LE SCIENZE
jSCIEYTIFIC
VMBRICW
numero 82
giugno 1975
anno vni
volume xiv
Il Centro di lavorazione pesante nello stabilimento delia Ingcr*
solblland Company a Kuanoke in Virginia è slato probabilmen-
te il primo esempio importante delia fabbricazione di pezzi go*
vernata da calcolatore fCMPMl negli Stali Uniti, Il centro, pro>
gettato e costruito dalla Sundslrand Corporati on, è entralo in
funzione nel 1972. Intorno al sistema di trasferimento dei pezzi
da una macchina utensile a quella successiva (si veda il dia-
gramma del ciclo di lavorazione nel In pagina a fronte) sono in-
stallate sei macchine utensili a controllo numerico: due Fresa*
trici a cinque assi, due fresatrici a due assi e due trapanatrici a
quattro assi. Le sei macelline e il sistema di trasferimento sono
controllati à^ un calcolatore IBM 560/30, A causa dei tre secon*
dì di esposi/Jone necessari per riprendere questa fotografia, Vtm*
magrne del pezzo clic ha appena iniziato il trasferimento risulta
sfocala. Il centro fabbrica una grande quantità, di pezzi impie-
gati nei prodotti della Ingersoll-Rand, principalmente per paran-
chi e argani. Bui supporti circolari sono fìssati i pezzi le cui di-
mensioni massime non oltrepassino i 590 rml Le lavorazioni
comprendono operazioni di fresatura, tornitura, alesatura, ma*
^rbialiira e trapanatura. Il calcolatore può scegliere fra circa 21)0
utensìli dispoeti in caroselli e contemporaneamente disponibili
per il cambio automatico, U centro è controllalo da 3 operatori
e da un supervisore. Per ottenere la stessa produzione un'ottici-
na convenzionale avrebbe bisogno di 3(1 macchine e 31* operai.
Fabbricazione di pezzi
con il calcolatore
Benché non sia stata ancora realizzata una fabbrica completamente
automatizzata, sono stati fatti notevoli progressi nella messa a punto
di sistemi automatici per la fabbricazione «a lotti» di pezzi complessi
di Natban H. Cook
L'evoluzione in atto nella tecnolo-
gia manifatturiera sta aprendo
la porta a un nuovo tipo di fab-
brica, nella quale l'ambiente di lavo-
ro sarà molto migliore» il fabbisogno di
mano d'opera enormemente ridotto, i
materiali grezzi utilizzati in modo più
completo e i prodotti fabbricali a un
costo notevolmente inferiore. Gli svi-
luppi a cui si devono questi migliora-
menti implicano una applicazione più
estesa dei calcolatori per il controllo
e l'azionamento dei sistemi e delle mac-
chine operatrici. Poiché gli sviