia dai
negri ai bianchi, tanto meno è proba-
bile che vi sia tra le due razze una dif-
ferenza media di Q.L dovuta a fattori
genetici. Lo stesso discorso vale a pro-
posito delle differenze tra due razze
qualsiasi.
Poiché la selezione naturale è il prin-
cipale fattore dì cambiamento geneti-
co, ci si può chiedere se essa abbia de-
terminato una differenza tra bianchi e
negri degli Stati Uniti. Ricorrendo al
modello genetico elementare di cui ci si
vale nella selezione di piante e ani-
mali per prevedere i risultati del pro-
cesso selettivo si può azzardare una ri-
sposta approssimativa circa la * quan-
tità » di selezione che può essere stata
necessaria per dare origine a una diffe-
renza di 15 punti, quanto ne corre fra
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Q.l. (SCALA ARBITRARIA)
10
13
L'ereditabilità è la misura degli effetti relativi dell'ereditarietà e dell'ambiente su
eerte variabili quali il t„l,l. La stima dell'ereditabili!;!! si basa sull'ipotesi che una data
popolazione sia composta da vari gruppi, ria senno contraddistinto da un suo gen».
tipo e da una sua distribuzione dì Q.L trarre in rotore-I. Il totale di queste distribu-
zioni di Q.L individua la distribuzione del Q.L per la popolazione <rurra nera*.
Poiché i componenti di ogni gruppo hanno il medesimo genotipo, tutte le varia-
zioni all'interno dei gruppi sono di carattere ambientale. L'incidenza dell'ereditarietà
sulla di -tribù zi onc di Q.l. totale si può calcolare facendo la media complessiva delle
distribuzioni dei vari gruppi e sottraendola dalla distribuzione di Q.L totale. Il resto
che si ottiene rappresenta la variazione totale dovuta a fattori puramente genetici.
45
il Q.I. dei bianchi e quello dei negri. Il
calcolo si basa su tre presupposti. Il pri-
mo presupposto è che all'inizio non vi
fosse alcuna differenza fra i soggetti di
razza bianca e quelli di razza caucasica.
Il secondo presupposto è che il Q.I. ab-
bia una ereditarietà in senso stretta
pari al 50 per cento. Il terzo, infine, è
che i negri americani abbiano comin-
ciato a differenziarsi dagli africani cir-
ca duecento anni fa, cioè da sette ge-
nerazioni, il che comporta una dimi-
nuzione di circa due punti a ogni ge-
nerazione. Se ora ci rifacciamo al mo-
dello genetico cui sì è fatto cenno, que-
sto indice di mutamento può essersi
realizzato solo a condizione che a ogni
generazione il 15 per cento dei sog-
getti intellettualmente più dotati sia
stato escluso dal processo riproduttivo.
In realtà non è possibile dimostrare che
durante la schiavitù la selezione abbia
inciso cosi negativamente per il Q.I.
A nostro avviso nessuna delle prove
surriferite conferma le conclusioni
di J en.se n. La tesi secondo cui le diffe-
renze di Q.I. tra bianchì e negri degli
Stati Uniti sono dovute a fattori gene-
tici potrebbe essere dimostrata solo me-
diante un confronto tra un campione
rappresentativo di bambini negri e un
campione altrettanto rappresentativo di
bambini bianchi, allevati in ambienti
che possono a loro volta essere messi
in reciproco confronto. Ma per ora un
esperimento del genere appare irrea-
lizzabile.
Che cosa si può dire circa le diffe-
renze ambientali dì cui si conosce o si
sospetta un'influenza sui Q.I. In pri-
mo luogo bisogna notare che malgrado
la stima di ereditarietà del Q.I. sia di
solito piuttosto elevala, Orazio H. New-
man e i suoi collaboratori dell'Uni-
versità di Chicago hanno riscontrato
che le differenze tra gemelli monovu-
lari allevati separatamente varia da 1 a
24 punti, ed è in media pari a 8 punii.
Da ciò sì può desumere che anche nel-
l'ambito della popolazione bianca vi è
un'ampia variazione del Q.I. dovuta a
fattori ambientali.
In ordine all'importanza di partico-
lari influenze ambientali meritano dì es-
sere sottolineate le seguenti osserva-
zioni:
1. Tra gemelli, da un lato, e non-ge-
melli, dall'altro, si rileva sistematica-
mente una differenza dì oltre cinque
punti, del lutto indipendente dalle con-
dizioni socioeconomiche della famiglia
dì appartenenza e da altre variabili
note. Questa inferiorità del Q.I, dei ge-
melli può essere dovuta sia al fatto che
in caso di gravidanza gemellare l'am-
biente uterino è meno favorevole allo
sviluppo del prodotto de! concepimen-
to, sia al fatto che i genitori, per la
contemporaneità delle nascite, non sono
in grado di prestare ai gemelli tutte le
cure che si richiedono nella prima in-
fanzia.
2. È stato segnalato che soggetti ne-
gri esaminati da persone della loro raz-
za ottenevano un punteggio di due o
tre punti superiore a quello che con-
seguivano quando gli esaminatori erano
bianchi.
3. Alcune ricerche eseguite da Ste-
phen Zamenhof e dai suoi collaboratori
della scuola dì medicina dell'Università
di California, hanno dimostralo che
somministrando a ratti femmina prima
e durante la gravidanza una dieta po-
vera di proteine si provoca una cospi-
cua diminuzione del contenuto di DNA
nel cervello della prole, e cioè, presu-
mibilmente, una diminuzione numerica
delle cellule cerebrali. La diminuzione
del DNA e dei neuroni cerebrali risul-
ta correlata a disturbi di comporta-
mento. In base a queste ricerche si può
pertanto avanzare l'ipotesi che nell'uo-
mo le differenze di Q.I, possano anche
essere determinale dieteticamente, at-
traverso meccanismi simili a quelli evi-
denziati dall'esperimento. Non vi è dub-
bio infatti che in molte zone la povertà
dei negri comporti carenze alimentari
che possono danneggiare lo sviluppo ce-
rebrale del prodotto del concepimento.
Analoghe conseguenze potrebbero ave-
re le carenze alimentari sofferte nella
prima infanzia.
4. Da molto tempo si è consapevoli
dell'importanza che ha l'ambiente fa-
miliare per lo sviluppo intellettuale del
bambino. Possediamo dati estremamen-
te dimostrativi circa le dannose conse-
guenze che hanno le gravi privazioni
sensorie nella prima infanzia. Vi sono
pochi dubbi sul fatto che, in generale,
l'ambiente familiare per ì negri degli
Stati Uniti è meno soddisfacente che
per i bianchi, a causa sia dell'inferio-
rità del loro status socioeconomico,
sia di fattori culturali che onerano sin
dai tempi della schiavitù. È probabile
che questo particolare fattore ambien-
tale abbia un'influenza predominante
sul Q.I. fino al termine degli anni pre-
scolari. Anche in questo caso gli espe-
rimenti sugli animali confermano l'im-
portanza che le esperienze vissute nei
primi periodi della vita hanno per lo
NON CONGIUNTI CRESCIUTI INSIEME
GENITOHE E FIGLIO ADOTTIVO
FRATELLI E SORELLE CRESCIUTI SEPARATI
FRATELLI E SORELLE CRESCIUTI INSIEME
GEMELLI MONOZIGOTICt CRESCIUTI SEPARATI
GEMELLI MONOZIGOTICI CRESCIUTI INSIEME
1-
0,10 0,30 0.30 0,40 0,60 0.60 0,70 0,60
SIMILARITÀ (COEFFICIENTE DI CORRELAZIONE]
0.90
L'incidenza dell'ambiente si può misurare mediante il confronto
tra i coeffk ÌftiH di rorrelazione per individui con i medesimi
precedenti genetici, ma allevati in ambienti diversi, rispetto
agli individui con storia genetica diversa, ma cresciuti nello
stesso ambiente. I dati raccolti rivelano come persone senza
legami di parentela allevate insieme abbiano coefficienti che
vanno da 0,1 5 u poro più di 0,30. Il campo di correlazione per
genitori e figli adottivi va da 0,1 6 a quasi 0,40. Per fratelli e/o
sorelle cresciuti separatamente i coefficienti si collocano tra più
di il, Su a più di 0,40. I coefficienti per fratelli e/o sorelle alle-
vati insieme vanno da 0,30 a poco meno di 0JÌ0. Nel caso di
gemelli monomi gotici allevati separatamente si hanno coefficienti
tra più di 0,60 e più di 0,B0, mentre nel casa di monosdgoticì
crescimi insieme i coefficienti oscillano tra più di 0,70 e più
di 0,90. Sembrerebbe quindi che l'incidenza dell'ambiente sul.
l'intelligenza non sia tanto forte quanto quella dell'ereditarietà.
46
sviluppo ccrebralc.
5. La previsione dell'insuccesso in
genere porta l'insuccesso.
Nel suo articolo sulla * Harvard
Educational Review » Jensen preferisci:
minimizzare la portata di fattori am-
bientali di questo tipo. Noi crediamo
tuttavia che non vi siano prove con-
tro l'idea che essi, assieme ad altri
fattori ambientali, molti dei quali in-
dubbiamente sono ancora da scoprire,
potrebbero renderci conto di tutte le
differenze di Q.I. tra negri e bianchi.
Noi non abbiamo alcuno strumento
per escludere che le differenze medie
di Q.I, tra razza e razza siano in parte
determinate per via genetica. Noi so-
steniamo semplicemente che i dati at-
tualmente disponibili non sono suffi-
cienti per risolvere la questione nell'uno
o nell'altro senso. Il solo modo per sta-
bilire se vi sono differenze di Q.I. do-
vute a fattori razziali è quello di esami-
nare comparativamente bambini negri
adottati in famiglie bianche e bambini
bianchi adottati in famiglie negre. Per-
ché il ricercatore abbia la sicurezza di
prendere in considerazione tutte le in-
fluenze dell'ambiente familiare subite
dai soggetti in esame, anche quelle che
agiscono nei primissimi tempi di vita, i
bambini dovrebbero essere adottati fin
dalla nascita. Si potrebbe altresì con-
frontare il Q.I. di bambini negri adot-
tati in famiglie bianche con il Q.I. di
bambini bianchi adottati in famiglie an-
ch'esse bianche e confrontabili a loro
volta con quelle del primo gruppo dal
punto di vista delle caratteristiche am-
bientali.
Per quanto sappiamo ricerche dì que-
sto genere, rigorosamente scientifiche,
non sono mai state compiute. Del resto
c'è da chiedersi se nelle attuali circo-
stanze ricerche del genere potrebbero
davvero essere effettuate con sufficienti
garanzie di controllo sperimentale, dal
momento che non si potrebbero rimuo-
vere i pregiudìzi che in molte comu-
nità bianche si nutrono contro le per-
sone di razza negra. Noi pertanto soste-
niamo che sarà impossibile trovare una
risposta soddisfacente agli interrogati-
vi in merito alla natura genetica delle
differenze razziali del Q.I. fino a quan-
do le differenze ambientali tra bianchi
e negri degli Stati Uniti non saranno
sostanzialmente ridotte.
Prescindendo dalle difficoltà intrinse-
che del problema, non sembra, d'al-
tronde, che vi siano valide ragioni, né
sul versante teorico né su quello prati-
co, per vedere di buon occhio l'appog-
gio che viene fornito alle ricerche in
quesio campo. Da un punto di vista teo-
rico è improbabile che queste ricerche
riusciranno a gettare molta luce sul
problema generale del controllo gene-
5
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120
MI»
AMBIENTE
RESTO ITTI VO
AMBIENTE
NORMALE
AMBIENTE
STIMOLANTE
L'interazione genotipo-ambiente scaturisce dai risultali di questo esperimento, con-
dotto da R. Cooper e John P. Zubek dell'Università di Manitoba. La sperimentazione
riguardava due gruppi di ratti, quelli addestrali a essere «intelligenti.» ossia bravi
nel trovar la Mrada in nn labirinto, e quelli addestrati alla * stupidità. » In ambiente
normale i ratti intelligenti * curva colorata' commisero solo 120 errori, mentre quelli
-tiijiuli i curva in nero' fecero registrare circa 16tt errori. Tuttavia entrambi i gruppi, se
allevati in ambiente restrittivo, registravano circa 170 errori. In ambiente stimolante
il comportamento dei due gruppi risultò soddisfacente in modo indifferenziato.
lieo del Q.I., considerato che proba-
bilmente solo una piccola parte della
variazione totale del Q.I- è dovuta a
differenze razziali. Il semplice fatto che
i dati relativi a tali differenze non siano
stati utili alle ricerche relativamente
grossolane compiute finora sulla eredi-
tarietà del Q.I. fa pensare che esse non
siano le differenze più significative per
la ricerca. Per raggiungere una mi-
gliore conoscenza circa l'ereditarietà
del Q.I. occorrono molti lavori preli-
minari sulla biochimica e la biologia
dello sviluppo mentale, da eseguirsi in
condizioni controllate, appoggiandosi
altresì alle differenze genetiche cono-
sciute.
11 solo argomento valido in favore
dì ricerche sulle differenze di Q.I. cor-
relate alla razza è forse il seguente:
dal momento che si è posta la questio-
ne sulla natura genetica di tali diffe-
renze, un tentativo per rispondervi de-
ve essere pur fatto. In assenza di que-
ste ricerche coloro che ora pensano -
a nostro avviso sulla base di prove ina-
deguate - che le differenze di Q.I. tra
bianchi e negri degli Stati Uniti siano
genetiche, resteranno liberi di continua-
re la loro campagna in favore di un
assetto del nostro sistema educazionale
ed economico ispirato al principio che
rispetto al Q.I. esistono differenze raz-
ziali innate.
Campagne del genere si potrebbero
arginare dimostrando che le differenze
non hanno una base genetica. D'altra
parte, anche se questa dimostrazione
non fosse possìbile e anzi si conseguis-
se la prova che le differenze in que-
stione hanno effettivamente un carattere
genetico, queste ricerche non dovreb-
bero avere conseguenze negative in
una società autenticamente democrati-
ca e libera da pregiudizi razziali. La
nostra società proclama che non vi de-
vono essere discriminazioni contro un
indivìduo sulla base della razza, della
religione e di altre categorie precosti-
tuiie compreso il sesso.
Tulli gli indivìdui devono avere ugua.
lì opportunità, nella più ampia misura
possibile, secondo le proprie necessità,
perché ognuno possa realizzare piena-
mente le sue potenzialità. Senza dubbio
un sistema educativo progredito deve te-
nere in debito conto le differenze inna-
te individuate e valutate in riferimento
ai singoli individui, non alle razze. Su
questo punto qualsiasi affermazione con-
traria dimostra che si è incapaci di di-
stinguere le differenze tra individui dal-
le differenze tra popolazioni.
Attualmente, per il clima razziale
che regna negli Stati Uniti, le ricerche
sulle differenze razziali del Q.I., anche
se perseguono finì apprezzabili, possono
essere interpretale capziosamente, ri-
schiano di diventare uno strumento del
razzismo, e possono in definitiva por-
tare a un inasprimento delie tensioni
razziali.
47
I grandi albatros
L'albatros reale e Valbatros urlatore sono gli uccelli che possiedono la
maggiore apertura alare. Le due specie sono cosi simili, che si possono
considerare evolute, in tempi non troppo lontani, da un antenato comune
di W. L. N. TickeU
Due specie affini della famiglia dei
Diomedeidi, e cioè l'albatros rea-
le e l'albatros urlatore, sono i
più grandi uccelli oceanici e sono an-
che quelli che possiedono, tra i volati-
li, la maggiore apertura alare, che è
superiore ai 3,3 m. L'unico uccello di
dimensioni paragonabili a queste è il
condor delle Ande, che può avere un
peso maggiore, ma ha un'apertura ala-
re di 3 m. Gli albatros reale e urlatore
sono due specie distinte della stessa fa-
miglia, che comprende 13 specie (11 ap-
partenenti al genere Diomedea e due
al genere Phoebetria), ma talvolta ven-
gono designati col nome di « grandi
albatros». Tutti questi uccelli appar-
tengono all'ordine dei Procellari formi,
gruppo che comprende anche le ossì-
fraghe, le procellarie, le berte e altri
uccelli, tutti perfettamente adattati a un
ambiente marino.
Nei secoli XVI II e XIX la differen-
za tra i due grandi albatros non era an-
cora stata chiarita: solo nel 1891 l'or-
nitologo inglese Walter L. Buller riu-
sci a dimostrare l'esistenza di due spe-
cie distinte. Entrambi gli uccelli sono
bianchi, con la punta delle ali nera; l'al-
batros reale, Diomedea epoinophora, ha
te narici arrotondate, e le palpebre e i
bordi taglienti della mascella superiore
neri; l'albatros urlatore, D. extdans, ha
le narici meno arrotondate, e ha bian-
chi sia le palpebre sia i bordi taglienti
del becco. Queste differenze sono tal-
mente insignificanti che è difficile no-
tarle vedendo gli albatros volare sul
mare. Un'altra possibilità d'identifica-
zione è quella di osservare le differen-
ze nello sviluppo del piumaggio, I gio-
vani albatros reali si ricoprono di pen-
ne dello stesso colore di quello dei ge-
nitori, mentre i giovani albatros urla-
tori sono scuri quando lasciano il nido
e diventano lentamente più chiari e poi,
dopo parecchi anni, completamente
bianchi. Gli albatros urlatori quindi si
identificano facilmente nei primi perio-
di di vita per il piumaggio più scuro;
tuttavia quasi metà dei maschi e circa
un quinto delle femmine, nel periodo
della riproduzione, raggiungono abba-
stanza rapidamente un colore bianco.
f* li studi sull "albatros reale sono sta-
ti eseguiti quasi esclusivamente da
biologi neozelandesi. Tra il 1938 e il
1952 L.E. Richdale dell'Università di
Otago studiò una popolazione di alba-
tros reali al Capo Taiaroa sulla Peniso-
la dì Otago, nell'isola meridionale della
Nuova Zelanda, mentre tra il 1942 e
il 1958 J.H. Sorensen, membro della
spedizione neozelandese durata dal 1941
al 1945 e K.E. Westerskov, dell'Uni-
versità di Otago, osservarono una po-
polazione di albatros reali molto più
numerosa, sull'Isola Campbell, solitario
avamposto tra la Nuova Zelanda e il
Mare di Ross.
La storia del lavoro di Richdale di-
mostra come i grandi albatros siano te-
naci nel nidificare nel medesimo luogo.
Nel 1920 si osservò che un paio di al-
batros reali aveva nidificato a Capo
Taiaroa; gente del luogo rubò, purtrop-
po l'unico uovo dal nido. La stessa cop-
pia, probabilmente, depose poi un uovo
all'anno per 15 anni: solo una volta il
nido fu lasciato intatto, abbastanza a
lungo da lasciar nascere un piccolo,
che però, poi, fu ucciso. Finalmente,
nel 1938, per gli sforzi di Richdale e
la protezione della Royal Society della
Nuova Zelanda, si potè allevare con
successo un giovane albatros e Richda-
le potè studiare gli uccelli net successi-
vi 15 anni. Grazie alle strette misure
imposte dal Ministero degli affari in-
terni e dalla capitaneria de! porto dì
Otago, negli ultimi 31 anni la colonia
si è accresciuta; ora vi nidificano 15
coppie,
È probabile che gii alhatros reali si
siano moltiplicati nella Nuova Zelan-
da prima che l'area fosse popolata dai
Maori immigrati nel XIV secolo; si pen-
sa che i Maori siano responsabili del-
l'estinzione di un altro famoso uccello:
il gigantesco moa, incapace di volare.
Si potrebbe pensare che anche .l'alba-
tros avesse carni commestìbili e fosse
facile da catturare sulla terraferma; ma
non vi sono prove sufficienti per dimo-
strare questa ipotesi; il recente svilup-
po della popolazione di albatros al Ca-
po Taiaroa è forse dovuto al caso. Ben-
ché la colonia di Otago sia assai picco-
la in confronto a quelle di albatros rea-
li sull'Isola Campbell, sulle Isole Chat-
ham e sulle Isole Auckland, tuttavia
Capo Taiaroa è l'unica località del mon-
do dove un grande albatros nidifichi in
una zona abitata dall'uomo: la città di
Dunedin dista solo 30 km.
l^f i sono occupato particolarmente del-
l'albatros urlatore : dopo una spe-
dizione informativa sull'area di nidifica-
zione subartica di questo albatros nella
Georgia del Sud, la Johns Hopkins Uni-
versity finanziò uno studio permanente
su quella popolazione di albatros. Nei
periodi 1960-61. e 1962-64 la National
Science Foundation finanziò una serie
di tre spedizioni, per le quali il British
Antarctic Survey forni l'aiuto logistico.
Complessivamente i mici compagni e io
trascorremmo sei estati e un inverno
per studiare una colonia di albatros sul-
l'Isola Bird, al largo della punta nord-
-occidentaJc della Georgia del Sud.
Ancor oggi non si conosce bene qua-
le sia l'area di distribuzione dei grandi
albatros: le nostre informazioni più si-
cure sulla loro diffusione oceanica so-
no ancora quelle fornite dal capitano
C.C. Dixon, dopo molti anni passati
sul mare. Dixon ammise di non poter
distinguere le due specie, sul mare, ma
ciò non toglie nulla al valore del suo
lavoro. Al momento del suo ritiro, nel
1919, aveva accumulato 3500 giorni di
osservazioni (le aveva iniziate infatti
nel 1892), dalle quali sì può ricavare
che l'area di distribuzione di questi uc-
celli negli oceani meridionali sta tra i
30 e i 60 gradi dì latitudine sud. Alcu-
ni grandi albatros possono giungere vo-
lando fino ai mari tropicali, raggiun-
gendo il limite settentrionale di 18 gra-
di di latitudine sud: esemplari isolati so-
no stati visti attraversare l'Equatore, per
spingersi nell'Atlantico settentrionale e
persino entrare nel Mar Mediterraneo.
L'estremità meridionale dell'area di di-
stribuzione di questi uccelli è compresa
all'interno dei mari antartici: l'avvista-
mento più meridionale fu fatto per la
prima volta dai membri della secon-
da spedizione antartica dell'ammiraglio
Byrd, che osservarono un uccello nel
Mare di Ross, a 69 gradì di latitudine
sud.
I grandi albatros volano in stormi
più o meno numerosi sui vari mari a
seconda delle stagioni. Dixon avvistò
gii uccelli per lo più verso settentrione
durante l'inverno, e verso meridione du-
rante l'estate. Le migrazioni di ciascu-
na specie debbono ancora essere chia-
rite con precisione : si è da poco inizia-
to questo lavoro contrassegnando gli
albatros sia nelle stagioni riproduttive
sia in quelle invernali. Per esempio, ne-
gli anni successivi a! 1950, parecchi or-
nitologi australiani studiarono ì nume-
rosi albatros urlatori riuniti d'inverno
sul mare, al largo della costa del Nuo-
vo Galles del Sud: nel 1958 iniziaro-
no, a bordo di barche a motore, a cat-
turare uccelli e a contrassegnarli. L'e-
state successiva (1958-59), senza sape-
re nulla del programma australiano, io
pure cominciai a studiare gli albatros
urlatori che si riproducono nella Geor-
gia del Sud, e in dicembre trovai un uc-
cello che portava un contrassegno mes-
so nei mari australiani nel luglio pre-
cedente. Nel luglio successivo si regi-
strò una migrazione inversa, quando un
giovane albatros urlatore, che avevo
contrassegnato nella Georgia del Sud,
fu ritrovato al largo dell'Australia. Nel-
le ricerche eseguite durante i successi-
vi cinque anni queste migrazioni si di-
mostrarono tutt'altro che rare. Dei 1477
albatros adulti catturati e contrassegna-
ti al largo dell'Australia orientale, 50
furono ritrovati, spesso più di una vol-
ta nella Georgia del Sud. Nello stesso
periodo 6601 albatros furono contras-
segnati nella Georgia del Sud e. di que-
sti, 14 furono ritrovati al largo dell'Au-
stralia. Su 64 passaggi tra le due aree,
27 furono compiuti in meno dì 6 me-
si; 12 uccelli compirono un tragitto di
andata e ritorno, e uno di questi im-
piegò, per l'intero percorso, appena 12
mesi: è chiaro perciò che questi uccelli
Quando si scorgono da lontano, è assai difficile distinguere gli albatro» urlatori adulti
da tutti gli albatros reali : infatti i primi variano gradualmente di rotore, dallo scuro
al chiarii (a-dl con l'età, mentre i reali si coprono subito di un piumaggio bianco (e).
48
©
49
I due grandi albatros si possono distinguere per la colorazione e per la forma di alcune
parti del rapo. L'albatros reale ha le palpebre e i bordi della mascella superiore neri;
le narici ssono arrotondate Un «Jfot. L'albatros urlatore ha palpebre e mascelle bian-
che; le narici sono meno arrotondale (in («isso). Poiché queste caratteristiche non
sono visibili da lontano, un tempo non era nota l'esistenza di due specie distinte.
50
non vagano a caso, ma navigano in di-
rezioni ben precise su lunghe distanze,
tra le arce di nidificazione e le zone do-
ve svernano.
Uno dei dati più precisi, sulla velo-
cità che i grandi albatros mantengono
in volo, fu fornito dal capitano Hiram
Luther molto prima dell'avvento della
tecnica moderna di inanellamento: egli
infatti il 30 dicembre 1847. sulla ba-
leniera Cachaìot, al largo della costa
pacifica dell'America meridionale, a
43° 24' di latitudine sud e 79° 5' di lon-
gitudine ovest uccise con una fucilata
un grande albatros che aveva una fiala
legata al collo contenente il seguente
messaggio: « 8 dicembre 1847. Nave
Euphrates, Edwards, 16 mesi di navi-
gazione, 2300 barili d'olio, di cui 150
di spermaceti. Non ho visto una bale-
na per 4 mesi. Latitudine 43" sud. lon-
gitudine 148° 40* ovest. Nebbia fitta e
pioggia ».
L'uccello aveva percorso, in 22 gior-
ni, 2950 miglia nautiche tra il rilascio
e la ricattura, quindi in media 134 mi-
gtìa al giorno (circa 250 km). Mante-
nendo questa velocità « di crociera » un
albatros potrebbe compiere il volo di
7000 miglia tra la Georgia del Sud e
T Australia orientale in meno di otto
settimane: teoricamente un albatros po-
trebbe circumnavigare l'emisfero austra-
le parecchie volte all'anno.
Cecondo le osservazioni fatte da stu-
diosi australiani i grandi albatros
non stanno mai fermi in un territorio
dove possono procurarsi cibo, ma si
spostano spesso verso altre aree: al lar-
go del Nuovo Galles del Sud l'arrivo
degli uccelli è in relazione con l'appa-
rizione di branchi di grosse seppie, se-
gtiitti d;ì una moltitudine di grandi pre-
datori, tra cui i delfini; gli albatros in-
fatti, si cibano degli avanzi dei delfini.
I territori osservati da noi attirano uc-
celli da molte altre aree di nidificazio-
ne. Tra gli albatros urlatori che migra-
no lungo i mari del Nuovo Galles del
Sud, vi sono uccelli provenienti dalle
Isole Principe Edoardo, dalle Isole Cro-
zet, dall'Isola Kerguelen e dalle Isole
Auckland [si veda la figura nella pagi-
na a fronte).
Benché gli albatros reali si trovino
raramente nei mari australiani, altri
territori sono la meta dì entrambe le
specie in cerca dì cibo. Sia gli albatros
urlatori, contrassegnati nella Georgia
del Sud, sia quelli reali, contrassegnati
sull'Isola Campbell, sono stati ritrovati
tra le moltitudini di uccelli marini che
si radunano attorno ai pescherecci nel-
la vasta area di pesca atlantica al largo
delle coste dell'Argentina.
1 grandi albatros si sono evoluti adat-
tandosi all'ambiente marino, ma dive-
nendo meno agili sulla terraferma; di
conseguenza, la caratteristica costante
dei loro territori di nidificazione è un
lento pendio esposto ai venti, che ren-
de facile ti decollo. Gli uccelli trovano
tali pendii esclusivamente nelle picco-
le isole disabitate sud-antartiche degli
Oceani Atlantico, Indiano e Pacifico. Le
isole dove nidificano, oltre a quelle già
citate, sono: Tristan da Cunha, l'Isola
Gough, l'Isola Amsterdam, le Isole
M acquane e le Isole degli Antipodi. I
nidi delle due specie si trovano nel me-
desimo luogo solo sull'Isola Campbell
e sulle Isole Auckland.
A causa dell'isolamento delle aree di
nidificazione, i grandi albatros hanno
come unico nemico naturale l'uomo. Al-
la fine del XVIII secolo e all'inzio del
XIX, dopo la scoperta delle zone di ni-
dificazione, navi inglesi e statunitensi
spesso transitavano nei pressi di quel-
le isole. Talvolta naufraghi sopravvive-
vano su di esse per mesi e persino per
anni; in tali occasioni gli uccelli e le
loro uova venivano usati come cibo, e
perciò, in alcuni luoghi, furono quasi
completamente sterminati. Le caverne
delle Isole Macquarie, un tempo occu-
pate da cacciatori di foche, sono disse-
minate di crani di albatros urlatori.
Nel 1913, quando una pattuglia della
spedizione antartica australiana di Sir
Douglas Mawson svernò sulle Macqua-
rie, poti trovare un solo nido d'alba-
tros. Tuttavia, nel periodo successivo
alla II guerra mondiale, i visitatori au-
straliani dì queste isole hanno scoperto
che la popolazione di albatros urlatori
PENISOLA DI OTAGO
ISOLE CHATHAH
ISOLE DEGLI ANTIPODI
ISOLE AUCKLAND
ISOLA CAMPBELL
ISOLE MACQUARIE
,- GEORGIA
**& s %gfl 0EL SUD
TRISTAN DA CUNHA
w
L'area dì distribuzione dei grandi albatros sì estende per lo più
fra i 30 e I 60 gradi di latitudine sud; nella carta sono indica-
te le isole su cui le due specie nidificano. Le lìnee tratteggiate
uniscono le isole con territori in cut gli uccelli svernano, se-
condo i dati forniti da uccelli contrassegnati nei nidi, ritrovati
poi sul mare, o viceversa: le linee nere si riferiscono all'alba-
tro.» urlatore, quelle colorate all'albatros reale. L'orientamento
di una linea non rappresenta il percorso in volo di un uccello.
51
®
ha superato questa crisi e sta di nuovo
proliferando.
IVel periodo riproduttivo la femmina
del grande alhatros depone un solo
uovo: se riesce a schiudersi e l'uccelli-
no sopravvive, i genitori lo devono im-
boccare per tutto l'inverno, finché non
sia capace di volare e di badare a se
stesso sul mare. Perciò una coppia di
albatros si può riprodurre solo una vol-
ta ogni due anni. L'apparato neuroen-
docrino degli uccelli può evidentemente
rispondere a stimoli estemi, promuoven-
do la rigenerazione, la crescita e la ma-
turazione delle gonadi con un ciclo an-
nuale, ma la presenza di un uovo o di
un nidiaceo dà inizio a una reazione
che interrompe il ciclo dopo la solita
regressione delle gonadi in seguito al-
l'ho; oppia mento e inibisce la rigenera-
zione normale per 10 mesi. Questo è un
ottimo meccanismo di adattamento: dà
alla coppia la possibilità di riprodursi
ogni anno, inibendola solo quando c'è
un'alta probabilità che la prole soprav-
vìva.
Non appena i genitori cominciano a
prendersi cura dell'uovo, la loro capa-
cità di riprodursi nell'anno successivo
diminuisce gradualmente. L'uovo di al-
batros comune viene deposto di solito
in dicembre : se l'uovo viene distrutto
appena deposto, entrambi i genitori si
allontanano sul mare e ritornano nella
stagione successiva per riprodursi. A
partire da marzo, quando l'uovo si
schiude, la coppia che perde l'uovo o
il piccolo ha probabilità assai inferiori
di riprodursi nel dicembre successivo;
più l'uccellino resta nel nido tanto più
diminuisce la possibilità di una nuova
covata. Su 19 coppie di albatros comu-
ni che persero i toro nidiacei nella
Georgia del Sud tra il marzo e il giu-
gno del 1963, solo 12 riuscirono a ri-
prodursi nel dicembre successivo; nes-
suna delle 16 coppie che avevano per-
so i nidiacei tra giugno e ottobre riuscì
nello stesso intento.
T" 1 coricarne nt e, se da ogni uovo depo-
sto dalla femmina dell'albatros si
sviluppasse un piccolo, esattamente me-
tà della popolazione di ogni area di ni-
dificazione si riprodurrebbe l'anno suc-
cessivo e le coppie sarebbero sempre
composte di individui della stessa rnez-
I] co rie (giumento dell'ai Latro 5 urlatore è
in realtà una competizione tra maschio e
femmina non ancora accoppiati che han-
no poca dimestichezza Ira loro. 1 segnali,
sia vocali che visivi, servono ad attrarre,
respingere e tranquillizzare il compagno,
tinche i due uccelli sì abituano Putì l'al-
tro e non stabiliscono un legame coniugale.
Un albatros viene colorato per permettere la localizzazione del-
la zona in cui gli albatros dell'isola Bird prendono il cibo.
Secondo avvistamenti eseguiti da navi gli uccelli si nutrono tal
mare a circa 150 miglia a nord dal territorio di nidificazione.
Uno dei ricercatori in visita sull'Isola Bird applica macchie di
colore sulla testa di un albatros urlatore adulto: l'uso di con-
52
trassegni ba permesso ai ricercatori, durante Io studio ani ciclo
riproduttivo di questi uccelli, di identificare i vari individui.
53
za popolazione. Se d'altra parte tutte
le uova deposte in un'estate fossero di-
strutte, le coppie di quella mezza po-
popolazione che si riproduce tornereb-
bero a riprodursi l'anno successivo e si
aggiungerebbero all'altra metà, cosic-
ché l'intera popolazione nidificherebbe
insieme in una sola stagione. Natural-
mente, in realtà, questi due casi estre-
mi non si verificano. Tra uccelli che
non vengono disturbati la mortalità na-
turale di uova e uccellini provoca sem-
plicemente il passaggio di alcune cop-
pie da una metà della popolazione al-
l'altra: la t semipopolazione stabilizza-
ta » è di solito superiore alla metà del-
la popolazione biennale totale. L'entità
della semipopolazione è in rapporto al-
ta perdita media di uova e dì neonati.
Nella Georgia del Sud il 20 per cento
delle coppie che si riproducono annual-
mente non riuscirono a portare a ter-
mine il loro compito e nidificarono nuo-
vamente l'anno successivo, cosicché la
semipopolazìone era il 55 per cento del
totale.
La dinamica della popolazione dei
grandi albatros è complicata da questo
ciclo riproduttivo biennale. Si può so-
lo determinare il totale di coppie che
fanno il nido considerando due censi-
menti annuali e sottraendo le coppie
che non riescono a riprodursi nel pri-
mo anno, ma solo nel successivo. Per-
ciò se non si conosce la percentuale di
sopravvivenza di uova e piccoli in tut-
ti i territori di riproduzione, è impos-
sibile fare una stima precisa della po-
polazione mondiale dei grandi albatros.
Tuttavia la maggior parte delle Ìsole
su cui questi uccelli nidificano è stata
visitata: secondo un calcolo grossola-
no vi sono circa 10 000 coppie di al-
batros reali, quasi tutte sull'Isola Camp-
bell e le Isole Chatham. Più di 14 000
coppie di albatros urlatori nidificano in
9 delle 1 1 isole dove questi uccelli si
riproducono: quando questa cifra sa-
rà integrata dal censimento delle Isole
Kerguelen e Amsterdam, è probabile
che la stima totale cresca a circa
20 000 coppie, ossia al doppio de! nu-
mero di albatros reali. Quando saremo
in grado di aggiungere a queste valuta-
zioni il numero di piccoli di ciascuna
La foto della pagina a fronte mostra il
territorio di nidificazione dell'albatros sul-
l'Isola Bird, al largo della punta nord-ovest
della Georgia meridionale, nelle acque snb-
antarlirhe dell'Atlantico. I tre grandi uc-
celli in primo piano sono albatros urla-
tori (Diomede» exulans). Gli uccelli rosa
sono stati colorati per un esperimento ese-
guito dall'autore e dai suoi colleglli. Gli
altri uccelli sono ossifraghe I MacroTieetes
giganteus) e albatros più piccoli. L'altro
grande albatros, quello reale <Dìomedea
epomophara), non nidifica su quest'isola.
1910
1920
1930
1940
1950
1960
1970
L'incremento della popolazione nelle due specie di grandi albatro» è quasi analogo.
La prima curva Un nero* illusi ra l'aumento degli albalros urlatori sulle Isole Macqua-
rie dal 1913, quando si trovò un solo nido d'albatros. La seconda curva (in co-
lore) indica l'aumento degli albatros reali nella Nuova Zelanda, dal 1938 al I960.
specie, otterremo un totale certamente
molto più alto.
Il ciclo vitale degli albatros è ecce-
zionale per la lunga durata del perio-
do in cut mettono le penne: in media
236 giorni per gli albatros reali e 278
giorni per gli albatros urlatori. La dif-
ferenza di 42 giorni tra specie sotto al-
tri aspetti cosi simili è stupefacente ed
è quasi certamente in relazione con le
differenti condizioni di nidificazione:
nella Georgia del Sud, isola subantar-
tica completamente coperta di neve per
parecchi mesi in inverno, la tempera-
tura media dell'aria è -2 °C, mentre
nella Nuova Zelanda e nelle isole vici-
ne l'inverno è molto più mite, e sulla
penisola di Otago la temperatura me-
dia del mese invernale più freddo (lu-
glio) è di 7 °C e vi sono circa 5 gior-
ni di neve all'anno. Ne consegue che
la necessità metabolica di isolamento
termico e la produzione di calore sono
probabilmente molto inferiori nei gio-
vani albatros reali della Nuova Zelan-
da che in quelli urlatori della Georgia
del Sud. La differenza climatica è for-
se la causa principale del fatto che i
giovani albatros urlatori ricevono più
cibo, crescono di più e impiegano più
tempo per perdere il peso in eccesso
prima di volare, rispetto ai piccoli al-
batros reali. Questa conclusione è pro-
vata da osservazioni sullo sviluppo del
piumaggio: i piccoli albatros urlatori
rimangono coperti da piumino circa 60
giorni più a lungo dei reali, mentre la
crescita delle penne primarie dura cir-
ca lo stesso tempo nelle due specie.
Appena nato, un piccolo albatros pe-
sa 300-400 grammi: i genitori non lo
nutrono nelle prime 24 ore di vita, e
nei successivi tre giorni gli somministra-
no solo piccole quantità di olio secreto
dallo stomaco. Poi i pasti diventano
gradualmente più sostanziosi: dopo 32
giorni, quando il peso dell'animaletto è
di circa 3 kg, ì meccanismi termorego-
latori dell'uccellino sono sufficientemen-
te perfezionati e la cova non è più ne-
cessaria.
Terminato il periodo di cova, i geni-
tori si recano sul mare per pescare pe-
sci e calamari, per poi somministrarli al
piccolo ancora nel nido, sottoforma di
una polpa, rigurgitata e parzialmente di-
gerita. Il piccolo riceve un pasto all'in-
circa ogni tre giorni, per una media
mensile di 9 kg di polpa e un totale di
circa 80 kg per i 250 giorni che inter-
corrono tra la fine della covata e il pri-
mo volo. Il suo peso corporeo varia
molto di giorno in giorno, a seconda
della quantità di cibo inghiottito. Tut-
tavia, calcolando la media del peso gior-
naliero tra 24 giovani albatros urlatori
sotto osservazione della stazione delr
l'Isola Bird, si è potuto costruire una
curva, caratteristica per tutti i procella-
ri formi.
La stabilizzazione del peso dei gio-
vani uccelli viene raggiunta tra gli 80
55
e ì 40 giorni prima della partenza, poi
le cure dei genitori cominciano a dimi-
nuire, i pasti divengono meno frequenti
e il peso dei giovani uccelli inizia a ca-
lare; in molti studi sulle colonie di pro-
cellarie questo è stato definito come il
« periodo della fame », benché si tratti
di una espressione imprecisa: infatti,
sebbene i genitori offrano meno pasti
al piccolo, tuttavia gli portano sempre
cibo. L'intervallo medio che noi abbia-
mo potuto osservare tra l'ultimo pasto
e la partenza per 19 piccoli albatros
dell'Isola Bird è stato di 6,8 ± 1,4
giorni: tutti 19 però avevano digiunato
molto più a lungo (14 ± 1 giorni) nel
periodo in cui erano ricoperti di piu-
mino.
TV onos tante la considerevole potenza
di volo dei genitori, la necessità dì
alimentare il piccolo uccello circa ogni
tre giorni impone una limitazione so-
stanziale all'area oceanica di ricerca di
cibo: il rifornimentto principale dev'es-
sere, infatti, disponibile per tutto l'an-
no in meno di 36 ore di volo dal nido,
che equivale a un raggio di circa 200
miglia nautiche. Non molto a nord del-
l'isola della Georgia del Sud si trovano
alte concentrazioni di zooplancton; que-
sta riserva di cibo spiega anche l'abbon-
danza di balene, un tempo, nelle zo-
ne vicine. Per scoprire se i genitori pro-
venienti dai nidi dell'Isola Bird si pro-
curassero cibo in questa zona ricca di
organismi marini, contrassegnammo pa-
recchie centinaia di albatros con un
colore rosa (si veda la figura in alto a
pagina 53) : chiedemmo informazioni,
sia agli equipaggi delle numerose bale-
niere che ancora attraversano la zona
e sia alle navi di spedizioni antartiche
transitanti nei paraggi, su avvistamenti
di uccelli colorati. Ricevemmo un nu-
mero tale di rapporti da poter dimo-
strare che molti albatros rosa, prove-
nienti dalla Georgia del Sud, si nutri-
vano nelle acque ricche di plancton in
un raggio di 1 50 miglia dall'isola.
Quando il giovane albatros lascia il
nido, vive su! mare per alcuni anni nei
medesimi luoghi prima occupati dagli
adulti. Gli uccelli giovani cominciano a
tornare a passare l'estate nell'isola do-
ve sono nati solo dopo i 4 anni. Sul-
l'Isola Bird circa il 50 per cento dei
656 albatros urlatori, da noi contrasse-
gnati nel primo anno di vita durante
la nostra prima stagione di permanen-
za, erano ritornati nella Georgia de!
Sud nel periodo in cui avevano un'età
di 6 anni. Il periodo di permanenza sul
mare nei primi anni di vita sembra sia
più lungo per gli albatros reali; finora
si sa solo di tre uccelli, contrassegnati
nel primo anno, che siano tornati al
Capo Taìaroa : uno aveva 6 anni, gli
altri due 8 anni.
La percentuale di mortalità dei gran-
di albatros è nettamente inferiore a
quella, assai elevata, di molti altri uc-
celli. Sull'Isola Campbell il 75 per cento
di uova di albatros reale (e sull'Isola
Bird il 58 per cento di uova di alba-
tros urlatore) producono uccelli in gra-
do di sopravvivere. Metà degli albatros
nati sull'Isola Bird sopravvivono fino
all'età di 6 anni e ritornano al territo-
rio di nidificazione. Quando questi uc-
celli raggiungono la maturità, a 10 anni
d'età, la percentuale di mortalità è di-
minuita a un livello dì circa il 4,3 per
cento: negli albatros reali adulti la per-
centuale diminuisce fino a raggiungere
il 3 per cento.
Quando ì giovani ritornano per la pri-
ma volta al territorio natio, non
hanno ancora una compagna. Gli adul-
ti invece, nel caso in cui un membro
della coppia sia morto, cercano un com-
pagno (o una compagna) non appe-
na giungono, l'estate successiva, nel ter-
ritorio di nidificazione. Col passare de-
gli anni i giovani cominciano a unirsi
alle danze che costituiscono il rituale
di corteggiamento: queste esibizioni
vengono eseguite da un solo maschio
150
ETÀ (1M GIORNI)
L'aumento di peso di un giovane albatros, nei nove mesi com-
presi tra la nascita e il primo volo, varia notevolmente di gior-
no in giorno, ma segue una curva caratteristica (in nero) calco-
lata in base a misure effettuate su 24 nidiacei. La quantità me-
dia di ci ho ricevuto mensilmente (in catare) si abbassa rapida-
mente quando i giovani uccelli si preparano a lasciare risola
e da una o più femmine. Le femmine
sono attratte dai maschi, ma i maschi
spesso sono restii a permettere alle fem-
mine di avvicinarsi troppo.
La rappresentazione consiste in una
serie di segnali visivi che alternativa-
mente attraggono, respingono e rappaci-
ficano la potenziale compagna. Gradual-
mente il maschio passa sempre più tem-
po con una femmina particolare e il nu-
mero delle sue danze diminuisce: alla
fine si stabilisce un legame coniugale;
maschio e femmina si riconoscono a vi-
cenda senza esitazione e il loro incontro
non provoca più le reazioni stereotipate
e agonistiche della danza.
Il giovane albatros passa circa cinque
anni sul mare, presumibilmente impa-
rando a conoscere l'ambiente marino:
questa esperienza iniziale è seguita da
circa cinque estati di corteggiamento e
cinque inverni sul mare.
Le due distinte specie di grandi al-
batros sono, come già detto, notevol-
mente simili : tranne le differenze di
lunghezza de! periodo in cui mettono le
penne e di colore del piumaggio dei gio-
vani, la maggior parte delle variazioni
riscontrabili non sono maggiori di quel-
le che ci sono tra le razze della me-
desima specie; è possibile che entrambe
le eccezioni siano dovute a tipiche rea-
zioni all'ambiente. Come ho già fatto
notare, il clima invernale più mite del-
la Nuova Zelanda permette probabil-
mente all'albatros reale di mettere le
penne prima dì quanto accada all'al-
batros urlatore: perciò quando la cop-
pia di adulti reali pronti a riprodursi
raggiunge Capo Taiaroa per iniziare la
costruzione del nido, tutti o quasi lut-
ti gli uccelletti nati nella stagione pre-
cedente sono già parliti per la loro pri-
ma estate sul mare-
li periodo in cui il giovane albatros
urlatore mette le penne è lai mente più
lungo che. quando gli adulti ritornano
all'Isola Bird per riprodursi, molti gio-
vani nati nella stagione precedente oc-
cupano ancora il territorio di nidifica-
zione. La data media dell'arrivo dei
maschi adulti sull'Isola Bird è il 30
novembre: le femmine adulte arrivano
attorno al 10 dicembre, che è pure la
data media dì partenza per gli uccelli
nati nella stagione precedente. In que-
sto periodo i giovani albatros sono mol-
to indaffarati e aggressivi, e si compor-
tano in modo da interferire con la co-
struzione del nido da parte degli adulti.
F due grandi albatros, urlatore e reale,
non solo condividono una parte del
loro habitat sull'oceano, ma nidificano
insieme su due isole. Inoltre le notevo-
li differenze tra le entità delle due po-
polazioni e la posizione dei loro princi-
In [lit-no inverno un pìccolo alljatros, ben proietto dallo spesso piumino e da uno
strato di grasso sottocutaneo, riceve 900 grammi dì pesce dai genitori ogni tre giorni.
A nove mesi d'età, già ricoperto di penne, un giovane albatros urlatore si espone al
vento su un pendio dell'Isola lìird, e stende le ali in vista dell'imminente primo volo.
pali territori di riproduzione evidente-
mente riflettono un'evoluzione in tempi
relativamente recenti delle due specie
da un unico ceppo ancestrale. Le re-
gioni temperato-fredde e subantartiche
dell'emisfero meridionale costituiscono
un ambiente poco ospitale, dove di ra-
do si sviluppano nuove nicchie ecologi-
che. Tuttavia, le vicende degli avanza-
menti, delle soste e dei ritiri glaciali che
caratterizzarono il periodo pleistocenico
dell'emisfero settentrionale avevano la
loro controparte nell'emisfero meridio-
nale, dove la distesa dei ghiacci antarti-
ci e la fronte dei ghiacciai avanzavano
e si ritiravano nel medesimo modo.
Questi flussi e riflussi glaciali proba-
bilmente frammentarono e alterarono
un ambiente che precedentemente era
stalo favorevole al mantenimento di un
unico ceppo, progenitore delle due spe-
cie attuali di grandi albatros. Le flut-
tuazioni della copertura glaciale cam-
biarono la vegetazione delle isole su
cui gli uccelli nidificavano: le variazio-
ni di temperatura e di salinità del mare
influenzarono certamente la disponibi-
lità di cibo marino a portata di volo.
Ne! corso dì tali variazioni alcune Ìsole
probabilmente rimasero isolate. Un'in-
terruzione del normale scambio geneti-
co fra diversi territori di nidificazione
può essere stato sufficiente per permet-
tere lo sviluppo dì due linee separate di
grandi albatros: in seguito la sparizione
di queste barriere pleistoceniche permi-
se con ogni probabilità una nuova
espansione delle aree di distribuzione
delle due specie, rimettendo in conlat-
to l'albatros reale e l'albalros urlatore,
limitatamente però ai mari a sud della
Nuova Zelanda.
56
57
I magneti permanenti
Le nuove leghe a base di cobalto e di alcuni elementi delle terre
rare possiedono proprietà talmente superiori a quelle dei materiali
usati prima, da costituire virtualmente una nuova classe di magneti
di Joseph J. Becker
All'interno di numerose apparec-
chiature elettriche ed elettroni-
che si cela spesso più di un ma-
gnete permanente. Tuttavia, gli unici
magneti che normalmente si ha l'occa-
sione di vedere, sono quelli che servo-
no a tenere ermeticamente chiusi gli
sportelli dei frigoriferi o quelli che, nei
moderni apriscatole, attirano i coperchi
metallici delle scatolette. In realtà i ma-
gneti, anche se spesso non sono visibi-
li esteriormente, esercitano una note-
vole influenza sia sulla forma che sul-
le prestazioni di ogni strumento in cui
vengono impiegati. Dovendo svolgere
un determinato lavoro, quanto più un
magnete è potente in rapporto al suo
volume, tanto più ridotte possono es-
sere le sue dimensioni. (La forma al-
lungata dei vecchi ricevitori telefonici
non era tanto determinata da esigenze
di comodità e maneggevolezza quanto
dalla necessità di sistemare al loro in-
terno dei lunghi magneti di acciaio al
tungsteno indispensabili al loro fun-
zionamento).
In questi ultimi anni, si è venuta svi-
luppando una nuova categoria dì mate-
riali per la costruzione di magneti per-
manenti a base di cobalto e di alcuni
elementi delle terre rare. La qualità
delie prestazioni rispetto a materiali di
altro tipo è talmente superiore che si
può affermare che i magneti a cobalto-
-terre rare costituiscano di per se stessi
una classe. Per quanto concerne la lo-
ro resistenza alla smagnetizzazione, i
nuovi materiali sono da venti a cin-
quanta volte migliori dei magneti con-
venzionali di tipo Alnico. e la toro
energia magnetica è da due a sei vol-
te maggiore. Di conseguenza, i magne-
ti a cobalto e terre rare potrebbero
ora trovare applicazione in casi in cui
altri materiali non possono in alcun
modo essere presi in considerazione.
Gli atomi degli elementi ferroma-
gnetici quali il ferro, il cobalto e il ni-
chel, posseggono uno strato elettronico
che contiene un numero di elettroni
minore del massimo numero consenti-
to. In questi strati incompleti vi sono
uno o più spin elettronici spaiati che
danno luogo a un piccolo momento
magnetico trasformando l'atomo stes-
so in un minuscolo magnete. In un
grande insieme di atomi di questo ti-
po i magneti atomici sono generalmen-
te orientati in varie direzioni in modo
tale da elidersi a vicenda. D'altra par-
te, se un campione di un materiale fer-
romagnetico viene posto in un campo
magnetico, i singoli magneti atomici
tendono a orientarsi secondo la dire-
zione del campo ed esso conserva per-
tanto un magnetismo residuo con un po-
lo nord e un polo sud chiaramente os-
servabili. La magnetizzazione totale
(A/) di un frammento di materiale è
la somma dei contributi di tutti i ma-
gneti atomici elementari. Ora, se tutti
i magneti atomici sono paralleli e so-
no orientati nel medesimo verso, la
magnetizzazione raggiunge, in quella
direzione, il punto di saturazione, vale
a dire il suo massimo valore.
T e sostanze magnetiche vengono tra-
dizionalmente suddivise in due ca-
tegorie: sostanze < dure » e sostanze
■ dolci », Una sostanza dura è difficil-
mente magnetizzabile e smagnetizzabi-
le, ed è proprio questa la qualità carat-
teristica di un magnete permanente. Le
sostanze dolci presentano la proprietà
opposta: si magnetizzano e si smagne-
tizzano con facilità. Quanto più una
sostanza è dolce, tanto più essa è adat-
ta a essere impiegata in quegli appa-
recchi elettrici in cui la magnetizzazio-
ne deve cambiare di segno molte volte
in un secondo, come per esempio nei
trasformatori. Traducendo questo di-
verso comportamento in un grafico in
cui si ponga sull'asse delle ascbse il
valore del campo magnetico applicato
IH) e sull'asse delle ordinate il valore
della magnetizzazione totale (M). si ot-
tiene una curva caratteristica, simile a
una S molto spessa, che si dice « ciclo
di isteresi » (si veda la figura a pagina 61
in alto). Consideriamo ora una sostan-
za dura: il valore di M, supposto ini-
zialmente nullo, si discosta assai poco
dallo zero finché il campo applicato H
non raggiunge un valore apprezzabile:
a questo punto M cresce bruscamente.
Cessato l'effetto del campo, il valore
di M si mantiene elevato e il materia-
le conserva la sua magnetizzazione; per
riportare M a zero è necessario inver-
tire il segno o la polarità del campo
applicato. Sì dice ■ forza coercitiva in-
trinseca » (H ci ), il valore del campo
per cui M si riduce nuovamente a ze-
ro. Se l'intensità del campo invertito
viene ulteriormente aumentata, il ma-
teriale diverrà completamente magne-
tizzato con polarità opposta e rimarrà
ancora magnetizzato al cessare dell'a-
zione del campo. In altri termini, una
sostanza magnetica dura si comporta
come una pesante scatola posta su una
superficie scabrosa: ha bisogno di una
forte spinta per poter essere spostata
e di un'altra spinta altrettanto forte per
essere riportata nella posizione inizia-
le. Una sostanza dolce è invece come
la stessa scatola montata su rulli: è fa-
cilmente spostabile da un punto del
piano (stato di magnetizzazione) al»
l'altro.
Quanto all'area del ciclo di isteresi,
essa è abbastanza grande per le sostan-
ze dure mentre è piuttosto piccola per
le sostanze dolci. Poiché è necessario
fornire energia per compiere un ciclo
completo, è preferibile un ciclo di
estensione il più possibile limitata per
tutte quelle applicazioni in cui è ne-
cessario invertire frequentemente la
magnetizzazione (come nel caso dei
trasformatori). La preparazione di ma-
teriali magnetici è generalmente legata
al problema di indurire o di addolcire
le sostanze magnetiche. La forza coer-
citiva intrinseca, che determina l'esten-
La struttura a domini magnetici di molte sostanze ferromagne-
tiche può essere messa in evidenza per mezzo dì luce polariz-
zata. Questa microfoto grafi a rappresenta un magnete permanen-
te costruito con uno dei nuovi materiali, il eoballo-samaiio;
ogni regione con un particolare tipo di conformazione raffigura
un grano della colata. Quando la luce polarizzata viene ri-
flessa dalla superfìcie levigata, il piano di polarizzazione ruota
leggermente da una parte o dall'altra a seconda della dire-
zione che la magnetizzazione ha all'interno di ogni dominio
e questo si traduce in una serie di zone chiare e scure. All'in-
terno di ogni grano le regioni chiare e scure hanno magnetiz-
zazione opposta. Nei grani che presentano una configurazione
a ruota dentata la magnetizzazione è, più o meno, perpendico-
lare alla superficie ed è diretta verso l'interno o verso l'ester-
no. I grani a ruota dentata hanno forma esagonale perché il
reticolo cristallino del cobalto-samario è esagonale e i contorni
dei domini del materiale assumono di preferenza orientazioni
particolari. La microf olografìa di cui riproduciamo qui sopra
un ingrandimento a 500 diametri, è stala eseguita dai ricerca-
tori Curtis R. Rodd e Andrew S. Holìk della Cenerai Electric.
58
59
La forza repulsiva di magneti di diverso tipo può essere messa a confronto ponendo
due dischi di ciascuna sostanza con i poli dello stesso segno affacciati e aggiungendo
dei pesi sino a ottenere distanze uguali tra i dischi. In questa fotografìa, i dischi ma-
gnetici sono, da sinistra a destra, rispettivamente di Alnico, ferrite di bario e di cobal-
to-samario. Per rendere piti facilmente osservabile il fenomeno, il disco inferiore di
ciascuna coppia è appoggiato a una base di plastica e quello superiore è separato dalla
colonna di pesi per mezzo di un piccolo perno. Dei cilindri di plastica circondano i
pesi per mantenerti in equilibrio, I Ire pesi stanno ira loro nel rapporto 2; 5: 23.
60
sion e del ciclo d'isteresi, può variare
da meno di un centesimo dì oersted,
valore tipico delle leghe usate nelle ap-
parecchiature telefoniche, sino a deci-
ne di migliaia di oersted come nei nuo-
vi materiali a cobalto-terre rare. Si ten-
ga presente, a titolo di esempio, che il
valore del campo magnetico terrestre
è di circa mezzo oersted.
Per descrivere il comportamento dei
materiali magnetici sì usano spesso del-
le curve di isteresi in cui si pone in
ordinata il valore del flusso d'induzio-
ne magnetica (B) in luogo della ma-
gnetizzazione M. In effetti, il flusso di
induzione magnetica rappresenta sia il
contributo della magnetizzazione che
quello dell'intensità del campo magne-
tico (H). Ora, mentre nei problemi di
carattere tecnico è preferibile usare il
flusso d'induzione magnetica piuttosto
che M, perché la prima è una quanti-
tà più direttamente legata alle caratte-
ristiche di funzionamento di molte
macchine elettriche, il tecnico della
materia preferisce invece ragionare in
termini di magnetizzazione poiché essa
descrive in modo più diretto il com-
portamento della sostanza in un cam-
po magnetico. Per quanto riguarda i
nuovi materiali a cobalto-terre rare, so-
no ugualmente significative entrambe
le quantità.
Quando si voglia assegnare un indi-
ce alla durezza di un magnete perma-
nente, ci si riferisce generalmente ai
secondo quadrante della curva di B in
funzione di H, quadrante in cui B e H
hanno polarità opposte (si veda la fi-
guru in basso netta pagina a fronte). 11
valore del campo applicato per cui l'in-
duzione magnetica si annulla si dice
semplicemente forza coercitiva (H c ).
In questo quadrante, ogni punto della
curva rappresenta un certo valore de!
prodotto di B per H: il punto in
cui questo valore assume un massimo,
si dice massimo prodotto di energia
(BH) max . Questo valore massimo è sta-
to usato per anni come indice signifi-
cativo della qualità di un magnete per-
manente.
per i materiali dolci e per gran par-
te di quelli duri precedenti all'av-
vento dei materiali a cobalto-terre ra-
re, la forza coercitiva ordinaria ff c e
la forza coercitiva intrinseca H ci sono
praticamente coincidenti. Il campo che
riduce a zero il flusso di induzione ma-
gnetica B smagnetizza completamente
il materiate. Nei magneti a cobalto-ter-
re rare invece, la forza coercitiva in-
trinseca può essere molto maggiore del-
la forza coercitiva ordinaria, il che
comporta notevoli conseguenze che ren-
dono particolarmente interessanti que-
sti materiali.
Si considerino infatti due magneti
duri di uguale portata: il primo, un or-
dinario magnete di tipo Alnico, l'altro
costruito con i nuovi materiali a base
di terre rare. Se a ciascuno dei due
magneti viene applicato un campo pa-
ri al valore della forza coercitiva, i ri-
sultati sono sensibilmente diversi. Nel
magnete di tipo Alnico, non appena il
flusso dì induzione magnetica si annul-
la e il campo viene rimosso, il valore
del flusso rìsale in modo trascurabile:
in pratica il magnete si può considera-
re smagnetizzato (si veda la figura a
pagina 62), Questo accade perché il
valore della forza coercitiva H r è qua-
si uguale a quello della forza coerciti-
va intrinseca H ci , Il magnete Alnico sa-
rebbe a questo punto inutilizzabile a
meno che non venisse ri magnetizzato
da un campo intenso.
Ripetendo l'esperienza con un ma-
gnete duro a cobalto-terre rare, sì può
osservare che un campo pari alla for-
za coercitiva del materiale riduce a ze-
ro l'induzione magnetica, come del re-
sto avviene per il magnete Alnico. ma,
in questo caso, quando il campo viene
rimosso, il flusso riassume praticamen-
te il valore iniziale. La spiegazione ri-
siede nel fatto che i valori della forza
coercitiva intrìnseca sono, per i magne-
ti a cobalto-terre rare, molto maggiori
dei valori della forza coercitiva ordi-
naria. Di conseguenza, un campo sma-
gnetizzante può portare a zero (o an-
che al di sotto dello zero) l'induzione
magnetica senza alcuna ripercussione
sulla magnetizzazione intrinseca M de!
materiale. Questa resistenza alla sma-
gnetizzazione permanente non viene
espressa dalla quantità « massimo pro-
dotto di energia », ma è per lo meno
altrettanto importante. I valori della
forza coercitiva intrinseca nei magneti
a cobalto-terre rare sono da venti a
cinquanta volte maggiori di quelli dei
magneti permanenti convenzionali (si
veda la figura a pagina 63).
Questa capacità di opporsi alla sma-
gnetizzazione dovrebbe quindi permet-
tere di progettare dei motori a magne-
ti permanenti molto più potenti ed ef-
ficaci di quanto non fosse possibile in
passato, utilizzando i nuovi materiali a
base di terre rare. Infatti, l'indotto di
un motore a magnete permanente è si-
mile a quello di ogni altro motore a
corrente continua: la differenza risie-
de nell'induttore che è costituito da un
magnete permanente anziché da una
struttura di ferro avvolta da un fila-
mento di rame. Non richiedendo ener-
gia per eccitare il campo, i motori a
magneti permanenti sono largamente
usati negli strumenti ad accumulatori;
esìstono tuttavia dei limiti alla loro po-
tenza dovuti al fatto che la corrente
M
(+1
A MAGNETE DURO.. ^
f
f~
— MAGNETE DOLCE /
f /
ut /
z /
9 / FORZA COERCITIVA
N j INTRINSECA
a K;
& 7 H ' c ' « «~~
~ 1
a 1
< 1
J
y
(-
-J
-M
(-}•*-
-CAMPO MAGNETICO (H>-
>( + )
Il rido di isteresi descrive il comportamento di lutti i materiali magnetici quando la
loro magnetizzazione viene espressa in funzione del campo magnetico applicato //. Un
magnete « duro » tende a opporsi fortemente a ogni cambiamento di direzione della
sua magnetizzazione. Pertanto, in un materiale duro, il valore di M non può annullarsi
sino a che il campo magnetico applicato non abbia raggi limo un valore che viene defi-
nito forza coercitiva intrinseca. Questa forza, (H cl ) è, nei materiali piti duri, decine
di milioni di volte superiore al valore che essa può assumere nei materiali più dolci.
(+)
MASSIMO PRODOTTO
DI ENERGIA (Bri),.,.
-H
-B
(-)«-
CAMPO MAGNETICO (H)-
->( + >
La qualità di un magnete permanente viene di solilo espressa numericamente per mez-
z.p ch'I ~ii" .-■ iiKi.-iiiin prodotto ili energia i tliìli .. Esso indirà il punii) ili-I -ni nubi
quadrante del ciclo «li isteresi in cui il prodotto del flusso ili induzione magnetica B
e del campo magnetico II raggiunge il massimo valore. I segni algebrici dì li e di II
non vengono in questo caso presi in considerazione. Il valore assunto dal flusso quando
il campo // è nullo, si dice flusso residuo B,. La forza coercitiva II corrisponde al
valore di H per cui B si annulla: non coincide con la forza coercitiva intrinseca il .
61
massima dell'indotto non deve smagne-
tizzare il magnete di campo. Ora do-
vrebbe essere possibile superare tale li-
mitazione data l'eccezionale resistenza
che viene presentata alla smagnetizza-
zione da parte dei magneti a cobal-
to-terre rare.
TI processo di indurimento di un ma-
gnete può essere teoricamente de-
scritto in termini di « domini magneti-
ci ». L'esistenza di microscopiche re-
gioni, dette domini magnetici, in cui
sono suddivìsi gli ordinari materiali fer-
romagnetici, fu postulata per la prima
volta nel 1907 e venne verificata spe-
rimentalmente nel 1930 {sì veda la fi-
gura a pagina 59). 1 singoli magneti
atomici son disposti parallelamente al-
l'interno di ogni dominio e la direzio-
ne in cui essi sono orientati determina
la direzione di magnetizzazione di quel
dominio. D'altra parte, i contorni dei
domini non sono fissi ma possono spo-
starsi sotto l'azione di un campo ma-
gnetico: essi sì spostano in modo tale
che i domini in cui la magnetizzazione
ha la stessa direzione del campo si
espandono a spese degli altri. Pertan-
to la magnetizzazione totale, data dalla
somma delle magnetizzazioni dei singo-
li domini, aumenta e, più in generale,
il movimento dei contorni può provo-
care sensibili variazioni di magnetiz-
zazione.
Affinché un materiale magnetico di-
venti più dolce è necessario che il mo-
vimento dei contorni dei domini ven-
ga facilitato al massimo. Per questa ra-
gione, i magneti dolci sono di regola
costruiti con materiali che posseggano
una struttura uniforme e priva di in-
clusioni; essi vengono inoltre sottopo-
sti a ricottura allo scopo di diminuire
Se tensioni interne. Per molto tempo,
parve logico supporre che i materiali
duri possedessero proprietà diametral-
mente opposte. I primi acciai al car-
bonio venivano raffreddati per tempra
in modo da produrre una struttura det-
ta martensite, costituita da un groviglio
di aculei e di microscopiche lamine di
una sostanza molto dura e altamente
incrudita. Le leghe Alnico, introdotte
alla fine degli anni trenta, debbono le
loro proprietà magnetiche a una secon-
La risposta a un campii smagnetizzante avente 1» stesso valore della forza coercitiva
intrinseca del materiale è variabile. Se lì elimina l'azione del campo quando esso ha
raggiunto un valore pari alla forza coercitiva l/f.l in un magnete di tipo Alnico il flusso
risale a un valore trascurabile B„ e il magnete deve nuovamente venire magnetizzato.
Se si effettua la stessa operazione in un magnete a cobalto-terre rare, per il quale la
forza coercitiva (H\) è maggiore, il flusso riassume praticamente il valore iniziale B„
da fase intercristallina finemente disper-
sa, di precipitazione metallurgica.
Intorno al 1950, diversi ricercatori
(tra i quali il fisico francese Louis Néel
che ha ricevuto il premio Nobel 1970
proprio per i suoi importanti contribu-
ti allo studio del magnetismo) propo-
sero una nuova teoria per lo studio
dei materiali magnetici duri partendo
dall'idea secondo cui, riducendo oppor-
tunamente le dimensioni delle particel-
le ferromagnetiche, non vi sarebbe sta-
to più spazio per i contorni dei domi-
ni. Poiché l'inversione delta magnetiz-
zazione dovrebbe avvenire per rotazio-
ne della magnetizzazione dell'intera
particella, il che è più difficile da rea-
lizzare di quanto non lo sia lo sposta-
mento dei contorni dei domini, le for-
ze coercitive sarebbero risultate assai
elevate. Le dimensioni delle particelle
necessarie a realizzare le ipotesi di que-
sta teoria dipendevano dal materiale
scelto. Per il ferro, le dimensioni non
dovevano superare qualche centesimo
di angstrom, vale a dire l'ordine di
grandezza delle dimensioni di un virus
di medie proporzioni. Per ottenere le
condizioni ideali, inoltre, le particelle
dovrebbero essere di forma molto al-
lungata in modo da rendere ancora più
difficile la rotazione della magnetizza-
zione.
Gli ingegnosi tentativi nella direzio-
ne di ottenere particelle di questo tipo
hanno portato a materiali di grande
utilità ma non hanno minimamente
raggiunto le ottimìstiche previsioni di
alcuni dei primi sostenitori della teoria
delle « particelle fini ». Lo scoglio prin-
cipale sembra essere l'irregolarità della
forma delle particelle. Particelle per-
fettamente omogenee, di forma allun-
gata e di appropriate dimensioni per-
metterebbero di ottenere, secondo le
previsioni della teoria, forze coercitive
dell'ordine di diecimila oersted; tutta-
via nessuno sa, almeno per ora, come
produrle.
Non appena svanirono le speranze
riposte in questa particolare teoria, gli
interessi si spostarono in un'altra dire-
zione, e cioè verso la ricerca di un'al-
tra proprietà che rendesse i materiali
cristallini capaci di opporsi alle rota-
zioni magnetiche. Ora, tutti i cristalli
ferromagnetici sono anisotropi, vale a
dire che la magnetizzazione preferisce
certe direzioni cristallografiche - gli as-
si più t docili » - ed è necessario for-
nire energìa per far ruotare la magne-
tizzazione in altre direzioni. Il grado
di anisotropia, inoltre, varia sensibil-
mente da sostanza a sostanza. Pertan-
to, se in un medesimo materiale si fos-
se riusciti a combinare sia una grande
anisotropia sia una magnetizzazione ra-
gionevolmente apprezzabile, il ma te ria -
:;■:
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o
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N
E
O
AL
ACCIAIO
TUNGSTENO
(IBM)
ALNICO 5
(1938)
COBALTO-
-PLATINO
(1952)
FERRITE
DI BARIO
(1954)
LOOEX
(1955)
ALNICO 8
(1956)
ALNICO 9
(1968)
COBALTO-
-SAMARIO
(19S9)
I due indici della qualità di un magnete, vale a dire la forza
coercitiva intrinseca (in colore) e il massimo prodotto di ener-
gia {in grigio), dimostrano chiaramente la notevole superiorità
di prestazioni dei nuovi materiali a cobalto-samari o rispetto ai
materiali precedentemente usati. Le date indicano l'anno in cui
i singoli materiali sono stati introdotti sul piano commerciale.
62
63
Il
V
M
M M
v V
M
M
— >
/K
le stesso, purché sotto forma di parti-
celle finemente suddivise, avrebbe po-
tuto essere qualificato come un buon
materiale magnetico duro e la sua for-
za coercitiva sarebbe stata limitata sol-
tanto dal grado di anisotropia. Inoltre,
ragioni teoriche spingevano a credere
che le effettive dimensioni delle parti-
V celle avrebbero potuto essere suflicien-
H temente grandi perché le si potesse ot-
tenere semplicemente polverizzando il
materiale. Questa linea di ragionamen-
to guidò per parecchi anni la ricerca
di materiati anisotropi tra i composti
intermeta Ilici dì ferro, cobalto, manga-
nese e nichel con una serie dì elemen-
ti quali il boro, il fosforo, il germanio,
il silicio, l'alluminio e lo stagno. Alcu-
ni dei materiali scoperti erano interes-
santi ma non di particolare rilievo.
Nel 1966 Gary Hoffer e Karl Strnat
dell'Air Force Materials Laboratory
pubblicarono alcuni dati molto interes-
santi su un singolo cristallo di un com-
posto intermetallico contenente cinque
atomi dì cobalto per ogni atomo di it-
trio: il Co 5 Y. Questo materiale è dota-
" to di notevole magnetizzazione e la sua
anisotropia è parecchie volte maggiore
di quella delle altre sostanze esaminate
in precedenza. La sua anisotropia in-
fatti è tale che la sua resistenza alla
smagnetizzazione è, presumibilmente,
dell'ordine di 200 000 oersted e comun-
d
Il meccanismo di risposta a un rampo
magnetico esterno è schematicamente il-
lustrato per quattro tipi ili sostanze ma,
gnetirhe. Le frecce nere, a sinistra in ogni
figura, indicano la direzione originaria
della maiiiiclizzaziiiiir. Muando viene ap-
plicato un campo di segno opposto, la
direzione principale della magnetizzazio-
ne si inverte (a destra), come è mostrato
dalle frecce colorate all'interno delle fi-
gure. L'intensità del rampo applicato ne-
cessarla a compiere l'inversione è indi-
la cala dall'intensità del colore e dalla lun-
ghezza delle frecce colorate contrassegna-
te con //. Nei magneti dolci a base di ac-
ciaio (al, i contorni di ogni dominio si
spostano facilmente sotto Fazione di un
campo magnetico debole. Le prime leghe
dure {b\ venivano sottoposte a trattamen-
to termico e in seguito rapidamente raf-
freddate per tempra in modo da creare
una complessa struttura interna che im-
|i.-iiiva I-i -.puntamento ilei contorni dei
domini. Le ultime due figure fé, d) rap-
presentano un ingrandimento di singole
particelle dei materiali più recenti. Nelle
leghe Alnico fc) le particelle sono trop-
po piccole perché possano esìstere dei
contorni di domini. La magnetizzazione
può ventre invertita soltanto per mezzo
di campi sufficientemente intensi da far
si che essa ruoti in opposizione alle pro-
prietà anisotrope del cristallo che favori-
rebbero la magnetizzazione nella direzione
degli assi più ■£ docili ». Nei più recenti
. materiali a cobalto-terre rare i contorni
* dei domini non sono normalmente pre-
|-| sentì ma possono formarsi ed essere spo-
stati sotto l'azione di campi molto intensi.
64
que più di cento volte maggiore del va-
lore caratteristico dei materiali di tipo
Aìnico.
Tuttavia, i primi esperimenti esegui-
ti con quantità massicce dì Co s Y furo-
no deludenti: non solo la preparazione
del materiale presentava delle difficoltà,
ma ogni tentativo di aumentarne le for-
za coercitiva, riducendolo con mezzi
meccanici in piccole particelle, si rive-
lava inefficace. La forza coercitiva sa-
liva a circa 2000 oersted e quindi pren-
deva a diminuire quando il materiale
veniva ulteriormente polverizzato. Evi-
dentemente la macinatura deformava
la struttura del cristallo a tal punto da
distruggerne l'anisotropia.
Durante la mia attività presso il Ge-
neral Electric Research and Develop-
ment Center, ho svolto una ricerca sul
C05Y e su composti similari in stretta
collaborazione col gruppo della Air
Force. Già da alcuni anni era noto
che si potevano preparare dei compo-
sti analoghi al Co ; Y per sostituzione
dell'ittrio con lantanio o altre terre ra-
re. Nel 1967 annunciammo collettiva-
mente che il composto cobalto -sa ma rio.
Co 5 Sm, sviluppava forze coercitive di
gran lunga maggiori di quelle di ogni
altro composto dello stesso gruppo e
che, già in quella prima fase, sembra-
va promettere ottimi risultati.
TVi allora il progresso è stato assai ra-
pido grazie alle ricerche portate
avanti in molti laboratori. D'altra par-
te la costruzione di buoni magneti com-
porta la soluzione di un certo numero
di problemi di lavorazione che sono
di fondamentale importanza. Infatti,
dopo essere stato ridotto a una polve-
re di convenienti dimensioni, il mate-
riate deve essere orientato per mezzo
di un intenso campo magnetico in mo-
do che gli assi di « facile magnetizza-
zione » di tutte te particelle risultino
paralleli. Successivamente la polvere va
ridotta in forma compatta e questa ul-
tima e delicata fase può essere realiz-
zata sia per mezzo di pressione mec-
canica, sia per sinterizzazione. Entram-
be le tecniche hanno avuto buon esito.
I laboratori di ricerca della Philips
in Olanda, la Raytheon Corporation e
la Genera! Electric negli USA hanno
annunciato di aver realizzato con suc-
cesso la produzione di magneti perma-
nenti a cobalto-samario dotati dì forza
coercitiva intrinseca oscillante tra i
10 000 e i 30 000 oersted e aventi un
massimo prodotto di energia compreso
tra t 16 e i 20 milioni di gauss-oersted.
Le forze coercitive cosi ottenute sono
circa trenta volte maggiori dì quelle
raggiungibili con le leghe Alnico e i
massimi prodotti di energia sono ap-
prossimativamente tre volte maggiori.
ACCIAIO AL TUNGSTENO
ACCIAIO AL COBALTO
ALNICO 2
I
ACCIAIO DOLCE
d ALNICO Z 5
ACCIAIO DOLCE
ALNICO 5
ACCIAIO DOLCE
ACCIAIO DOLCE
ACCIAIO DOLCE
1 nuovi materiali magnetici più potenti permettono di ottenere strumenti misuratori
di tipo D'Arsonval sempre più compatti. Negli strumenti qui illustrati, la corrente da
misurare passa attraverso una bobina Inon rappreseritntii in figurili che ruota nell'inter-
capedine tra i nuclei di acciaio dolce. Questa intercapedine è sede di cu campo ma-
gnetico provocato dal magnete permanente. In quattro strumenti («, b, e, d} ìt magne-
te è esterno rispetto ai nuclei di acciaio dolce. Nel quinto le) il magnete è talmente
piccolo che la disposizione dei componenti viene addirittura capovolta: lo spazio per
la bobina infatti circonda in questo caso il magnete realizzato con i nuovi materiali.
Tutto ciò rappresenta un notevole pro-
gresso rispetto alla prima scoperta del-
l'anisotropia del C05Y avvenuta nel
1966.
D'altra parte, come era prevedibile,
i nuovi materiali sono piuttosto costo-
si: il costo delta materia prima neces-
saria a ottenere quantità da laboratorio
di metallo puro per la costruzione di
magneti permanenti a cobalto-samario
è attualmente di circa 80 dollari al chi-
logrammo. Nonostante ciò, vi sono ap-
plicazioni in cui il costo elevato è più
che giustificato dalla qualità delle pre-
stazioni dei nuovi magneti.
In realtà le terre rare non sono poi
cosi rare; ciò che più incide sul coslo
di preparazione è il processo di sepa-
razione dei vari metalli. Uno dei tenta-
tivi di ridurre il costo dei magneti a
terre rare implica l'uso di una miscela
di terre rare, detta « mischmetall », in
luogo di elementi puri in combinazio-
ne con cobalto. Il mischmetall, che è
appunto un miscuglio dì terre rare ot-
tenuto per riduzione dal minerale, è
stato impiegato per molto tempo come
disossidante nella fabbricazione dell'ac-
ciaio e, più comunemente, nelle pietri-
ne degli accendisigari. Sotto forma di
miscuglio il costo delle terre rare è di
pochi dollari al chilogrammo, A tut-
t'oggi, però, i tentativi di costruire dei
buoni magneti con il mischmetall non
hanno avuto buon esito.
Un'altra linea di ricerca, che può
indirettamente portare a una riduzione
dei costi, è stata quella di ottenere la
microstruttura richiesta per via metal-
lurgica anziché per via meccanica. È
possibile, infatti, trattare una lega in
modo da ottenere particelle della for-
ma e delle dimensioni volute semplice-
mente facendole precipitare allo stato
solido. In sostanza, questo è proprio
il modo in cui si sono ottenute le le-
ghe Alnico e altre leghe. I ricercatori
dei Bell Telephone Laboratories negli
USA e della Matsushita in Giappone
hanno tentato di applicare questa tec-
nica ai magneti a cobalto-terre rare.
Essi hanno scoperto che è possibile ot-
tenere una struttura soddisfacente ag-
giungendo del rame a queste sostanze
e usando un accurato procedimento ter-
mico ma non sono riusciti a produrre
magneti con un massimo prodotto di
energia molto superiore a dieci milioni
di gauss-oersted (la metà del valore
raggiungibile con cobalto-samario) a
65
causa della presenza di una certa quan-
tità di rame non magnetico. D'altra
parte il trattamento termico ha ugual-
mente fornito dei buoni risultati allor-
ché il samario è stato sostituito dal
cerio che è decisamente più economico.
Appare chiaro che gli sviluppi futu-
ri seguiranno due linee. La prima è
quella dì proseguire nella ricerca di
materiali con prodotti di energia e for-
ze coercitive sempre più elevati da uti-
lizzare in quelle applicazioni in cui il
problema del costo passa in secondo
piano ed è invece di primaria impor-
tanza che i magneti forniscano le mas-
sime prestazioni col minimo di ingom-
bro e di peso. Sotto questo aspetto si
spera di trovare dei materiali che ab-
biano un valore dì saturazione magne-
tica ancora maggiore di quello del co-
balto-samario e, infatti, la relazione ori-
ginale sui materiali a cobalto-terre ra-
re afferma che, da questo punto di vi-
sta, il cohalto-praseodimio è superiore
al cobalto-samario. L'altra lìnea di ri-
cerca è orientata verso l'elaborazione
di materiali le cui prestazioni si avvici-
nino a quelle del cobalto-samario, pur-
ché a un costo notevolmente più basso.
Non è ancora stata elaborata una
soddisfacente teoria che stabilisca un
rapporto preciso tra il processo di ma-
gnetizzazione dei materiali a base di
terre rare e la loro composizione. In-
La levigatura delle particelle aumenta In forza coercitiva delle nuove sostanze a co-
balto-samario. Le particelle irregolari della figura superiore hanno una forza coer-
citiva di 103 oersted mentre quelle della figura inferiore, levigate con un procedi mento
chimico, posseggono una forza coercitiva di 3340 oersted. In questa fotografia, eseguita
nel laboratorio dell'autore, le particelle del materiale sono ingrandite a 6(10 diametri.
fatti non sappiamo perché il cobalto-
-samario permetta di costruire magneti
permanenti di proprietà cosi superiori
a quelle che si ottengono, per esem-
pio, per mezzo del cobalto-praseodi-
mio o del cobalto-cerio dal momento
che, sotto il profilo delle proprietà chi-
miche, metallurgiche e magnetiche fon-
damentali, essi sono cosi simili.
La formazione di un contorno di un
dominio magnetico in presenza di un
campo magnetico negativo sembra co-
stituire il fatto cruciale che determina
il valore della forza coercitiva (si veda
la figura a pagina 64). Gli sviluppi di
questa ipotesi hanno contribuito ad ap-
profondire la nostra conoscenza, sia
teorica che sperimentale, di questi nuo-
vi e particolari materiali. Nel nostro
laboratorio, per esempio, abbiamo visto
che, levigando la superficie delle par-
ticelle di cobalto-ittrio, è possibile au-
mentare di oltre trenta volte la loro for-
za coercitiva intrinseca (si veda la figu-
ra in questa pagina). Probabilmente
questa levigatura elimina le irregolarità
superficiali che faciliterebbero la for-
mazione di domini di direzione opposta.
Pome ho già accennalo, i grandi mo-
tori elettrici a magneti permanenti
costituiscono una delle applicazioni più
significative dei materiali ad alta forza
coercitiva intrinseca. Quali altre appli-
cazioni possiamo prevedere per il futu-
ro? La resistenza alla smagnetizzazione
è di estrema importanza, per esempio,
negli amplificatori a microonde del ti-
po a onde progressive, largamente usa-
ti nelle telecomunicazioni e praticamen-
te in tutti i campi delle comunicazioni
via satellite. In amplificatori di questo
tipo un fascio di elettroni viaggia attra-
verso un cilindro cavo costituito da al-
cune dozzine di magneti permanenti di
forma toroidale. I magneti, in questo
caso, hanno la funzione di focalizzare
gli elettroni in un fascio molto sottile;
essi vengono allineati in modo che i
poli dello stesso segno risultino adia-
centi (il polo nord vicino al nord del
successivo e il polo sud vicino al sud
del successivo): di conseguenza, ogni
magnete tende a smagnetizzare i suoi
vicini. Questa applicazione richiede del-
le caratteristiche talmente rigorose, che.
per ottenere il prodotto dì energia ne-
cessario e, ne! contempo, alte forze
coercitive, è stato spesso indispensabi-
le ricorrere a leghe dì cobalto-platino
che costano migliaia di dollari al chi-
logrammo. In confronto, i magneti a
cobalto-samario, non solo sono più eco-
nomici, ma hanno anche un massimo
prodotto di energia doppio e sono cin-
que volte più resistenti alla smagne-
tizzazione.
Il fatto che polì dello stesso segno
66
si respingano è il principio su cui si
basano molti apparati di sospensione
praticamente privi di attrito. In molti
contatori elettrici, per esempio, l'albe-
ro rotante viene tenuto sospeso per
mezzo di un supporto magnetico per-
ché ogni attrito nel contatore farebbe
girare quest'ultimo troppo lentamente.
I mutamenti nella forma degli apparec-
chi misuratori a bobina mobile, larga-
mente usati per misure di corrente e
di tensione, riflettono il fatto che, nel
corso di questi ultimi decenni, è au-
mentato il valore del massimo prodot-
to di energia (si veda /' illustrazione a
pagina 65).
La proprietà dei magneti permanen-
ti di poter sostenere grossi pesi senza
alcun contatto fisico potrà un giorno
essere utilizzata nei sistemi di sospen-
sione dei convogli ferroviari ad alta ve-
locità. Per quanto ciò possa sembrare
fantastico, il fatto che i magneti per-
manenti posseggano la proprietà di non
consumare energia, potrebbe permette-
re di ottenere sistemi a « sicurezza in-
trinseca » (fail-safe). Volendo solleva-
re un veicolo del peso di 10 tonnellate
usando dei magneti a ferrite (che sono
più leggeri e molto più potenti dei ma-
gneti Alnico) bisognerebbe disporre di
due unità magnetiche, una posta sotto
il veicolo e l'altra montata ai suo in-
terno, per un peso complessivo dì cir-
ca 8000 chilogrammi. Usando un ma-
gnete a cobalto-samario il peso com-
plessivo necessario per sollevare lo stes-
so veicolo sarebbe soltanto di 2000 chi-
logrammi. Naturalmente il calcolo è
stato eseguito tenendo conto del fatto
che l'unità magnetica posta sul veicolo
deve essere sollevata insieme a questo;
pertanto il magnete a ferrite dovrebbe
sollevare un peso complessivo di 11
tonnellate mentre il cobalto-samario
dovrebbe sollevare un peso di sole
10,25 tonnellate.
Questi calcoli non pretendono di for-
nire che una valutazione approssima-
tiva. Sono oggi allo studio molti altri
sistemi di sospensione per veicoli velo-
ci. Questo sistema, tuttavia, rispetto a
quello dei cuscinetti d'aria o ai sistemi
elettrodinamici, ha il pregio dì essere
molto semplice. La sua realizzabilità
dipenderebbe dalla possibilità di pro-
durre alcune miglia di rotaie a magne-
ti permanenti con costi di produzione
non troppo superiori a quelli delle ro-
taie dì acciaio. Ciò è quanto meno pen-
sabile per i magneti a ferrite mentre è
a mala pena concepibile per i magneti
a cobalto-terre rare o per alcuni dei
loro derivati. In ogni caso, le implica-
zioni derivanti da una richiesta di ro-
taie magnetiche repulsive provocano
non poche perplessità all'industria di
magneti permanenti.
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67
Analisi automatica
delle cellule del sangue
Per evitare il laborioso esame microscopico dei globuli bianchi è
stato messo a punto un sistema sperimentale basato su un calcolatore che
identifica e conta i vari tipi di globuli e li descrive quantitativamente
di Marylou Ingrani e Rendali Preston jr.
Ogni giorno negli ospedali degli
Stati Uniti vengono praticati più
di un milione di esami di strisci
di sangue. L'esame microscopico di rou-
tine del sangue, che attualmente è una
indagine diffusissima nella pratica me-
dica, è generalmente ritenuto uno dei
segni più utili delle condizioni dì salu-
te di un soggetto. Il suo valore sta nel
fatto che la produzione da parte del-
l'organismo dei vari tipi di cellule del
sangue risente notevolmente di stress
generali, lesioni, malattie (infettive e
non), avvelenamenti, radiazioni ioniz-
zanti e altri stimoli nocivi. Aumentando
la velocità della eliminazione o della
produzione di specifici globuli bianchi,
questi stimoli eccitano i tessuti emo-
poietici a modificare corrispondente-
mente il loro ritmo di produzione : il
numero di un particolare tipo di leuco-
citi diventa allora significativo. Inoltre,
come può accadere in ogni catena dì
produzione, la variazione nella veloci-
tà di produzione delle cellule fa aumen-
tare la probabilità che alcuni prodotti
possano essere anormali. La forma dei
leucociti tende a rispecchiare, spesso
molto sensibilmente, le condizioni in cui
sono stati prodotti. Perciò la conoscen-
za della morfologia può essere impor-
tante quanto la conta numerica dei vari
tipi di cellule.
L'esame a vista delle cellule del san-
gue, nella pratica attuale, viene esegui-
to mediante un laborioso lavoro del-
l'uomo: medici o tecnici di laboratorio
preparano ogni campione sotto forma
di una sottile pellicola di sangue, lo co-
lorano e lo esaminano al microscopio.
Il metodo è dispendioso (il costo gior-
naliero degli esami praticati in tutti gli
ospedali degli USA ammonta a parec-
chi milioni di dollari, oltre a centinaia
di migliaia di ore lavorative) e spesso
inesatto. In un recente studio condotto
dal Center for Disease Control è stato
trovato che, anche nella classificazione
di routine di cellule sanguigne in cam-
pioni normali, il risultato era non sod-
disfacente nel 40 % dei laboratori stu-
diati. I risultati erano ancora meno
buoni quando i campioni di sangue pre-
sentavano alcune condizioni abnormi
che sono presenti comunemente. Con
l'aumento del lavoro nei laboratori più
frequentati, e il conseguente incarico
di esecuzione degli esami a personale
tecnico relativamente inesperto, è da at-
tendersi che la percentuale di errore
salga.
Inoltre, la richiesta di affidabilità e
di accuratezza negli esami sta continua-
mente crescendo con l'aumento delle
conoscenze sul significato di specifiche
caratteristiche delle cellule del sangue.
la crescente difficoltà e il notevole co-
sto dell'esame del sangue fanno pen-
sare che sarebbe altamente auspicabile
poter meccanizzare questa funzione.
Un sistema efficace di analisi automa-
tica potrebbe standardizzare il procedi-
mento, migliorarne l'attendibilità, ridur-
re i costi e costituire un sistema abba-
stanza flessibile per tener conto di even-
tuali nuovi metodi, a mano a mano che
si acquistano nuove conoscenze sulle
cellule sanguigne. Ovviamente si tratta
di un'impresa difficilissima. Non è facile
costruire una macchina che possa com-
petere in sensibilità e rapidità con quel-
l'ammirevole sistema dì riconoscimento
delle immagini costituito dall'occhio e
dal cervello dell'uomo. Però, dopo pa-
recchi anni di studi e di esperimenti,
abbiamo messo a punto un sistema per
la registrazione e l'analisi di immagini
di cellule sanguigne, sistema che è im-
perniato su un calcolatore e che ora Sì
avvicina alle capacità di un tecnico di
laboratorio.
La prima esigenza di un tale sistema
era ovviamente quella di identificare le
varie cellule sanguigne prodotte da tes-
suti emopoietici, quali il midollo osseo,
la milza e i linfonodi. I semplici eritro-
citi (globuli rossi), che sintetizzano l'e-
moglobina e trasportano ossigeno e ani-
dride carbonica, sono caratterizzati, tra
l'altro, dall'assenza del nucleo. I leu-
cociti (globuli bianchi) si suddividono
in parecchie diverse classi. Vi sono Ì
granulociti, che distruggono o inattiva-
no i microbi o altro materiale estraneo
mediante la fagocitosi a tale fine por-
tano nel loro citoplasma miriadi di gra-
nuli contenenti enzimi e altre molecole
biologicamente attive. A loro volta i
granulociti si suddividono in tre sotto-
classi, secondo le caratteristiche tinto-
ri a ti: eos inorili (facilmente colorabili
con l'eosina, sostanza rossa acida), ba-
sofili (colorabili con blu di metilene,
colorante basico) e neutrofilì (colorabili
con entrambi i coloranti suddetti). Una
seconda classe di leucociti fagocitanti
è formata dai monociti, che hanno un
nucleo irregolarmente ovale o a ferro
di cavallo e granuli citoplasmatici dif-
ferenti per dimensioni e contenuto da
quelli presentì nei granulociti. Un'al-
tra classe di globuli bianchi è costitui-
ta dai linfociti, cellule con citoplasma
relativamente scarso e con un nucleo
rotondo, i- quali producono gli anticor-
pi e altri agenti che intervengono nelle
risposte immunitarie dell'organismo. In-
fine, per completare l'elenco dei com-
ponenti cellulari del sangue, vi sono le
piastrine, frammenti di citoplasma li-
berati da grosse cellule del midollo os-
seo, che agiscono come fattori della
coagulazione del sangue.
Un sistema automalico per l'analisi
delle cellule sanguigne non solo deve
riconoscere e contare il numero relati-
vo di questi vari globuli bianchi, ma
deve dare anche informazioni quantita-
tive sulla composizione della struttura
cellulare, quali il grado di lobulazione
del nucleo, la presenza di vari pìccoli
corpi cellulari e di variazioni nelle di-
mensioni e nella forma della cellula e
dei suoi componenti.
Si può supporre che un compito di
tale complessità dovrebbe richiedere un
Emi rome appaiono i globuli bianchi del sa tigne quando sono
presentali sotto forma di « cartoni composti» che vengono for-
mati da un calcolatore utilizzando le immagini microscopiche
delle cellule. I cartoni presentano un nucleo denso (luminoso
e strutlurato> circondato da citoplasma e da parti di eritrociti.
I leucociti che si vedono sono un neutroni» non segmentato (in
•ititi a sinistra), un neulrofìlo segmentalo <in allo a destra), un
basofito (in mezzo a sinistra), un eosìnouto (in mezzo a destra),
un monodia (in basso a sinistra) e un linfocita tilt busso a de-
stra'*. I carloni roslituisrono l'entrata per l'analisi del calcolatore.
68
69
programma elaborato da un calcolatore
di grandi dimensioni. Però l'elevato co-
sto di un simile sistema lo fa escludere
dall'impiego pratico. Abbiamo quindi
deciso di affrontare il problema in mo-
do più semplice, adoperando un siste-
ma basato su un calcolatore speciale
impiegato direttamente nel compito ba-
silare di studiare e analizzare le imma-
gini. Uno dei vantaggi di questa solu-
zione è che tale sistema può operare a
velocità che sono una-due volte mag-
giori di quelle di un calcolatore gene-
rico.
TI nostro primo progetto è stato un si-
stema noto come Cellscan (nome
registrato della Perkin-Elmer Corpora-
tion). Per questo sistema avevamo mes-
so a punto un microscopio ad alta ri-
soluzione adoperando un vidicon, un
normale tubo per riprese televisive. La
parte anteriore del vidicon, dotata di
una superficie fotosensibile, viene posta
sul piano dell'immagine del microsco-
pio, nel punto normalmente occupato
dalla pellicola fotografica per la micro-
fotografia. Il fascio elettronico che
esplora questa superficie fotosensibile
reagisce al livello di luce di ogni punto
dell'immagine. Il campo di una imma-
gine microscopica è un quadrato di 20
per 20 micron e il vidicon lo esplora
punto per punto in 200 lìnee, conver-
tendo l'immagine in un segnale elettro-
nico video. Nel sistema Cellscan que-
a
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I tipi di cellule si distinguono per dimensioni, forma struuura e colore. Il colore è il
meno importante: un tecnico di modesta esperienza identificherebbe immediatamente
i sei tipi dì leucociti sulla base di queste immagini schematiche in bianco e nero. I
leucociti, presentati qui tra eritrociti e piccole piastrine, sono neutrofili non segmentati
(a), neutroni! segmentali (6), hasofili (ci, eosinofili <rfl, monocili (el e linfociti (/>.
sto segnale è formato da 40 000 punti
immagine.
Il problema più critico nella mecca-
nizzazione dell'esame del piano dell'im-
magine è la trasposizione dell'immagine
stessa in un linguaggio comprensibile
al calcolatore. Poiché la velocità nello
studio dell'immagine è essenziale, ab-
biamo ridotto il numero dei punti del-
l'immagine stessa mediante un procedi-
mento di campionamento. Per la regi-
strazione nel calcolatore il segnale vi-
deo viene convertito elettronicamente
in immagine in termini di numeri bi-
nari, il numero rappresentando il
bianco e l'I il nero: quest'operazione
l'abbiamo chiamata < quantizzazione >
o « cartonizzazione » (n veda la figura
nella pagina a fronte). Un'altra opera-
zione, detta « compressione * , riduce di
un fattore nove il numero dei punti
campione effettivamente registrati dal
calcolatore; se uno dei nove punti cam-
pione quantizzati in un quadrato di tre
punti per tre è un binario 0, l'intero
quadrato viene immagazzinalo come
(bianco), e se tutti i nove punti sono
binari I, il valore dell'area visne regi'
strato come 1 (nero). Questo espedien-
te di campionamento fa si che le aree
« nere » isolate vengano ignorate e ven-
gano invece immagazzinate dal calcola-
tore i dettagli « bianchi » più luminosi
dell'immagine binaria.
L'attendibilità del sistema deve dipen-
dere in primo luogo dall'accuratezza e
dalla consistenza dell'esplorazione foto-
metrica mediante il microscopio a tele-
visione. Per la valutazione quantitativa
di queste prestazioni adoperiamo due
tecniche: una si basa sul giudizio della
sua efficienza nel mostrare dettagli di
vario grado di finezza (cioè varie den-
sità spaziali dei punti immagine). Le
prove hanno svelato che i segnali vi-
deo riproducevano immagini di ogget-
ti di un solo micron di diametro con
un contrasto sostanzialmente pieno, ma
che il contrasto non era altrettanto buo-
no per oggetti del diametro di mezzo
micron o ancora meno. (Il limite della
risoluzione ottica del sistema è circa
un quinto di micron).
L'altra misura che adoperiamo per
la valutazione delle prestazioni è una
tecnica di visualizzazione detta * con-
t omografìa » . Nel normale tubo per te-
levisione il cannone elettronico applica
il segnale video sotto forma di variazio-
ni di intensità del fascio elettronico,
producendo un quadro di emissione dif-
ferenziale di luce dai punti del fosforo
sulla superficie del tubo. Per la produ-
zione di una contornografia, d'altra
parte, il fascio di elettroni viene man-
tenuto costante e l'immagine, invece di
essere formata mediante modulazioni
del fascio, viene prodotta combinando
Lo schermo televisivo mostra una immagine non trattata di un
ne litro filo e alcuni eritrociti illuminati con luce gialla (a sini-
stra). Le regioni scure sono ti nucleo del leucocita, le più chia-
re il suo citoplasma ed eritrociti. Quando si usa luce verde (a
destra) un aumento nell'assorbimento rivela il carattere granu-
loso del citoplasma e rende notevolmente più scuri gli eritrociti.
Istogrammi spettrofotometrici formati dal calcolatore mostrano
la distri bu/,ione di frequenza dei valori di densità ottica nelle
immagini televisive in alto in questa pagina. 'Negli istogrammi
la densità diminuisce verso destra*. 1 pierbi dell'istogramma in
luce gialla {a sinistra) rappresentano, da sinistra a destra, la den-
sità dello sfondo, gli eritrociti e il nucleo. Il cambiamento più
notevole in luce verde (o destra* è nn aumento di densità degli
eritrociti, indicato dallo (portamento a destra del picco centrale.
~4 i!acifl
Bfr" ^"^
È^m
L'immagine quantizzata, o cartone, viene realizzata dal calco-
latore. Questo sceglie tre livelli di densità ottica {A, B e C
nella figura al centro di questa pagina), corrispondenti rispetti-
vamente all'assorbimento medio dei globuli rossi, all'assorbi-
mento nucleare minimo e a quello medio. Utilizzando questi
livelli di quantizzazione per la trasformazione dei grigi dell'im-
magine televisiva in nero (binario 1) o in bianco (binario 0),
il calcolatore realizza i tre cartoni corrispondenti, che sono
illustrati in qnesta figura. Alla fine il calcolatore li sovrappone
formando il cartone composto (si veda la figura a pag. 69).
70
71
segnali video e di scansione mediante
l'impiego delle piastre di deflessione
(sì veda la figura nella pagina a fronte
in basso). Quando abbiamo applicato
questa tecnica per provare le prestazio-
ni del microscopio Cellscan, per esem-
pio nella riproduzione di un'immagine
a lama di coltello posta di traverso nel
punto centrale del campo, abbiamo tro-
vato che l'immagine risultante era no-
tevolmente offuscata da * rumori » pro-
venienti da non uniformità nel fotocon-
duttore del vidicon (si veda la figura a
pag. 74 in alto). Anche con un vidicon
di fabbricazione recente, che come su-
perficie fotosensibile dispone di una se-
rie di diodi al silicio, l'errore fotome-
trico è del 5 per cento.
Abbiamo allora progettato di nuovo
il sistema, sostituendo il vidicon con
un dispositivo di scansione a specchio
e adoperando un metodo di analisi del-
l'immagine sviluppato da Marcel J.E.
Golay. Questo nuovo sistema di anali-
si delle cellule sanguigne è denominato
Cellscan-Glopr (Glopr è un acrostico
di Golay logie processor). Una coppia
di specchi oscillanti ad angolo retto tra
loro esplora l'immagine formata da!
microscopio e trasmette i dati dell'e-
splorazione a un fototubo (si veda la
figura in alto nella pagina a fronte).
In ogni singolo istante il fototubo con-
sidera un unico punto dell'immagine,
dato che la luce lo raggiunge attraver-
so un pìccolo foro. La luce proveniente
SCHERMO
TELEVISIVO
dal punto immagine riempie l'intera su-
perficie del tubo e la sua superficie fo-
toemittente emette un fascio di elettro-
ni che è proporzionale all'intensità della
luce incidente. II fascio viene raccolto
e amplificato mediante una serie di elet-
trodi e l'amplificazione viene ottenuta
moltiplicando gli elettroni, anche milio-
ni di volte. Questa amplificazione è es-
senzialmente priva di rumore, e poiché
il fascio elettronico, o segnale video,
emesso dalla superficie fotoemittente
deriva dall'intera area, eventuali non
uniformità tra punto e punto della su-
perficie non hanno alcuna conseguenza.
In effetti, le contornografie di una lama
eseguite con il microscopio Cellscan-
Glopr sono molto più accurate e co-
schermo DEL
CALCOLATORE
ANALIZZATORI
OSCILLANTI A SPECCHIO
FOTOMOLTIPLICATORE
CALCOLATORE
DI RICERCA E
INQUA-
DRATURA
LUCE
STOP
MECCANISMO
01
SPOSTAMENTO
VIA
MECCANISMO
DI MESSA
A FUOCO
<-
CALCOLATORE
PRINCIPALE
DI CONTROLLO
CALCOLATORE
LOGICO GOLAY
V
CONTROLLO
TELESCRIVENTE
E STAMPA
IMMAGAZZINAMENTO
SU NASTRO
L'analisi automatica delle cellule del sangue viene effettuata dal
sistema Cellscan-Glopr come indicato in questo diagramma
schematico. Il vetrino con lo striscio di sangue viene mosso
sotto le lenti dell'obiettivo da meccanismi automatici di spo-
stamento e dì messa a fuoco, che sono bloccati dal calcolatore
di ricerca e inquadratura quando un leucocita viene a trovar-
si nel campo dell'osservazione. La cellula viene analizzata e
l'immagine, convertita da un fotomoltiplicatore in un segnale
t
OPERATORE
elettronico, può essere osservata su uno schermo televisivo o
elaborata ; viene allora quantizzata e e compressa ■ dal cai,
colatore di controllo per essere in seguito analizzata dal calco-
latore logico Colay. L'immagine ricreata dal calcolatore può
essere vista su uno schermo, immagazzinala nella memoria a
nastro, identificata in base al tipo di cellula che rappresenta e
conteggiata. L'intera operazione può essere diretta con una nor-
male tastiera di telescrivente oppure effettuata automaticamente.
stanti di quelle ottenute con il vidicon
(sì veda la figura in basso a pagina 74).
J I sistema di scansione a specchio, da-
to che dipende da specchi in movi-
mento, è un po' più lento del vidicon
elettronico. Però crediamo che il siste-
ma possa essere progettato in modo da
far oscillare gli specchi a una velocità
tale da fornire al calcolatore analizza-
tore dì immagini le informazioni con la
stessa rapidità con la quale il calcola-
tore può accettarle.
La traduzione da parte del calcolato-
re dell'immagine punto per punto delle
cellule del sangue in « cartoni » proce-
de quasi come nel sistema Cellscan. Il
calcolatore forma anzitutto un isto-
gramma fotometrico dell'intera imma-
gine, mostrando la distribuzione di fre-
quenza dei vari valori fotometrici per
tutti i punti dell'immagine. L'istogram-
ma è basato sulla illuminazione dell'og-
getto per mezzo di una luce di colore
selezionato. Come caratteristica princi-
pale, l'istogramma di un globulo bian-
co presenterà pìcchi più elevati in cor-
rispondenza dell'assorbimento della lu-
ce da parte dei nuclei cellulari, del ci-
toplasma, dei globuli rossi circostanti
e dello sfondo. In luce gialla, per esem-
pio, il nucleo di un leucocita ncutrofilo
apparirà nero, mentre il suo citopla-
sma, ogni globulo rosso e il fondo re-
steranno chiari. In luce verde la strut-
tura granulare del citoplasma di un
neutrofilo si staglia nettamente perché
i granuli assorbono la luce dì tale lun-
ghezza d'onda e anche i globuli rossi
appaiono scurì per lo stesso motivo.
Formato un istogramma, il calcolato-
re lo esamina e istantaneamente selezio-
na i livelli di quantizzazione per il se-
gnale video che dovrà essere adopera-
to per riprodurre l'immagine delle cel-
lule e per identificarle. Esaminando
una cellula tipica illuminata a luce gial-
la, il calcolatore sceglie livelli che rap-
presentano l'assorbimento medio da
parte de! nucleo dei leucociti, quello dei
globuli rossi e un livello di assorbi-
mento intermedio tra questi due valori.
Sovrappone poi questi tre cartoni, o
misure di densità, per formare cartoni
composti che descrivono specifici leu-
cociti (si veda la figura a pag. 69).
T I calcolatore passa ora a trattare l'in-
formazione immagazzinata nei car-
toni composti per definire e analizzare
l'immagine di ogni globulo bianco vi-
sto al microscopio a televisione. Per
questa analisi il sistema Cellscan-Glopr
adopera « trasformazioni di configura-
zione » esagonali inventate da Golay.
Il sistema esamina successivamente ogni
punto immagine in termini di stati bi-
nari dei sei punti che lo circondano in
AL CALCOLATORE
A A
DEFLESSIONE
VERTICALE
DEFLESSIONE
ORIZZONTALE
Q
D
ANALIZZATORE
MOTORE
VERTICALE
TUBO
FOTOMOLTIPLICATORE
SISTEMA DI LENTI
PIANO DELL'IMMAGINE
L'analizzatore a specchio oscillante esplora il piano dell'obiettivo del microscopio in
senso orizzontale e verticale. La luce proveniente da un solo punto immagine per
Volta passa attraverso un'apertura sulla faccia di un tubo fotomoltiplicatore, dando
una misura punto per punto della densità ottica. Il segnale elettronico che ne risulta
viene amplificalo per costruire un segnale video, che va a] calcolatore o, come è mo-
strato nella figura, a uno schermo televisivo dove viene ricostruita l'immagine originale.
SEGNALE
DI DEFLESSIONE
VERTICALE
SEGNALE
DI DEFLESSIONE
ORIZZONTALE
SORGENTE DI ELETTRONI
4
1
IMMAGINE
BERSAGLIO
D
"T_n_n_rLrL.
SEGNALE VIDEO
VERTICALE ORIZZONTALE
PIO VIDEO MENO VERTICALE
~L_n_n_rLn_
SEGNALE VIDEO
D
M
Il lavoro del sistema viene controllalo mediante conlornografia. Su un comune schermo
televisivo fin alto) il segnale video tonde di forma quadrata) esplora regolarmente
lo schermo. La modulazione del fascio di elettroni forma un insieme di luci e di om-
bre che riproduce l'immagine originale, in questo caso una lama di coltello posta ver-
ticalmente. Nella contornografia (in basso) le modulazioni luce-ombra vengono trasfor-
mate in deflessioni verticali, il che si ha sottraendo il segnale video da quello verticale.
Le singole linee sono ottenute sottraendo il segnale verticale da quello orizzontale.
72
73
Co atomo grafi a di un'immagine a lama di coltello effettuata con il tubo vidicon, il
tipo di analizzatore usato dagli autori nel sistema Cellscan originario. L'ondulazione
delle linee e la loro variazione da una riga alla successiva rappresentando il «rumo-
re » elettronico derivante dalla non -uniformità della superficie fotosensibile del vidicon.
11 miglioramento nella precisione, ottenuto con l'analizzatore oscillante a specchio, è
evidente in questa contorno grafia. La non uniformità della superficie fotosensibile non
è più un problema, come è evidente dalla regolarità delle linee orizzontali, anche se
l'arrivo casuale di fotoni produce ancora dei disturbi particolarmente visibili nella
regione illuminata. La risoluzione è migliorata, come si vede dal netto piano verticale.
disposizione esagonale, considerando le
14 configurazioni dei primi vicini (si
veda la figura a fronte in allo). Suc-
cessivamente il sistema ricakola lo sta-
to binario di ogni punto immagine sul-
la base dei suoi dintorni e della parti-
colare trasformazione eseguita. Queste
trasformazioni possono essere dirette a
vari scopi specifici, come la misura del-
l'area totale del nucleo cellulare, il cal-
colo della lunghezza del suo perimetro,
l'analisi e la misura della struttura fine,
la scoperta di concavità che indicano
lobi o irregolarità e il rilievo di molte
altre caratteristiche topologiche. In tal
modo il calcolatore perviene alla misu-
ra delle dimensioni della cellula, della
sua forma, della sua struttura e di al-
tre caratteristiche.
Tutto ciò viene compiuto molto ra-
pidamente, quantunque la logica del
calcolatore operi su un solo punto im-
magine alla volta. Il particolare cal-
colatore adottato esamina le immagini
a velocità cento volte più elevata di
quella che può essere ottenuta con l'ap-
plicazione, a questo metodo di analisi
delle immagini, dei normali calcolatori.
II nostro attuale sistema Cellscan-Glopr
può analizzare un'immagine di 32x32
punti in 1,25 millisecondi, una immagi-
ne di 64x64 punti in 5 millisecondi e
una di 128X128 punti in 20 millise-
condi : il sistema esegue trasformazioni
Golay anche molto complesse nel giro
di pochi secondi.
Ottenuto un insieme di misure che
descrivono l'aspetto di una cellula, la
macchina viene a trovarsi finalmente di
fronte al compito più difficile: l'identi-
ficazione della cellula secondo il tipo.
Abbiamo provato vari metodi per da-
re al calcolatore la capacità di prende-
re questa decisione e i migliori risultati
li abbiamo ottenuti escogitando model-
li che rappresentano gli insiemi di mi-
sure corrispondenti a specìfiche classi
cellulari mediante localizzazione in uno
spazio multi dimensionai e (proprio co-
me si localizza un punto, in un grafico
a due dimensioni, misurandone la dì-
stanza lungo i due assi) e trovando poi
ì confini che separano tra loro le classi.
Quando si considerano differenti clas-
si di leucociti e quando le posizio-
ni delle singole cellule sono rappresenta-
te in uno spazio di misura a tre di-
mensioni (cioè sulla base di tre misu-
re di immagine per ogni cellula), gli in-
siemi di misure tendono da soli a con-
figurarsi in raggruppamenti corrispon-
denti alle differenti classi. Supponiamo
di esaminare un diagramma tridimen-
sionale di questo tipo che mostri tre
raggruppamenti. Se cerchiamo di trova-
re un piano che rappresenti un confi-
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1 2 3 4 5 6
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^ 8 9 10 11 12 13
Le trasformazioni di configurazione esplorano ogni ponto im- più vicini nel reticolo esagonale di punti immagine che costi-
magine in termini di stato binario (1 o 0, che stanno rispetti- tuisce il cartone. Vi sono 14 configurazioni possibili indipen-
vamente per nero o bianco) degli altri sei punti che si trovano denti dall'orientamento numerate da a 13 per l'elaborazione.
1
11 cartone composto, come quello di nn monocita fin alto a si-
nistra) costituisce l'ingresso nel calcolatore logico Golay, che
opera analizzando un determinato singolo cartone. Per esem-
pio, una semplice trasformazione che localizza i bordi corri-
spondenti ai margini identifica la periferia del nucleo (in alto
a destra) e calcola la circonferenza e l'area del nucleo stesso.
Un'altra trasformazione « restringe » gli elementi del cartone
alla regione nucleare densa per determinare la struttura del
nucleo (ire basso a sinistra). Un'altra localizza la larga concavi-
tà del nucleo e la ravviva per lo schermo (ire basso a destra).
74
75
Le cellule sono identificale dal modo in cui varie misure ca-
ratteristiche di ogni tipo di cellule tendono a raggrupparsi.
Quando sul cartone dì ogni cellula vengono fatte tre misure, una
cellula è individuala da un punto di uno spazio a tre dimen-
sioni. Quando le misure sono effettuale su molte cellule le
misure stesse tendono a raggrupparsi. La figura fa sinistra'
mostra tre di questi raggruppamenti: il problema è di stabilire
dei piani che ti separino. Due piani sono necessari per poter
separare misure corrispondenti a una particolare cellula dalle
misure corrispondenti alle altre due classi di cellule in destra!.
ne tra le misure di una classe e quelle
delle altre due, scopriamo che in gene-
re nessun piano può realizzare questa
separazione. Però, se prendiamo i rag-
gruppamenti a due alla volta e disegna-
rne dei piani che separino i membri di
ogni coppia tra di loro, lo spazio di
misura può essere diviso in comparti-
150
menti, ognuno dei quali contiene solo
gli appartenenti a un'unica classe (si ve-
da la figura qui sopra).
Quando ogni globulo bianco viene
descritto con più di tre misure, ovvia-
mente non è più possibile rappresenta-
re il problema della separazione con un
semplice modello visivo. Siamo ricorsi
a un differente tipo di modello, un isto-
gramma dì distanza. Vengono stabiliti
dal calcolatore raggruppamenti di cel-
lule, sulla base di un certo numero di
misure, che in seguito costruisce anche
i piani di separazione e misura la di-
stanza dì ogni cellula da ogni piano.
In un esperimento abbiamo analizza-
to in questo modo le immagini di cam-
pioni rappresentativi dei tre più comu-
ni tipi di leucociti umani: linfociti, neu-
troni i e monociti. Con un programma
di calcolo basato sull'analisi statistica
classica abbiamo anzitutto costruito il
singolo piano che separerebbe in mo-
do ottimale i linfociti dalle altre due
classi. Questo tentativo di separazione
non ebbe successo: le misure si sovrap-
ponevano per cui nell'istogramma di di-
stanza sei neutrofili e nove monociti
andarono a finire nella parte del piano
riservata ai linfociti e un linfocita si
trovò dalla parte dei neutrofili e mono-
citi. La separazione migliorò notevol-
mente quando ì tipi di cellule furono
divisi a coppie, con un piano che sepa-
rava i linfociti dai monociti, un altro i
neutrofili dai linfociti e un terzo i neu-
trofili dai monociti. Su un totale di 313
cellule esaminate, solo due (un linfoci-
ta e un neutrofìlo) vennero a trovarsi
dalla parte sbagliata del piano (si veda
ia figura in basso in queste due pagine).
La separazione a coppie di tre classi
di cellule richiede la costruzione da
parte del calcolatore di tre piani di se-
parazione; quattro classi richiedono sei
piani; cinque classi 10 piani e cosi via.
11 sistema Cellscan-Glopr è attualmen-
te programmato per effettuare separa-
la -
50 -
50
100
1
LINF
OCiTI
MONOCITI
Per valutare la separazione dei raggruppamenti in uno spazio
a pili dimensioni (misure) possono essere adoperati, se neces-
sario, istogrammi di distanza. L'altezza di ogni sbarretta indi-
ca il numero di insiemi di misure, ognuna corrispondente a
una sola cellula, che viene a cadere in un dato intervallo di
distanza (asse orizzontale* da un piano di separazione. Il mi-
glior metodo è quello di usare un piano di separazione per
ogni coppia di classi di cellule, come nei primi tre istogrammi.
Questa separazione si riferisce a 1(17 linfociti (in colore), 179
neutrofili {in grigio) e 27 monociti (in nero). Solo due cellule
sono slate separate erroneamente, come
mostra il disegno al rentro. Quando si
impiega solamente un piano, l'errore di
separazione viene compiuto per sei neu.
trofili, nove monociti e un linfocita.
Disponibile il raccoglitore per
il volume V di LE SCIENZE
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american
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lativo importo; i raccoglitori verranno infatti inviati a domicilio solo
dietro pagamento anticipato.
LE SCIENZE S.p.A.
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76
77
La variabilità Ira cellule all'interno di una classe può essere quasi altrettanto gran-
de quanto le differenze tra classi, il che complica il problema di classificazione. Que-
sto montaggio realizzato dal calcolatore mostra cartoni di nuclei di linfociti e di neu-
troni li- I primi hanno forma quasi circolare, i secondi appaiono un poco più irregolari.
100
/
/
NEUTRONI —
ù
50
**-
/
l INFOCHI
#
k
20
;
>A
:
s
2
1
5 10 20
CONTEGGIO A VISTA (PERCENTUALE)
50
100
La precisione del processo automatico si sovrappone bene a quella dì tecnici di labo-
ratorio, come è dimostrato da questo diagramma che riporta i risultati di sette strisci
di sangue, ognuno rappresentato da un simbolo differente. La media dei conteggi ripor-
tata da ognuno dei parecchi tecnici di laboratorio è disposta lungo la scala orizzon-
tale, a un'altezza della scala verticale corrispondente a quella del conteggio automatico.
(I punti che vanno a cadere sulla diagonale indicano ovviamente concordanza esatta).
zioni a coppie per almeno otto tipi di
cellule, e questa selettività esige 28 pia-
ni. Se tutte le cellule di ogni classe se-
guissero fedelmente un modello stereo-
tipo, la separazione delle classi sarebbe
molto netta. In realtà però i leucociti
di una classe differiscono notevolmente
nella forma; questa variabilità è gran-
de quasi quanto le differenze tra clas-
si (si veda la figura qui accanto). Nel
mettere a punto programmi dì calcolo
per la separazione ottimale e per con-
trollarne le prestazioni, abbiamo po-
sto particolare attenzione al problema
della variabilità, applicando sempre il
nostro test a campioni che presentava-
no un'area realistica di variabilità.
p 1 inora ci siamo dedicati soprattutto al-
l'analisi di campioni di sangue pre-
levati da soggetti normali. 11 nostro at-
tuale sistema Cellscan-Glopr può ope-
rare automaticamente senza controllo
per lungo tempo, fino a un'intera notta-
ta. Di recente l'abbiamo provato in una
serie dì esami durati per parecchie not-
ti senza controlli. In ogni serie la mac-
china esaminava un singolo striscio di
sangue normale, passando in rassegna
da 200 000 a 400 000 cellule, allo sco-
po di localizzare e analizzare da 200
a 400 leucociti, col preciso inlento dì
classificare i linfociti, i granulociti e i
monociti. In numerosi esami il siste-
ma ha localizzato circa 5000 oggetti
che considerava leucociti: ogni oggetto
era misurato, analizzato nella struttura
e infine identificato dalla macchina co-
me linfocita, granulocita, monocìta o
DK. (Don't Know, imprecisato). Tutti
gli strisci furono esaminati a vista da
quattro esperti tecnici del Norwalk Ho-
spital del Connecticut. Il conteggio dif-
ferenziale de! numero relativo di globu-
li bianchi per ogni classe, fatto dalla
macchina, corrispondeva esattamente
agli esami eseguiti dai tecnici (si ve-
da la figura qui accanto). Oltre a clas-
sificare le cellule, in questi esami la
macchina ha misurato e tabulato pa-
recchi dettagli della struttura di ogni
cellula, quali dimensioni, colore me-
dio e lunghezza, grado di intensità e nu-
mero dei lobi del nucleo.
1 nostri esperimenti con il sistema
Cellscan-Glopr hanno dimostrato che
esso può essere programmato per svol-
gere numerosi compiti oltre a quelli del-
la conta differenziale dei leucociti. Col
tempo ne esploreremo le capacità in
varie funzioni, come il conteggio dei
grani nelle emulsioni di autoradiografie
di cellule, la localizzazione di parassiti
malarici negli eritrociti, l'analisi di cro-
mosomi umani, l'identificazione e il
conteggio di reticolociti e altri esami
noiosi da eseguire, ma importanti nella
pratica medica o nella ricerca.
78
Il significato
delle faune insulari quaternarie
// confronto tra le faune continentali e le faune insulari del Quaternario
dimostra che alcune isole sono state temporaneamente collegate ai
continenti; i collegamenti sono avvenuti in tempi diversi per ciascuna isola
di Augusto Azzardi
La leggenda dei Ciclopi, i giganti
dall'unico occhio in fronte che
abitavano le grotte della costa
orientale della Sicilia, è frutto di pura
fantasia, o non è piuttosto ispirata a
qualche fatto reale?
Grotte riempite di resti di mammi-
feri del periodo Quaternario sono co-
muni in tutta Italia e anche fuori del
nostro paese, ma quelle della Sicilia
hanno caratteri particolari. Alcune grot-
te sono estremamente ricche di fossili,
ma nessuna grotta del continente sem-
bra averne fornito nella quantità spro-
positata che si è trovala in alcune grot-
te della Sicilia. Il paleontologo francese
J, De Christol. in uno scritto che risale
al 1834, riferisce un episodio significa-
tivo. Le raffinerie di zucchero francesi
si trovarono in necessità di una forte
quantità di carbone animale; qualche
commerciante siciliano dotato di ini-
ziativa quanto di immaginazione pensò
di sfruttare le ossa fossili della grotta
di San Ciro presso Palermo, e in sei
mesi di scavo ne estrasse 44 q, che
spedi a Marsiglia. Per buona fortu-
na dei naturalisti le ossa, ormai fos-
silizzate, risultarono inservìbili per le
raffinerie e lo sfruttamento commer-
ciale cessò. L'episodio della grotta di
San Ciro può essere annoverato tra i
più gravi misfatti negli annali della
paleontologia, ma è quanto mai istrutti-
vo come documento dell'incredibile ric-
chezza di alcuni giacimenti.
Tra i fossili quaternari della Sicilia
figurano al primo posto, per numero,
gli elefanti e gli ippopotami, seguiti dai
cervi, meno abbondanti, e da pochi al-
tri mammiferi. Come composizione la
fauna siciliana è diversa da quelle del
continente, più ricche dì specie; ma an-
che ì suoi componenti (elefanti, ippo-
potami, cervi ecc.) risultano diversi
dalle specie che vivevano nella penì-
sola. Più precisamente, tutti i gran-
di mammiferi dell'isola hanno statu-
ra ridotta, sono divenuti, chi più chi
meno, nani. L'ippopotamo ha una sta-
tura di circa 1.20 m alla spalla e una
lunghezza totale di poco più di due
metri e mezzo. Negli elefanti il nani-
smo è andato molto più in là: nella
maggior parte dei casi la statura è un
po' al di sotto dei due metri e può
scendere fino al metro e mezzo, ma vi
sono anche elefanti piccolissimi, nei
quali il maschio adulto raggiungeva ap-
pena novanta centimetri alla spalla.
La presenza di questa fauna specia-
lizzata pone una serie di interrogativi in
cui problemi di zoologia si intrecciano
intimamente a problemi di geologia.
Quando sono vissuti questi animali na-
ni, come sono arrivati nell'isola e quan-
do vi si sono estinti? Quali sono stati i
loro rapporti con le faune del continen-
te? Infine: perché tutto questo?
Diciamo subito che la fauna a mam-
miferi nani è vissuta nel Pleistocene, il
periodo più antico del Quaternario. Un
tempo si riteneva che il Pleistocene
avesse una durata piuttosto breve: tra
600 000 e un milione di anni, ma oggi
si propende ad attribuirgli una durata
più lunga. Secondo alcuni avrebbe avu-
to inizio 1 800 000 anni fa, secondo al-
tri, tra cui anche chi scrive, circa
2 700 000 anni fa. La sua fine si collo-
ca a circa 9000 anni a.C: da allora ha
inizio il secondo periodo del Quaterna-
rio. l'Olocene.
Quando i colonizzatori Greci rag-
giunsero la Sicilia e iniziarono a civi-
lizzarla, i mammiferi nani erano già
scomparsi da molto, ma ne rimane-
vano i resti nelle grotte, spesso facil-
mente accessibili. I resti di elefanti do-
vettero attirare, più degli altri, l'atten-
zione, e da questi nacquero le leggen-
de dei Ciclopi, Le ossa degli arti pote-
vano facilmente essere prese per ossa
di * giganti »; nel cranio, l'ampio foro
delle narici in mezzo alla fronte fu
scambiato per un'orbita, tanto più che
le orbite vere, che negli elefanti sono
largamente aperte ai iati e comunicano
con la fossa temporale, passarono fa-
cilmente inosservate. Le leggende dei
giganti persistettero a lungo. Boccaccio
riferiva di avere visto due denti e al-
cune ossa di ■> gigante ■ in una chiesa
di Trapani: e ancora nel 1830 Btvona
Bernardi doveva impegnarsi in una se-
rie di articoli sui giornali dì Palermo
per demolire, sulla base dei recenti la-
vori di Giorgio Cuvìer, le vecchie idee
dure a morire.
Lasciando da parte le favole, cerche-
remo di inquadrare il problema su basi
più naturalistiche. Abbiamo iniziato a
parlare della Sicilia perché in quest'iso-
la i resti di faune nane sono particolar-
mente abbondanti e sono noti da lungo
tempo: ma il caso non è unico nel suo
genere. Faune fossili a mammiferi nani
sono state trovate in grotte, brecce ossi-
fere o in altri depositi in tutte le isole
maggiori del Mediterraneo: nelle Ba-
leari. in Corsica, in Sardegna, a Cre-
ta, a Cipro. Se ne sono trovate anche
in isole minori: nel Tirreno, a Capri e
Pianosa; tra la Sicilia e l'Africa, a Mal-
ta; nell'Egeo, a Delos, Naxos e Serifos,
ed è possibile che il numero dei ritro-
vamenti sia destinato ad accrescersi con
nuove scoperte. Fuori del Mediterraneo
faune a mammiferi nani sono slate tro-
vate a Giava, Celébes, Flores, Timor, e
nel Madagascar. La presenza dei mam-
miferi nani nelle isole non è una circo-
stanza fortuita, ma vi è un legame di
causa ed effetto tra insularità e nanismo.
Secondo punto: il fenomeno del na-
nismo, ha interessato soltanto i mammi-
feri di grandi o, in qualche caso, di me-
die dimensioni, ma non ha influenzato
quelli piccoli, i rettili e gli uccelli. Al
contrario, tra questi animali si sono ve-
rificati talvolta casi di gigantismo. In
Sicilia e a Malta è vissuto un ghiro che
raggiungeva dimensioni doppie dei ghi-
ri attuali; a Malta si sono trovati anche
resti di una tartaruga gigante. Nel Ma-
dagascar, accanto a ippopotami nani
sono vissuti, fino a epoca recentissima,
grandi lemuri terragnoli e uccelli gigan-
teschi, incapaci di volare.
Dobbiamo anche affrontare una que-
stione di capitale importanza. È noto
che i più antichi mammiferi erano ani-
mali di statura modesta o decisamente
piccola: tutti gli animali di grande sta-
tura hanno acquistato questo carattere
nel corso dell'evoluzione, con un au-
mento progressivo di dimensioni. In
generale una grande statura è un carat-
tere adattati vo, perché consente una
maggiore possibilità di difesa dagli ag-
gressori o una maggiore velocità nella
fuga. Negli animali predatori l'aumento
di statura rende possibile Sa caccia di
prede più grosse: ma per questi animali
la quantità di cibo è necessariamente
limitata in confronto a quella degli er-
bivori, e questo pone un limite alle loro
dimensioni corporee. Ma non per tutti
gli animali una grande statura sarebbe
vantaggiosa : per esempio i toporagni, le
talpe, i topi trovano nelle piccole di-
mensioni la loro migliore difesa, la pos-
sibilità di nascondersi negli anfratti del
terreno, di scavarsi ripari, di raccogliere
il nutrimento. In questi animali, nel cor-
so dell'evoluzione, non si è avuto au-
mento di statura, anche se si sono per-
fezionati i vari organi del corpo.
Ne! caso dei mammiferi nani insulari
dobbiamo chiarire questo interrogativo:
si tratta di animati discesi da antenati
di grandi dimensioni e che sono dive-
nuti nani nelle isole, o di relitti di ani-
mali primitivi, che per un qualsiasi mo-
tivo non hanno ancora portato a ter-
mine la loro evoluzione verso una gran-
de statura? La seconda alternativa ha
trovato talvolta dei sostenitori, ma non
regge alla critica. Nei continenti trovia-
mo qualche caso di specie rimaste pri-
mitive e di piccola statura. Un caso
molto noto è quello del piccolo ippo-
potamo della Liberia, Choeropsh ìibe-
riensis. Vari caratteri mostrano che
questo è davvero un animale rima-
sto indietro nell'evoluzione e che non è
mai divenuto grande: ma si tratta di un
ramo evolutivo che si è staccato molto
tempo fa dagli altri ippopotami africani.
Gli ippopotami nani della Sicilia non
hanno alcuna parentela con l'ippopota-
mo liberiano, ma sono strettamente im-
parentati con Hippoporamus amphìbìus*
il grande ippopotamo largamente diffu-
so in Africa, e che nel Pleistocene rag-
giunse anche l'Europa, spingendosi fino
all'Inghilterra meridionale. Per varie
ragioni di carattere geologico, non vi è
alcun dubbio che gli ippopotami sono
arrivati in Sicilia passando per l'Italia
peninsulare; e in Italia gli ippopotami
sono arrivati verso la fine del Pleistoce-
ne inferiore, con forme già evolute, di
grande statura, identici, salvo forse
qualche particolare di secondaria im-
portanza, alla specie africana attuale;
e nel nostro territorio sono persistiti fi-
no al Pleistocene superiore. È quindi
certo che gli ippopotami sono diventati
nani dopo essere penetrati nell'isola, e
dopo che questa si è staccata dalla Ca-
labria. Altrettanto è avvenuto per gli
elefanti, i cervi e gli altri mammiferi
nani.
In qualche caso la riduzione del-
la statura ha prodotto degli effetti cu-
riosi. Per esempio, è noto che i molari
degli elefanti sono formati da numerose
lamelle di dentina e di smalto, avvolte
e tenute assieme da cemento. Negli ele-
fanti più antichi e più primitivi queste
lamelle sono grosse e poco numerose,
nei più evoluti sono molto numerose e
strettamente serrate tra loro. Negli ele-
fanti nani col ridursi della statura è av-
venuto che anche i denti sì sono rim-
piccioliti: le lamelle dentali non si sono
rimpicciolite in proporzione ma si sono
ridotte di numero. Questo ha fatto pen-
sare a qualcuno che non si trattasse dì
elefanti divenuti nani, ma di specie pri-
mitive: ma si tratta di un'apparenza in-
gannevole. Nel cranio e negli arti i pic-
coli elefanti nani non mostrano alcuna
primitività; e d'altra parte i più antichi
elefanti, derivati da un ceppo di masto-
donti africani nel Pliocene, erano già
animali di grande statura.
Che le specie nane siano effettiva-
mente degenerate nella statura appare
con estrema chiarezza nei cervi. Questi
animali perdono i loro palchi ramificali
tutti gli anni, e li riformano in breve
tempo. Vi è per ciascuna specie una cer-
ta relazione tra lo sviluppo complessi-
vo dei palchi e la mole corporea: in
individui di grande statura i palchi so-
no più grandi e più ramificati che
negli individui di statura inferiore. Nei
cervi nani insulari ì palchi si sono
ridotti in maniera molto appariscente,
molto più, in proporzione, dì quanto si
sia ridotta la statura, e presentano
spesso anomalie e veri fenomeni di de-
generazione. E vi sono casi in cui gli
steli ossei del frontale sui quali si im-
piantano t palchi sono rimasti grossi,
come nei cervi del continente: e a que-
sti grossi steli fanno seguito dei piccoli
palchi dall'asta sproporzionatamente
esile. Tuttavia non in tutti i cervi è av-
venuto un fatto del genere: ciascuna
specie ha il suo proprio modo di reagi-
re a! fenomeno del nanismo.
Col ridursi della statura le proporzio-
ni del corpo si alterano. In genere le
gambe diventano corte, come nei pony;
la testa è un po' grossa, ma con muso
raccorciato e sottile. Vi sono però delle
eccezioni: infatti, i paleontologi olan-
desi GJ. Boekscbouten e P.Y. Son-
daar ritengono che l'ippopotamo nano
di Creta. Hippopotamus creutzbergt, a-
vesse zampe relativamente lunghe, e in-
terpretano questo fatto come un adatta-
mento ai terreni accidentati dell'isola. 1
denti possono diventare meno compli-
cati, come è avvenuto appunto in alcuni
elefanti e ippopotami: ma in genere, pur
riducendosi di dimensioni, rimangono
relativamente grandi, sproporzionati al-
la mole del cranio.
Concludendo, molte isole - nel caso
del Mediterraneo possiamo dire tutte le
isole nelle quali si conoscono faune fos-
sili del Quaternario - sono state popo-
late da grandi mammiferi che vi sono
degenerati, diventando nani. Come è av-
venuto questo, e soprattutto, lo ripetia-
mo perché? Un semplice sguardo alle
faune: elefanti, cervi e altri ungulati,
carnivori, scimmie, oltre ai già ricor-
dati ippopotami, ci fa capire che que-
sti animali non sono arrivati nelle isole
a nuoto. Una spiegazione del genere
non vale neppure per gli ippopotami,
che essendo erbivori non si avventura-
no mai in alto mare, dove non potreb-
bero trovare cibo. È chiaro del resto
che gli ippopotami nani non hanno mai
attraversato neppure lo stretto di Mes-
sina. I grandi mammiferi terrestri so-
no penetrati nelle isole in tempi in cui
queste furono collegate ai continenti,
e in seguito vi sono rimasti isolati e
sono diventati nani. Al geologo si pre-
sentano a questo punto due domande,
che è bene tenere distinte. La prima è:
di che età sono i fossili trovati nelle
grotte e nelle brecce ossifere? Dal pun-
to di vista geologico, la domanda ha
scarso interesse. La seconda domanda
è molto più importante: quando è av-
venuto il collegamento tra isole e con-
tinenti, e quando ti successivo distacco?
Vi è stato un solo collegamento o ve
ne sono stati più d'uno?
T n Sardegna conosciamo pochi resti di
mammiferi terrestri dell'Eocene me-
dio e del Miocene medio-inferiore: vi
sono stati in questi periodi collegamenti
col continente, verosimilmente attraver-
so la Corsica e la Provenza (sembra che
il massiccio Sardo-Corso si sia sposta-
to alquanto rispetto all'Europa conti-
nentale nel corso del Terziario), ma
queste faune più antiche non presenta-
no alcun carattere di nanismo, e per
quanto ne sappiamo non hanno lascia-
to discendenza. Secondo lo zoologo B,
Baccetti, alcuni insetti ipogei tuttora vi-
venti sarebbero i relitti del collegamen-
to avvenuto tra queste isole e il conti-
nente nel Miocene inferiore; altri relit-
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ti (rettili, anfibi e invertebrati) testìmo-
rtierebbero di un terzo collegamento av-
venuto nel Miocene superiore, ma di
questo non si è ancora trovato traccia
tra i fossili terrestri; allo stesso modo
non sappiamo nulla della fauna terre-
stre sarda del Pliocene. In Sicilia cono-
sciamo una fauna di mammiferi terre-
stri del Miocene superiore, ma anche
questa sembra che si sia estinta senza
lasciare discendenza. Le faune insulari
appartengono al Pleistocene superiore e
in qualche caso al Pleistocene medio,
e sono chiaramente discese da faune
che popolarono il continente in tempi
diversi del Terziario superiore e del
Quaternario. Questo ci fornisce una
base per inquadrare il nostro proble-
ma nell'ambiente paleogeografico. Alla
fine del Terziario il bacino del Medi-
terraneo aveva raggiunto più o meno
la conformazione attuale; continuava
però un'attività abbastanza intensa di
movimenti tellurici, che si manifestano
ancora oggi nei frequenti terremoti. In
qualche caso questi movimenti dovette-
ro influenzare notevolmente i rapporti
tra isole e terraferma; ma a questi si
sovrappose anche una serie di fenome-
ni di portata più generate, è noto che
nel corso de) Pleistocene it clima subì
forti oscillazioni, con punte di freddo
durante le quali i ghiacciai si estesero
enormemente. Durante le fasi glaciali
i continenti boreali e i maggiori gruppi
montuosi si coprirono di estese calot-
te di ghiaccio; l'estensione totale dei
ghiacci oltrepassò i 50 milioni di km 2 ,
oltre il triplo della loro estensione at-
tuale, con una superficie pari a circa
un terzo delle terre emerse. Poiché le
calotte ebbero uno spessore di qualche
migliaio di metri, una forte quantità di
acqua fu sottratta alla normale circo-
lazione e il livello del mare scese note-
Migrazioni delle fanne dal continente alle isole durante Terzia-
rio e Quaternaria net bacino del Mediterraneo; le frecce ne indi-
cano le presume vie e i numeri l'età: 1, migrazioni avvenute tra
il Miocene superiore e il Pliocene inferiore; 2, migrazioni tra la
fine del Pleistocene inferiore (Villafrancliiano) e l'iniziti del Plei-
stocene medio (Cromeriano); 3, migrazioni avvenute ali 'incirca
durante la glaciazione dì Mindel; 4, migrazioni avvenute durante
la glaciazione di Riss; 5,migrazioni durante la glaciazione diWiirm,
Con tratto marcato è indicata risonata dì — 130 ni. corrispondente alla massima depres*
sione del livello marino durante il Quaternario e che delimita quindi terre che furono
certamente emerse; la maggior parte delle ìsole è però separala dal continente da fon-
dali più profondi; ciò è indizio sicuro di movimenti tellurici verificatisi nel Pleistocene.
volmente. A complicare ulteriormente
le cose, i periodi freddi furono inter-
vallati da periodi caldi durante i quali
i ghiacci si fusero e il mare sali a li-
velli anche più alti di quelli di oggi.
La storia del Pleistocene è cosi carat-
terizzata da una serie di oscillazioni del
livello marino; sembra che vi siano sta-
te sei o sette oscillazioni maggiori, dì
cui almeno le ultime tre presentano, a
loro volta, un rapido susseguirsi di
oscillazioni minori. Il dislivello marino
tra i massimi e i minimi dovette ag-
girarsi sui 100-150 m; nell'ultima oscil-
lazione negativa il livello del mare, sce-
se un po' sotto i - 130 m. Per di
più, pur attraverso questo succedersi di
oscillazioni, sembra che il livello me-
dio del mare sia calato nel corso del
Pleistocene, e in misura notevole, qual-
cosa come 160 metri; il che potrebbe
essere dovuto ad un approfondirsi dei
bacini oceanici, o secondo alcuni a
un sensibile aumento del raggio ter-
restre.
Oscillazioni del mare e movimenti
tellurici sono i due fattori che hanno
fatto variare ì collegamenti delle isole
tra loro e coi continenti durante il
Quaternario. Dato che l'ampiezza delle
oscillazioni marine è nota, almeno en-
tro certi limiti, una buona conoscenza
della topografìa sottomarina potrebbe
permettere di ricostruire la topografìa
delle terre emerse nei vari periodi del
Pleistocene: ma ì movimenti tellurici
introducono un elemento imprevedibile
e non misurabile. Per ricostruire la sto-
ria passata delle isole dobbiamo ricor-
rere a confronti tra le loro faune ter-
restri e quelle dei continenti.
All'inizio del Pleistocene le faune
terrestri europee erano del tutto diver-
se da quelle attuali, e nel complesso
ancora simili a quelle plioceniche. Le
faune del periodo compreso tra il Plio-
cene superiore e il Pleistocene inferio-
re sono chiamate in Europa faune Vil-
lafranchiane, dai paese di Villafranca
d'Asti in Piemonte, una località parti-
colarmente ricca di vertebrati. Il perio-
do Villafranchiano occupa un interval-
lo di tempo piuttosto lungo, a cavallo
tra il Pliocene superiore e il Pleistoce-
ne; la sua durata è certamente superio-
re ai due milioni di anni e probabil-
mente poco inferiore ai tre milioni di
anni. La fine del Villafranchiano non
è ancora stata datata direttamente ma
sembra collocarsi, con larga approssi-
mazione, intorno a un milione di an-
ni fa.
In questo lungo intervallo di tempo
si sono succedute faune diverse, ma la
loro composizione complessiva non ha
subito forti rivoluzioni. I mammiferi so-
no rappresentati da specie estinte, mol-
te delle quali sono più o meno stretta-
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Ricostruzione del cervo gigante Megaceros (Megaceroidesl verticornis dendrocerus, vis-
suto in Europa durante il Cromeriano e la successiva glaciazione di Mindel. L'animale
misurava circa 1,50 m al garrese. La ricostruzione è basala su esemplari di varie loca-
lità della Germania, della Toscana e dei dintorni di Roma, La forma tipica AL veni-
cornìs verticornis viveva in Inghilterra e aveva palchi meno ramificati e largamente
palmati nella parte superiore. È il progenitore dei cervi nani di varie isole del Mediter-
raneo. Alcuni suoi discendenti sono migrati, in qualche momento imprecisalo del Plei-
stocene, in Marocco e in Algeria, dove sono sopravvissuti fino al Pleistocene superiore.
mente imparentate con mammiferi che
vivono oggi nelle regioni calde del-
l'Asia, Attraverso i pollini delle piante,
conservate nei sedimenti argillosi e tor-
bosi, è stato possibile ricostruire le vi-
cissitudini della vegetazione e del clima.
Si è visto cosi che durante il Villafran-
chiano vi sono state tre fasi di clima
freddo, di cui la prima segnerebbe il li-
mite tra Pliocene e Pleistocene. Non si
conoscono in Europa tracce glaciali
collegate a queste prime oscillazioni
fredde; si conoscono però tracce dì gla-
ciazioni molto antiche, di età compresa
tra 3,1 e 2,6 milioni dì anni, in Islanda,
in California e nella Nuova Zelanda;
per di più, una fauna villafranchiana
della Francia meridionale, contempo-
ranea o poco successiva al primo perio-
do freddo, è risultata dell'età di 2,5 mi-
lioni di anni. Vi è quindi motivo di pen-
sare che l'inizio del Quaternario risalga
a circa 3 milioni di anni fa. Altri auto-
ri invece, seguendo un ragionamento
del tutto diverso dal nostro, ammetto-
no una data molto più recente, prossi-
ma a 1,8 milioni di anni fa.
Una quarta oscillazione fredda, an-
che questa messa in evidenza dai polli-
ni e da qualche traccia di suolo gelato,
segna la fine della fauna villafranchia-
na, che per la maggior parte si estinse
senza lasciare discendenza, è curioso
che, per quanto più tardi si trovino trac-
ce molto evidenti di periodi freddi mag-
giori, durante i quali l'Europa centrale
e settentrionale fu coperta da un'enor-
me calotta di ghiaccio, la maggiore ri-
voluzione faunistica del Pleistocene eu-
ropeo coincise con la fase fredda che
chiuse il Villafranchiano, e che ha la-
sciato, nel complesso, tracce molto me-
no evidenti dei periodi freddi succes-
sivi.
Al Villafranchiano segui un periodo
caldo di durata piuttosto breve, il Cro-
merà ano degli autori inglesi, e quindi
tre evidenti glaciazioni, chiamate Min-
dei, Riss e Wiirm, separate da periodi
interglaciali caldi. Sappiamo anche che
queste glaciazioni interessarono tutta la
Terra, comprese le montagne delle re-
gioni equatoriali, e anche le regioni po-
lari.
Possiamo fermarci per il momento a
questo punto e passare all'esame delle
faune della Corsica e della Sardegna,
che sono state lungamente unite nel
Pleistocene e per quanto ci interessa
possono essere considerate come un'uni-
ca isola. L'elemento faunistico più co-
mune è costituito dai cervi, i quali però
non sono imparentati con ì cervi di oggi
ma con una specie estinta, di grande
statura, con palchi enormi e riccamen-
te ramificati, Megaceros verticornis den-
drocerus. Questa specie immigrò nel-
l'Europa occidentale, venendo evidente-
mente dall'Europa orientale o dall'Asia,
all'inizio del Cromeriano, e vi si man-
tenne fino al periodo glaciale di Min-
dei, dopo di che scomparve e fu sosti-
tuita da altri cervi giganti. Questo ci
permette di fissare, almeno entro certi
lìmiti, la data del collegamento del Mas-
siccio Sardo-Corso con la Toscana: an-
che se i cervi nani appartengono al
Pleistocene superiore, è evidente che un
collegamento tra le isole e la terrafer-
ma ebbe luogo tra la fine del Villafran-
chiano e il Mindeliano, cioè nella parte
più bassa del Pleistocene medio, Mega-
ceros verticornis dendrocerus non è mai
stato trovato però né in Corsica né in
Sardegna. I cervi di queste ìsole Mega-
ceros cazioti, Megaceros aigarensis e
altri, sono tutti discendenti della specie
continentale divenuti, chi più chi me-
no spiccatamente, nani. I più grandi do-
vevano superare di poco il metro alla
spalla, i più piccoli raggiungevano ap-
pena 70-75 centimetri. È interessante il
fatto che grotte anche vicine tra loro
contengono in genere cervi di statura
diversa. Per vari motivi di carattere bio-
logico, è inverosimile che specie stret-
tamente imparentate e di statura poco
diversa vivessero insieme in aree ri-
strette. È molto più probabile che il pro-
cesso di degenerazione verso il nanismo
sia stato molto rapido: in tal caso una
differenza di età tra i riempimenti di
due grotte, anche pìccola e non risolvi-
bile con i metodi tradizionali della geo-
logia stratigrafica può avere avuto il ri-
sultato di fossilizzare due popolazioni di
statura diversa.
Passiamo agli altri componenti della
fauna. In Sardegna sono stati trovati i
resti di un piccolissimo cinghiale, ma
troppo frammentari perché se ne possa
stabilire con sicurezza la parentela. Vi
sono anche resti di un piccolo canide
che sono stati riferiti al genere Cuori,
un'attribuzione che ci lascia perplessi;
neppure questi comunque ci illuminano
sui rapporti tra faune insulari e faune
continentali. Ma gli altri elementi fau-
nistici hanno indubbiamente un'aria
molto « antica », Vi è in Sardegna una
bertuccia nana, M 'acaca majori: una
specie eli bertuccia. Macaca fiore ni ina,
viveva in Toscana nel Villafranchiano
superiore, ma non si ha notizia di altre
bertucce nel continente dopo la fine del
Villafranchiano. In Sardegna è stato tro-
vato inoltre qualche resto di un'antilope
che sembra strettamente imparentata
con il goral (Nemoriwcdus goral) del-
l'Asia centro-orientale, e uno stretto
parente del goral. Gaìlogoal menegh'mìi,
era abbastanza diffuso nel Villafranchia-
no supcriore della Francia meridionale
e della Toscana: ma neppure questo so-
pravvisse al Villanfranchiano. Vi è poi
un piccolo elefante, Elephas la marmo-
ini, stranamente scarso in confronto
agli elefanti nani della Sicilia. Ne sono
state trovate alcune ossa degli arti, oggi
in parte perdute, e più recentemente
due molari isolali. Già nel 1883 il pa-
leontologo inglese Ci. Forsyth Major
rilevò nelle ossa del carpo e del tarso
delle analogie tra il piccolo elefante
sardo e Elephas meridìonalis, una spe-
cie caratteristica del Villafranchiano
superiore europeo. Successivamente la
posizione sistematica dell'elefante sardo
è stata oggetto di interpretazioni diver-
se e contrastanti, ma i molari non la-
sciano dubbio che Forsyth Major aveva
visto giusto. La statura dì questo ani-
male doveva aggirarsi, a quanto pare,
attorni a 1,80 m o anche un po' meno,
Vi sono poi altre due specie che non
possono essere considerale nane, ma
che hanno ugualmente interesse per
l'origine della fauna. Una di queste è
un carnivoro della famiglia dei muste-
lidi, Enhydrìctis galictoides, un anima-
le di abitudini semiacquatiche e un po'
più piccolo di una lontra. Questo mu-
stelide non ha parenti nelle faune eu-
ropee dei Pleistocene medio e supcrio-
re, ma il genere Enhydrictis era alquan-
to diffuso in Europa, e anche in Ita-
lia, nel Villafranchiano, anche se con
specie diverse da quella della Sardegna.
L'altra specie è un piccolo lagomorfo
della famiglia degli ochotonidi, Proìa-
gus xardus, che sembra essere soprav-
vissuto in Sardegna e in Corsica fino ai
tempi storici: e anche il genere Prola-
gus visse nell'Europa continentale, com-
presa l'Italia, nel Villafranchiano, ma
si estinse dopo questo periodo.
Nella fauna quaternaria sardo-corsa
troviamo quindi elementi imparentati
con le faune continentali villafranchia-
ne - l'antilope, l'elefante, la bertuccia,
il musici idc e il prolago - insieme a
elementi - i cervi - imparentati con le
faune immigrate subito dopo la fine del
Villafranchiano. Si tratta di due ondale
migratorie successive, o di migrazioni
avvenute durante un unico periodo di
-é*Z*
.-.;- ■
■
VI"'"
ti .-
Ricostruzione di Megaceros (Megaceroides) aigarensis, basata su un esemplare dei din-
torni di Alghero, L'animale è un discendente di M. verticornis e raggiungeva la statura
di circa un metro al garrese. Si osservi che per quanto la statura equivalga a circa i 2/3
di quella della specie progenitrice, io sviluppo dei palchi è ridotto circa a metà. In
Corsica e in Sardegna sono vissuti altri cervi simili a questo, quasi tutti di statura un
poco inferiore. A fianco, per confronto, il piccolo cervo di Creta, M. crelensis. In
ulto, la testa dì Megaceros ' Megaceroìdest crelensis, il più piccolo dei Magaceridi
insulari (statura circa 61) cm al garrese). Si noti l'estrema riduzione e semplificazione
dei palchi alla cui base i cercini rimangono stranamente larghi rispetto all'esile asta.
Masi hi,, adulto di Elephns meridionali*, una speda mollo diffusa nel \ il li lr.nn tii.iini
-iiprrìorc i-uriqico : |;i ricostruzione è bacata -.nidi i-M-nijiIari ile] V Libiamo -iqicNiirc. La
-lalura era dì circa 8,55 ni al garrese e 3,70 ni alla sommità del cranio. Verso la fine del
\ illafraiuhìano E. meridionnlis ha dato origine nell'Europa occidentale a una sotto-
specie pili evoluta, E. merìdianidis cromerensìs, che aveva «lalura maggiore >'.{,)H) ni al
gtnvese e circa 1,31) m alla sommità del cranio), difese pili grandi e cranio corto e alto.
Da questo ceppo, estintosi alla fine del \ il la franchi ano, è probabilmente derivalo l'ele-
fante nano della Sardegna, Elephas tnniarmorai, di cui sì conoscono solo frammenti.
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Elephas falconeri e Elephas mnaìdriensis (a destra), due discen-
denti siciliani e maltesi di Elephas antiquus, messi a confronto
con il loro progenitore che è immigrato in Europa occidentale
all'inizio del Pleistocene medio e vi è sopravvissuto fino all'ul-
timo periodo interglaciale. I rappresentanti più antichi di que-
sta specie sono poco noli, La ricostruzione è basata su esem-
plari di una sottospecie progredita, Elephas antiquus italicus,
vissuta nel Riss e nel successivo interglaciale- La statura poteva
raggiungere circa 4 m al garrese. Elephas falconeri, alto meno
di un metro, è il più piccolo proboscidalo di cui si abbia notizia.
collegamento tra le isole e il continen-
te, avvenuto tra la fine del Villafran-
chiano e l'inizio del Pleistocene medio?
Entrambe le alternative sono possibili e
la questione appare insolubile, almeno
con gli elementi che abbiamo oggi. Il
collegamento col continente dovette co-
munque interrompersi presto, non dopo
il Mindeliano, perché non troviamo
nelle isole i discendenti delle faune con-
tinentali del tardo Pleistone medio. Pos-
siamo fare anche un'altra considerazio-
ne. Tra la Corsica e l'arcipelago toscano
i fondali scendono sotto i - 400 metri.
Le oscillazioni marine del Pleistocene
non arrivarono mai a valori cosi elevati
e non sarebbero state sufficienti a stabi-
lire un ponte tra la Toscana e la Cor-
sica. La configurazione dei fondali era
diversa nel Vìltafranchìano e almeno al-
l'inizio del Pleistocene medio; forti mo-
vimenti tellurici sono sopravvenuti in
seguito a modificarla.
Oltre alle specie di cui abbiamo par-
lato vivono in Sardegna vari altri car-
nivori: la volpe, il gatto selvatico, la
martora, la donnola, e varie specie di
roditori e insettivori, tutte rappresen-
tate nell'isola da sottospecie endemiche.
Tranne alcuni roditori, questi animali
non sono rappresentati tra le faune
fossili. Come e quando siano arrivati
in Sardegna è poco chiaro. Vi è stato
un nuovo collegamento tra le isole e il
continente nel Pleistocene superiore?
La cosa è improbabile, anche se non
può essere esclusa; del resto, il sempli-
ce fatto che tutti i mammiferi sardi sia-
no rappresentati da sottospecie ende-
miche parla in favore di una lunga se-
gregazione della fauna insulare. Il mu-
flone è stato certamente portato dal-
l'uomo, forse nel Neolitico, perché nes-
suna pecora selvatica è mai vissuta in
Europa occidentale. Sappiamo comun-
que che al tempo di Polibio, cioè nel
secondo secolo d.C, il muflone era già
diffuso nelle due isole: non vi erano
invece ancora cervi né cinghiali, che
sono stati portati dall'uomo più tardi,
forse ancora in epoca romana.
I a situazione della Sicilia è diversa.
Qui le faune cavernicole sono mol-
to più ricche di quelle della Corsica e
della Sardegna e vi predominano gli
elefanti e gli ippopotami. Abbiamo vi-
sto che gli ippopotami mancano in Cor-
sica e in Sardegna. Gli elefanti sicilia-
ni non hanno niente a che vedere col
piccolo elefante sardo né con Elephas
meridionalìs. Come riconobbe fino dal
secolo scorso il paleontologo tedesco
H. Pohlig, sono strettamente imparen-
tati con una specie immigrata in Italia
nel Cromeriano o nel Mindeliano e so-
pravvissuta fino all'inizio dell'ultimo pe-
riodo glaciale: Elephas antiquus, un ani-
male di statura enorme, dalle forme
pesanti, con un grosso cranio massic-
cio munito di due lunghe zanne diva-
ricate e quasi dritte. I molari si distin-
guono facilmente da quelli di Elephas
meridionalìs e dei suoi parenti perché
hanno una corona molto più stretta e
allungata. Anche in Sicilia gli elefanti
sono diventati nani. Vi sono due spe-
cie di statura diversa: Elephas mnaì-
driensis. che variava tra 1 ,50 e 1 ,90 m,
e Elephas falconeri, alto appena 80-
90 cm, il caso di nanismo più spin-
to che si conosca tra i proboscidati,
e forse il più strabiliante tra i grandi
mammiferi. Risulta anche, dalla posi-
zione in cui i fossili sono stati trovati,
che la specie più piccola è anche la più
recente; entrambe però sono vissute nel
Pleistocene superiore, per cui la dege-
nerazione della statura, almeno nelle
fasi finali, deve essere stata rapidis-
sima.
Agli elefanti e ippopotami seguono,
per importanza numerica, i cervi nani,
di cui la grande maggioranza sono im-
parentati con il cervo comune europeo,
Cervus elaphus, e non hanno niente a
che vedere con i cervi della Corsica e
della Sardegna. Vi sono poi altri mam-
miferi nani, ma scarsi di numero. Sono
stati segnalati un orso, una volpe e una
iena; inoltre un bue selvatico e un bi-
sonte, ma queste due specie hanno sta-
tura poco inferiore a quella dei buoi
e dei bisonti del Pleistocene continen-
tale. Vi è poi, stranamente, il ghiro gi-
gante, Leithia melitensis. Vi è anche
un rappresentante dei cervi giganti,
Megaceros messinae, ma raro e rappre-
sentato da frammenti. Sembra imparen-
tato con Megaceros verticornis e con i
cervi sardo-corsi: però è decisamente
più antico della fauna a elefanti e ippo-
potami nani.
La fauna di Malta è simile a quella
della Sicilia e molte specie sono comu-
ni alle due isole. Elephas mnaìdriensis
prende nome, in effetti, da una grotta
di Malta, e Leithia melitensis dal no-
me latino dell'isola. È certo che nel
Pleistocene le isole maltesi sono state
collegate alla Sicilia per un periodo ab-
bastanza lungo. Vi è anche, a Malta,
una tartaruga gigante di cui finora non
si è trovato traccia in Sicilia.
Lo stretto che separa la Sicilia dalla
Calabria si è formato in corrisponden-
za di una grande faglia a movimento
prevalentemente orizzontale, che da
Messina decorre lungo la costa orienta-
le dell'isola fino alla piana di Catania e
poi si addentra, mantenendo la stessa
direzione, a separare l'altipiano degli
Iblei dalia regione di Gela. Come tutte
le faglie di questo tipo, è stata attiva a
varie riprese e per lungo tempo, e lo è
tuttora; alla sua attività sono legate le
manifestazioni vulcaniche terziarie de-
gli Iblei, l'apparalo molto più recente
dell'Etna, e la nota attività sismica del-
lo stretto. È chiaro che nei collegamen-
ti tra Sicilia e continente hanno influito,
oltre alle fluttuazioni del livello del ma-
re, vari movimenti tellurici.
La spiccata differenza tra le faune
della Sicilia e Malta da un lato, e quel-
le della Corsica e Sardegna dall'altro,
dimostra al di là di ogni dubbio che i
popolamenti delle isole sono avvenuti in
tempi diversi. In Sicilia non vi è finora
traccia della fauna villafranchiana. Me-
gaceros messinae, insieme ad alcuni mo-
lari di Elephas antiquus trovati vicino a
Palermo, sembrano essere gli unici te-
stimoni di un primo collegamento tra
Sicilia e continente avvenuto nel Plei-
stocene medio, probabilmente durante
la glaciazione mindeliana. Il resto della
fauna è più recente ma discende da
specie che popolarono la penisola piut-
tosto a lungo. Confrontando faune con-
tinentali e insulari si può concludere
che un secondo collegamento, quello
durante il quale immigrò la maggior
§m m ■'■■ •■ ^ :■■**?
Centis lyrrkenicus, del Pleistocene superiore dell'isola di Capri. La statura è all'incirca
quella di un daino, ma il corpo è un po' tozzo, la testa grossa e le zampe gracili. I
palchi erano estremamente variabili per forma e per numero di punte; i palchi ca-
ratteristici di questo esemplare somigliano superficialmente a quelli tipici del
daino, ma la specie è imparentata col cervo comune europeo, Cervus elaphus,
parte della fauna endemica siciliana, ri-
sale alla glaciazione rissiana. cioè a un
periodo compreso tra 350 mila e 230
mila anni fa. La maggior parte delle
specie nane sembra essersi estinta du-
rante la glaciazione wurmiana o poco
dopo. Partendo ovviamente da specie
di statura normale, la degenerazione
verso il nanismo dovette avvenire nel
volgere di 100 000-200 000 anni circa.
Vari indizi faunistici fanno ritenere
che vi sia stato anche un terzo colle-
gamento tra Sicilia e continente nel
Wùrmiano: ma a questo punto l'in-
fluenza dell'uomo sulle faune comincia
a pesare in maniera sensibile, al punto
di sviare le indagini,
A Itre isole del Tirreno che hanno dato
resti di mammiferi nani sono Pia-
nosa e Capri. La fauna di Pianosa è
nota da oltre un secolo ma è rappre-
sentata da resti piuttosto frammentari.
L'elemento più interessante è un pic-
colo cervo dalle gambe singolarmente
corte e gracili, imparentato col cervo
comune europeo. L'età del popolamen-
to di questa isola rimane un po' incer-
ta. Poiché i fondali nell'Arcipelago To-
scano non scendono sotto i - 1 30 m, è
molto probabile che l'isola sia stata po-
polata durante la glaciazione wurmiana
e che i mammiferi siano divenuti nani
quando l'isola è rimasta staccata dal
continente in seguito all'ultima risalita
del livello marino; il che potrebbe es-
sere avvenuto non più di 20 000 an-
ni fa.
A Capri resti fossili sono stati tro-
vati solo nella Grotta delle Felci, sulla
costa meridionale dell'isola. La maggior
parte della fauna è costituita da cervi
che appartengono a un'unica specie.
Cervus tyrrhenicus; vi sono inoltre ro-
ditori e uccelli. I depositi fossiliferi so-
no stati trovati sotto uno strato a in-
dustria neolitica, ma sulla loro età non
abbiamo altri particolari. Il cervo è
rappresentato da oltre venti esemplari
dei due sessi ed è un animale di sta-
tura piuttosto piccola ma non piccolis-
sima. La femmina raggiungeva circa
90 cm al garrese, il maschio qualche
centimetro in più; le zampe sono cor-
te e esili in proporzione al tronco. I
palchi sono estremamente variabili di
forma e alcuni presentano un aspetto
decisamente anormale. E chiaro però
che il cervo della Grotta delle Felci
è uno stretto parente del cervo comu-
ne europeo, anzi a quanto pare di una
sottospecie a palchi grandi e poco rami-
ficati, diffusa nel Pleistocene superiore
italiano, Cervus elaphus aretinus. Il col-
legamento di Capri alla Penisola Sor-
rentina e il successivo distacco sono
90
91
Cranio e mandìbola di Miiciwa mii/ori, una bertuccia nana i eui restì fossili sono stali
trovati in una brcrria ossifera presso Olbia, in Sardegna. Per confronto l solfai è figu-
rata una mandibola di Manica fiorentina, una berlincia presente nel Yillafranchiano
superiore del Yaldarno. Tutti i pezzi appartengono a individui di sesso maschile.
quindi motto recenti, e probabilmen-
te risalgono al periodo glaciale «ur-
aliano.
Sulle isole mediterranee fuori del-
l'area italiana abbiamo dati più scarsi.
A Creta sono stati trovati resti piutto-
sto frammentari di elefanti nani impa-
rentati con Elephas antiquus, di ippopo-
tamo e dì un piccolo cervo, Megaceros
cretettxis, che al pari dei cervi della
Corsica e della Sardegna è uno stretto
parente di Megaceros veriìcornìs. Il
cervo di Creta ha però portato al-
l'estremo la degenerazione del nanismo:
la sua statura era di soli 60-65 cm e
i palchi, non più lunghi di una span-
na, avevano due sole punte. Le cavi-
glie ossee dì sostegno dei palchi sono
grosse, in singolare contrasto con l'asta
sottilissima. Spesso i palchi presentano
la parte superiore consumata, come per
ripetuti sfregamenti contro le pareti
delle grotte, nelle quali questi piccoli
cervi dovevano trascorrere periodi piut-
tosto lunghi. Non vi è traccia della fau-
na villafranchiana: il collegamento del-
l'isola al continente non è quindi più
antico del Pleistocene medio, e il di-
stacco definitivo dell'isola non dovreb-
be essere più lardo della glaciazione
mindeliana. L'immigrazione delle faune
a Creta è poco più tarda dell'immigra-
zione in Sardegna e in Corsica. A Ci-
pro sono stati trovali solo resti scarsi
di ippopotami e di elefanti: sembra che
la sua storia non sia dissimile da quella
di Creta.
TI caso delle Baleari è diverso. L'unico
grande mammifero è Myotragus bu-
learicus, un'antilope di piccola statura.
con zampe corte, adattate ai terreni ac-
cidentati. Questo animale presenta la
strana caratteristica di avere gli incisivi
inferiori prismatici, ad accrescimento
continuo, come quelli dei roditori (gli
incisivi superiori mancano come in tut-
ti i ruminanti). Myotragtts balearicits
non ha nessuna parentela con le anti-
lopi del Quaternario del continente e
neppure, per quanto ne sappiamo, con
le antìlopi del Pliocene. È probabile
che il distacco delle Baleari dall'Euro-
pa continentale risalga molto addietro
nel tempo, forse al Miocene superiore,
cioè oltre 7 milioni di anni fa.
Varie ìsole della Sonda, Giava, Celé-
bes, Flores. Timor, hanno dato resti di
proboscidati nani del genere Sregadon,
strettamente imparentati con gli ele-
fanti, dai quali differiscono più che al-
tro per i molari a corona più bassa. An-
che se non si è arrivati a casi estremi
di nanismo come in Sicilia, sono vis-
suti in queste isole degli stegodonti di
statura inferiore al metro e mezzo. Gli
stegodonti nani sono certamente relitti
di faune quaternarie, o tutt'al più del
Pliocene superiore: non siamo tuttavia
in grado di ricostruire nei particolari le
vicende della paleogeografia di queste
ìsole.
li Madagascar pone problemi diversi
e meno complessi. Certamente il di-
stacco di quest'isola dal continente è
molto antico e vi troviamo una fauna
fortemente specializzata: lemuridi. vi-
ve rr idi e particolari famiglie di insetti-
vori e di roditori, tutti discendenti di
mammiferi che dovevano essersi inse-
diati in Africa dal Terziario infe-
riore. Vi troviamo però anche il cin-
ghiale di fiume (Potatnochoertis) e una
specie decisamente nana di ippopotamo,
fi ippopotami^ lemerlei, eslintasi in epo-
ca preistorica ma recentissima. Era un
animale di circa un metro di statura,
alquanto più piccolo quindi dell'ippopo-
tamo nano della Sicilia. Ora. sappiamo
che cinghiali e ippopotami sono di ori-
gine asiatica e sono immigrati in Afri-
ca nel Pliocene. Se il cinghiale di fiu-
me vi sia arrivato da sé o sìa stato im-
portato dall'uomo non è chiaro, ma
l'ippopotamo vi è certamente arrivato
per conto suo, e molto prima che l'uo-
mo mettesse piede sull'isola. Hippopo-
ramus leinertei è abbastanza strettamen-
te imparentato con Hìppopoiamus am-
phihius ma non ne è certo un discen-
dente diretto; presenta anzi alcuni ca-
ratteri primitivi che dimostrano che è
derivato da una specie meno evoluta di
quella che vive oggi, e che probabil-
mente visse nell'Africa continentale nel
Pliocene: ed è facile concludere da que-
sto che i primi ippopotami sono arri-
vati nel Madagascar nel Pliocene, o
tutt'al più nel Pleistocene amico. Pro-
habilmente la via di comunicazione era
costituita da una serie di isole separate
da acque basse, perché all'infuori del-
l'ippopotamo e forse del cinghiale di
fiume nessun mammifero di abitudini
compiutamente terrestri è migrato dal
continente all'isola o viceversa nel Ter-
ziario superiore. La fauna del Mada-
gascar presenta anche altri caratteri
propri delle faune insulari. L'ippopota-
mo, come abbiamo visto, è nano; per
contro, fino a epoca recentissima vi
sono vissute varie specie di lemuri di
grande statura e che avevano abbando-
nato la vita arboricola per assumere
abitudini terrestri, e vari uccelli corri-
dori giganteschi, tra cui i più noti sono
gli Aepyornis o * uccelli elefanti ».
Tutto questo è dovuto al lungo perio-
do di isolamento della fauna malgascia,
interrotto solo, verso la fine del Terzia-
rio, dall'immigrazione degli ippopotami
e forse dei cinghiali, che non devono
aver turbato gran che l'equilibrio biolo-
gico dell'isola.
possiamo tornare adesso ai quesiti po-
sti all'inizio di questo scritto: quali
possono essere state le cause del nani-
smo dei grandi mammiferi, come del
gigantismo di alcuni piccoli mammife-
ri, uccelli e rettili? Quali le cause del-
la rapida scomparsa di tante specie in-
sulari?
Ritengo che la causa principale delle
modificazioni subite dalle specie insu-
lari sia stata la mancanza di pressio-
ne selettiva. In altre parole, ogni spe-
cie vivente è soggetta in natura a com-
petere con altre specie: animali preda-
tori, animali o piante che contendono
lo spazio vitale o il cibo. Nei grandi
mammiferi la statura elevata rappre-
senta un mezzo di difesa e quindi un
carattere vantaggioso. La competizione
esercitata più che altro dagli animali
predatori fornisce la « pressione selet-
tiva * necessaria a mantenere questa
statura, eliminando gli individui più
gracili. Nelle isole, dove i grandi carni-
vori sono scarsi o assenti, questa pres-
sione è venuta a mancare: individui
portatori di mutazioni che provocano
una riduzione di statura hanno potuto
cosi sopravvivere e hanno avuto modo
di diffondere nella popolazione i geni
mutanti. Analogamente, per mancanza
di pressione selettiva il ghiro della Si-
cilia e di Malta è diventalo gigante, i
lemuri malgasci hanno abbandonato gli
alberi e sono diventati grossi e pesanti,
molti uccelli insulari hanno perduto
l'attitudine al volo.
Alla mancanza di pressione selettiva
si sono sovrapposti altri fattori. L'endo-
gamia, cioè il frequente reincrocio en-
tro popolazioni ristrette, può avere fa-
vorito raffermarsi di mutazioni di tipo
più o meno patologico. D'altra parte in
alcuni casi particolari, come in isole
piccole o povere di vegetazione, la ri-
duzione di statura può avere costituito
un vero vantaggio, diventando cosi un
carattere adattativo.
È stato supposto talvolta che la de-
generazione dei grandi mammiferi del-
le isole mediterranee sia dovuta al
clima troppo rigido delle fasi glaciali
quaternarie, o troppo arido delle fasi
interglaciali. È un'ipotesi che può esse-
re valida in qualche caso, in particolare
per gli elefanti e gli ippopotami, ma
certamente non è adeguata a spiegare
il fenomeno nella sua interezza perché
cervi, elefanti e ippopotami vivevano
nello stesso tempo nel continente, in
condizioni di clima non diverse da quel-
le delle isole. D'altra parte, se elefanti
e ippopotami soffrono di un clima rela-
tivamente rigido, lo stesso non può dir-
si dei cervi, che trovano il loro ambien-
te migliore nelle regioni temperato -fred-
de. Per di più un'ipotesi del genere ca-
de completamente in difetto per le iso-
le della Sonda e il Madagascar, dove
anche durante il Quaternario il clima
non può mai essere stato troppo freddo
né troppo arido. Con ciò non si può
escludere del tutto che qualche specie
insulare possa essere degenerata e. final-
mente essersi estinta per le condizioni
ambientali divenute avverse; si può dire
solo che una tale ipotesi non fornisce
una spiegazione valida per tutte le spe-
cie insulari, ma tutt'al più per un ri-
stretto numero di esse. È comunque si-
gnificativo il fatto che nelle isole me-
diterranee, dove gli inverni dovettero
essere rigidi durante i periodi glaciali,
le faune si trovano spesso accantonate
nelle grotte, mentre nelle isole tropicali
si trovano in depositi all'aria aperta: al-
meno alle medie latitudini il clima può
avere esercitato un'influenza negativa
sui grandi mammiferi.
Ma oltre a questi fattori vi è stata
una causa più generale che ha provo-
cato una vera decimazione nella grossa
selvaggina del tardo Pleistocene, e che
sembra essere stata ancora più attiva
nelle isole che sui continenti, appunto
perché nelle isole si erano sviluppate
specie relativamente indifese. Questa
causa è l'uomo, e precisamente l'uomo
del lardo Paleolìtico. Fu in questo pe-
riodo che la specie umana si accrebbe
notevolmente e apprese a fabbricarsi
frecce e altre armi, vivendo in preva-
lenza dei proventi della caccia. L'in-
fluenza dell'uomo del tardo Paleolitico
sulla grossa selvaggina è impressio-
nante. Per restare all'Europa, furo-
no sterminati in questo periodo l'or-
so delle caverne (Ursus spelaetts), il
mammut (Elphas primigeniux), il rino-
ceronte lanoso (Coetodonta antiqui-
tatis), il cervo gigante del tardo Pleisto-
cene (Megaceros giganleits), il bisonte
(Bìsort priscus) e il piccolo equide
Equus hydruntinus, mentre il cavallo
(Equia cabalili*) fu ridotto all'orlo del-
l'estinzione; il bue selvatico (Box primi-
genius) diminuì fortemente di numero,
e in conseguenza di tutto questo decli-
narono fortemente anche i grandi car-
nivori. Nell'Europa continentale il de-
clino della grande selvaggina avvenne
ne! volgere di tempo tra circa 20 000 e
10 000 anni fa, cioè decisamente dopo
l'ultima punta di freddo, che si colloca
circa 18 000 anni fa. Negli altri conti-
nenti si verificarono estinzioni altrettan-
to subitanee e massicce, particolarmen-
te nelle due Americhe, ma neppure
l'Australia, dalla popolazione umana
cosi rada, sfuggi al fenomeno. Le tecni-
che di datazione col carbonio radioat-
tivo hanno mostrato che le estinzioni
non furono contemporanee nei vari con-
tinenti e non coincisero neppure con i
periodi di clima più freddo, mentre av-
vennero in concomitanza con l'arrivo
dei popoli cacciatori, portatori di civil-
tà simili a quelle del nostro Paleolitico
superiore. Nel Madagascar la scompar-
sa degli ippopotami nani, dei grandi le-
muri terrestri e dei giganteschi uccelli
inetti al volo coincise ugualmente con
l'arrivo dell'uomo, che qui avvenne sin-
golarmente tardi, nel 1100 d.C.
In Sicilia e a Malta l'uomo arrivò
nel Paleolitico, e iti presumibilmente lo
sterminatore delle faune insulari. In
Sardegna, malgrado qualche incerta in-
dicazione in contrario, sembra che l'uo-
mo sia arrivato solo nel Neolitico. Sa-
rebbe interessante verificare la data del-
l'estinzione delle faune insulari in rap-
porto con la comparsa dell'uomo, ma
per le isole mediterranee questo studio
non è ancora stato fatto.
C'è anche da chiedersi se l'eccezio-
nale ricchezza di fauna di alcune grotte
non sia in qualche modo in rapporto
con l'attività dell'uomo: se cioè le po-
polazioni paleolitiche non avessero ap-
preso a tenere prigionieri gii animali
nelle grotte, sbarrando in qualche mo-
do gli accessi, per poterli cacciare più
facilmente. Certo è che le tecniche di
caccia erano primitive: frecce e lance
dì pietra, trabocchetti; nel caso dì gros-
si animali, dovevano venire attaccati di
preferenza i giovani. Talvolta la caccia
si faceva spaventando i branchi e spin-
gendoli verso dirupi per farli precipi-
tare. Il tutto era fatto senza alcuna
considerazione del rischio di sterminare
la selvaggina e inaridire cosi le fonti
stesse del proprio sostentamento. La
povertà delle civiltà mesolitiche in con-
fronto a quelle del tardo Paleolìtico po-
trebbe derivare proprio all'esaurirsi del-
le risorse della caccia.
92
93
GIOCHI MATEMATICI
di Martin Gardner
Curve cicliche generate
da ruote che rotolano su altre ruote
Lo straordinario paradosso di roton-
di oggetti, lisci che conquistano spazio
col semplice rotolare più e più volte,
invece di sollevare faticosamente mem-
bra pesanti per avanzare, deve aver
provocato nell'ancor giovane genere
umano uno shock molto salutare.
Vladimir nabokov, Parla, o memo-
ria .
Il mondo sarebbe molto diverso sen-
za la ruota. A parte il problema
dei trasporti, se consideriamo l'u-
so della ruota come macchina semplice
- carrucole, ingranaggi, giroscopi e co-
si via - è molto difficile immaginare
una civiltà progredita che ne sia priva.
H.G. Wells, nel suo libro La guerra dei
mondi descrive una civiltà marziana
molto più sviluppata della nostra, ma
che non usava ruote nei suoi complicati
macchinari; Wells probabilmente ha
voluto dire qualcosa di originale. Si può
facilmente capire come gli indiani d'A-
merica non siano arrivati a scoprire la
ruota ma la stessa cosa non è pensabile
in una società in grado di mandare
astronavi da Marte alla Terra.
Fino a poco tempo fa si pensava che
l'uso della ruota avesse avuto origine in
Mesopotamia. Infatti si sono trovati in
quella regione dei dipìnti raffiguranti
carri dotati di ruote che risalgono al
3000 a.C, e sono stati dissotterrati au-
tentici resti di pesanti dischi foggiati a
ruote che risalgono al 2700 a.C. Dopo
la seconda guerra mondiale tuttavia de-
gli archeologi russi hanno trovato nel
Caucaso modelli in ceramica di carri
ruotati il che fa pensare che la ruota
potrebbe essere stata scoperta nella
Russia meridionale molto prima che in
Mesopotamia. Può anche darsi che la
ruota sia stata scoperta in due o tre
posti diversi, o che la nuova inven-
zione si sia diffusa nel mondo passan-
do di bocca in bocca.
A prima vista appare molto strano
che con l'evoluzione non sia mai ap-
parsa la ruota come mezzo di locomo-
zione animale, ma poi pensandoci bene
ci si rende conto di quanto sarebbe sta-
to difficile per la natura la formazione
di meccanismi biologici che facessero
ruotare estremità siffatte. (D'altra par-
te l'artista tedesco Maurits C. Escher ha
disegnato una creatura in grado di ap-
pallottolarsi su se stessa e dì rotolare
molto velocemente. E chi potrebbe es-
sere certo che tali esseri non si sono
sviluppati su altri pianeti?) Può anche
darsi che esista qualche meccanismo
microscopico girevole dentro le cellule
dei corpi viventi terrestri, che avrebbe
il compito di svolgere e riavvolgere cor-
doni a doppia elica di DNA, ma la sua
II paradosso della ruota di Aristotele.
esistenza e ancora una pura supposi-
zione.
Una ruota che rotola ha molte pro-
prietà paradossali. È facile vedere che
i punti che stanno vicino alla som-
mità della ruota hanno una velocità re-
lativa al suolo molto più alta dei pun-
ti che stanno in basso. La velocità mas-
sima è raggiunta dal punto, nella parte
esterna della ruota, che si trova più in
alto, mentre i punti a contatto col suo-
lo hanno velocità minima (zero). Per
le ruote a flange del treno, i cui orli
scendono un poco sotto la rotaia, c'è
persino un breve tratto in cui un punto
del bordo si muove all'indietro. G.K.
Chesterton, in un saggio sulle ruote nel
suo libro Alarms and Discursion para-
gona la ruota a una società ' sana che
abbia « una parte che perpetuamente si
lancia verso il cielo; e una parte che
perpetuamente butta giù la testa nella
polvere ». Egli ricorda ai suoi lettori,
con una caratteristica osservazione alla
Chesterton che « non si può avere una
Rivoluzione senz
Il più geniale tra tutti i paradossi
sulla ruota è stranamente poco cono-
sciuto, sebbene sia stato citato già nella
Meccanica, un trattato greco attri-
buito ad Aristotele ma più probabil-
mente scritto da un suo discepolo. La
e ruota di Aristotele », come viene di
solito chiamato questo paradosso, è
stata oggetto di molti studi ai quali
hanno portato il loro contributo ma-
tematici famosi come Galileo, Cartesio,
Fermat e molti altri. Mentre la ruota
grande della figura in questa pagina ro-
tola da A a fi, il bordo della ruota pic-
cola rotola da C a D lungo la parallela
ad AB. (Se le due linee sono percorsi
effettivi, è ovvio che la doppia ruota
non può rotolare con facilità su en-
trambi. Una può muoversi lungo il per-
corso superiore mentre l'altra scivola
continuamente all'indietro nel tratto in-
feriore, oppure la ruota grande può ro-
tolare sul tracciato inferiore mentre la
piccola slitta in avanti lungo quello su-
periore. Tuttavia non è questo il mo-
mento interessante del paradosso). Si
supponga che la ruota più grossa per-
corra senza attrito il tratto da A a B.
A ogni istante ci sarà un solo punto
della ruota grande a contatto con il seg-
mento AB, e un solo punto della ruo-
ta piccola a contatto col segmento CD.
In altre parole i punti della circonfe-
renza minore possono essere messi in
corrispondenza biunivoca con i punti
di quella maggiore. Nessun punto delle
due circonferenze resta escluso. Que-
sto parrebbe dimostrare che le due cir-
// metodo con cui Galileo affrontò il paradosso della ruota.
conferenze hanno uguale lunghezza.
Il paradosso della ruota di Aristote-
le è strettamente collegato con quello
più noto di Zenone e non è meno pro-
fondo di quest'ultimo. I matematici mo-
derni non hanno più dubbi su di esso
in quanto sanno che il numero di pun-
ti di un segmento qualunque è misura-
to da ciò che Georg Cantor ha chia-
mato aleph-uno, il secondo dei suoi nu-
meri transfiniti. Questo numero rap-
presenta € la potenza del continuo >.
Tutti i punti di un segmento lungo un
centimetro possono essere messi in cor-
rispondenza biunivoca con i punti di
una linea lunga milioni di chilometri,
cosi come con quelli di una linea di
lunghezza infinita. Anzi non è difficile
dimostrare che ci sono aleph-uno pun-
ti in un quadrato o in un cubo di qua-
lunque dimensione, o in uno spazio
euclideo infinito con un numero finito
di dimensioni. Naturalmente i matema-
tici vissuti prima di Cantor non ave-
vano familiarità con le proprietà tipi-
che dei numeri transfiniti, ed è diver-
tente leggere i loro affannosi tentativi
di risolvere il paradosso della ruota.
Galileo affrontò il problema consi-
derando ciò che accade quando al po-
sto delle due ruote si pongano due po-
ligoni regolari, per esempio due qua-
drati
pò che il quadrato mag^iBre rfa^fcflm-
piuto una rotazione completa lungo la
retta AB, i lati del quadrato picco-
lo hanno toccato la retta CD in quat-
tro punti, saltando tre spazi. Se le
ruote fossero pentagonali, il pen-
tagono minore salterebbe quattro spa-
zi per ogni giro completo, e cosi via
per poligoni con numero di lati sem-
pre più grande. Al crescere del nume-
ro dei lati, cresce anche il numero de-
gli spazi saltati, ma ognuno di questi
spazi ha lunghezza sempre minore. Al
limite, se il poligono ha un numero in-
finito di lati, gli spai vuoti saranno in-
finiti, ma di lunghezza infinitamente
piccola. Questi « vuoti » di Galileo non
sono altro che i mistificanti « infinite-
simi » che più tardi resero cosi diffici-
li i primi sviluppi del calcolo.
E ora siamo in un bel pasticcio. Se
gli spazi vuoti lasciati dalla ruota pic-
cola sono infinitamente brevi, perché
la loro somma dovrebbe permettere che
la ruota piccola percorra una distanza
finita mentre la grande si muove lun-
go il suo percorso? I lettori a cui in-
teressi sapere come i matematici più
moderni risposero a Galileo, e dispu-
tarono tra loro, troveranno i particola-
ri negli articoli Aristotle's Wheel: No-
tes on the History of the Paradox di
Israel E. Drabkin (« Osiris », voi. 9,
pag. 162-168, 1950) e The Wheel of
Aristotle and French; Consideration of
Galileo's Arguments di Pierre Costa-
bel («
61, pag. 527-534, 1968).
Quando una ruota si muove lungo
una linea retta ogni punto della sua cir-
conferenza genera la curva nota come
cicloide. (Non tratteremo qui la cicloide,
ne parleremo un'altra volta). Quando
una ruota rotola in modo da essere
sempre tangente internamente a un cer-
chio, i punti della sua circonferenza
generano curve che vengono chiamate
ipocicloidi. Quando essa rotola ester-
La deltoide.
L'asteroide.
L'ipocieloide a « due » cuspidi.
94
95
namente al cerchio, i punti della sua
circonferenza generano delle epicicloi-
di. Sia R/r il rapporto tra il raggio R
della circonferenza maggiore e il rag-
gio r della minore. Se il rapporto R/r
è un numero irrazionale, un punto a
della circonferenza mobile che sia sta-
to a contatto una volta con un punto
b del cerchio fisso, non potrà toccare
più il punto b, anche se la ruota pic-
cola continuasse a girare indefinita-
mente. La curva generata da a avrà
un numero di cuspidi pari a aleph-ze-
ro. Se R/r è razionale, i punti a e b
coincideranno dopo un numero finito
di giri. Se R/r è intero, a e /; si toc-
cheranno dopo un giro completo
Si considerino le ipocicloidi traccia-
te da un cerchio di raggio r che rotola
internamente a un cerchio maggiore di
raggio R. Quando R/r è 2, 3, 4,... i
punti a e b si toccheranno di nuovo
dopo un giro completo e la curva avrà
R/r cuspidi. Per esempio la curva del-
toide (o ipocicloide a tre cuspidi) si ot-
tiene quando R/r = 3 (si veda la figura
in basso a sinistra a pag. 95). La stessa
curva deltoide si ottiene quando R/r è
3/2, quando cioè il raggio del cerchio
mobile è i due terzi di quello del cer-
chio fisso. Tutti i segmenti tangenti alla
deltoide con gli estremi sulla curva.
hanno la stessa lunghezza. Quando R/r
è 4 o 4/3 si ottiene l'ipocicloide a
quattro cuspidi o asteroide (si veda la fi-
gura in basso al centro a pag. 95). I due
rapporti si possono applicare a curve
ipocicloidi di qualunque ordine: quando
R/r è uguale a n o a n/it-l il cerchio
mobile genera una curva con n cuspidi.
Si giunge a un risultato sorprendente
quando R/r è uguale a 2 (si veda la fi-
gura in basso a destra a pag. 95). L'ipo-
cicloide degenera in una retta coinci-
dente con un diametro del cerchio mag-
giore Gli estremi di questo diametro
possono essere considerati come due
cuspidi degeneri. Sapreste descrivere la
Un'asteroide disegnata rome inviluppo di un segmento di linea in movimento.
96
Una cardioide Op-art.
97
forma dell'area descritta da un dato
diametro del cerchio minore? È una
parte di piano limitata da un'asteroide.
In altre parole si può anche dire che
l'asteroide si ottiene come inviluppo di
un segmento che ruota mantenendo i
suoi estremi su due assi perpendicolari,
come è mostrato nella figura a pagi-
na 96.
La più semplice epicicloide, genera-
ta da un punto di una circonferenza
che ruoti toccando esternamente un'al-
tra circonferenza, si ottiene quando le
due circonferenze sono uguali. La cur-
va risultante è a forma di cuore e si
chiama cardioide (si veda la figura in
alto a pag. 97). Tutte le corde che
passano per la cuspide hanno la stessa
lunghezza. La cardioide della figura è
stata disegnata dividendo il cerchio fis-
so (in colore più scuro) in 32 archi
uguali e poi disegnando un insieme di
cerchi i cui centri sono sul cerchio fis-
so e che passano per altri punti di que-
sto cerchio. Questa figura si potrebbe
colorare ottenendo uno splendido esem-
pio di Op-art (si veda la figura in basso
a pag. 97). (Entrambi i disegni sono
di Hermann von Baravalle, Geometrie
als Sprache der Formen, Stoccarda,
1963).
La cardioide è generata anche dal
moto di un punto della circonferenza
di un cerchio che rotola due volte at-
torno a un cerchio più piccolo fisso e
interno a essa e il cui diametro sia la
metà di quello del cerchio maggiore.
Questo procadimento è alla base di un
interessante problema. Si immagini una
ragazza che abbia un giro di vita per-
fettamente rotondo. Intorno alla sua
vita, mentre la giovane rimane immo-
bile, gira un hula hoop con un diame-
tro pari a due volte il diametro della
vita stessa. Quando un punto del cer-
chio, che ha toccato l'ombelico della
ragazza, torna a toccarlo, quanto spa-
zio ha percorso il punto? Dal momento
che la curva tracciata da questo punto
è una cardioide, è come se si chiedesse
la lunghezza della cardioide. Non è dif-
ficile dimostrare che questa lunghezza
è quattro volte il diametro del cerchio
oppure otto volte quello della vita del-
la ragazza.
Quando il diametro del cerchio mo-
bile è la metà di quello del cerchio fis-
so i due cerchi sono tangenti esterna-
mente e l'epicicloide generata è la ne-
froide a due cuspidi (cosi detta perché
ha la forma dei reni) mostrata nella
figura in questa pagina. Questo di-
segno mostra il cerchio che rotola e
illustra anche il metodo per costruire
la nefroide come inviluppo di una fa-
miglia di cerchi tangenti all'asse cen-
trale verticale i cui centri stanno sul
cerchio fisso. Come nel caso preceden-
te, la curva si può ottenere per mezzo
di un cerchio che rotola attorno a uno
più piccolo, fisso e interno a esso;
quindi, quando R/r = 3/2. Questo rap-
porto R/r è lo stesso che si ha per la
deltoide, ma in questo caso è il cerchio
maggiore che rotola attorno al minore.
Sia la cardioide sia la nefroide sono
curve che si possono ottenere come in-
viluppo di raggi luminosi riflessi. La
cardioide si forma quando i raggi han-
no origine in un punto della circonfe-
renza e si riflettono sulla circonferen-
za. La nefroide è prodotta da raggi pa-
ralleli che attraversano il cerchio, o da
raggi la cui origine si trova nella cu-
te nefroide.
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spide della cardioide e che si riflettono
sulla cardioide. Le curve dotate di cu-
spidi, che spesso si vedono sulla su-
perficie del tè o del caffè in una tazza
quando dei raggi luminosi provenien-
ti da una finestra o da un'altra sorgen-
te di luce non troppo vicina colpiscono
obliquamente la superficie del liquido,
forniscono una buona approssimazio-
ne di nefroide cuspidata.
Ci sono svariati e imbarazzanti pro-
blemi che si occupano di « ruote » non
circolari. Per esempio, si pensi a una
ruota quadrata che rotoli senza scivo-
lare su un tracciato formato da una
serie di archi uguali con la parte con-
vessa rivolta verso l'alto. A che tipo di
curva dovrebbe appartenere ogni arco
per fare in modo che il centro della
ruota non oscilli in su o in giù? (In al-
tre parole, si vuole che il centro della
ruota proceda con moto rettilineo).
Questa curva è una curva nota e, stra-
namente, è la stessa di cui ci si serve per
costruire tracciati su cui far rotolare
ruote poligonali con un numero qua-
lunque di lati. La risposta verrà data il
prossimo mese.
Il lettore provi anche a risolvere que-
sto nuovo enigma: qual è quel mezzo
di trasporto che ha otto ruote, porta
solo una persona e non inquina l'at-
mosfera?
T I mese scorso era stato chiesto ai let-
tori di individuare un metodo me-
diante il quale fosse possibile comuni-
care per via radio il significato del ter-
mine « orario » agli umanoidi del Pia-
neta X. Si supponeva che il Pianeta X
fosse in qualche punto della nostra ga-
lassia ma coperto da' dense nubi che im-
pedivano ai suoi abitanti di vedere le
stelle. Si supponeva anche che gli scien-
ziati della Terra e del Pianeta X aves-
sero escogitato ingegnosi codici che
consentivano lunghe conversazioni. Il
problema consisteva nell 'escogitare un
modo di comunicare il significato di
« sinistra » e « destra ».
Potrà sembrare strano, ma fino al
dicembre 1956 non esisteva alcun mo-
do di comunicare una definizione non
ambigua di « destra » e « sinistra ». Se-
condo quella che i fisici chiamano
« legge della parità », tutti i processi
fisici sono reversibili; in altri termini,
possono manifestarsi in entrambe le lo-
ro due immagini speculari. Certi cri-
stalli, come il quarzo e il cinabro, han-
no la proprietà di ruotare il piano di
polarizzazione della luce in una certa
direzione, ma questi cristalli esistono
sia nella forma destra sia in quella si-
nistra. Lo stesso è vero per gli stereo-
isomeri asimmetrici che ruotano il pia-
no di polarizzazione della luce polariz-
zata. I composti organici che si trova-
no nelle forme viventi hanno un solo
tipo di orientazione, ma questo è un
fatto accidentale dell'evoluzione terre-
stre. Non vi sono più ragioni perché
questi composti abbiano su un altro
pianeta la stessa orientazione di quelli
della Terra di quante non vi siano per-
ché ci si possa aspettare che gli uma-
noidi del Pianeta X abbiano il cuore
dalla parte sinistra.
Gli esperimenti elettrici o magnetici
non ci sono di aiuto. È vero che essi
mostrano asimmetrie (per esempio la
« regola della mano destra » per orien-
tare il campo magnetico che circonda
una corrente elettrica), ma è solo una
convenzione che decide quale polo di
un magnete è il « nord ». Se potessimo
comunicare al Pianeta X il significato
di « polo nord », avremmo risolto il
problema; sfortunatamente non si può
far questo se prima non si è stabilito
un accordo sul significato di destra e
sinistra. Mediante codici di impulsi po-
tremmo facilmente trasmettere fotogra-
fie al Pianeta X, ma senza accordo su
destra e sinistra non potremmo essere
certi che non le stampino all'incontra-
rio.
Solo nel dicembre del 1956 fu ese-
guito il primo esperimento che viola-
va la legge di parità. (Per questo espe-
rimento i fisici americani di origine ci-
nese T.D. Lee e C.N. Yang ebbero il
premio Nobel nel 1957). Si è trovato
che certe « interazioni deboli » tra par-
ticelle elementari mostrano una prefe-
renza per un tipo di orientazione, a pre-
scindere da ogni convenzione polo sud-
-polo nord. L'invio dei dettagli di un
esperimento di questo tipo è il solo mo-
do finora noto di comunicare al Piane-
ta X una definizione operativa non am-
bigua di destra e sinistra, orario e an-
tiorario, nord e sud, o di qualsiasi al-
tra distinzione che coinvolga l'orienta-
zione.
Va aggiunto che se il Pianeta X fos-
se in un'altra galassia il problema ri-
marrebbe insoluto. Un'altra galassia
potrebbe per esempio essere fatta di an-
timateria (materia fatta di particelle
con carica elettrica opposta a quelle
che costituiscono la normale materia).
In una galassia di questo tipo l'orien-
tazione delle interazioni deboli sarebbe
probabilmente invertita e, non potendo
sapere di che tipo di materia è fatta
una galassia (la luce non ci può forni-
re questa informazione), gli esperimen-
ti sulla violazione della parità sarebbe-
ro senza valore e non servirebbero per
comunicare il significato di sinistra e
destra.
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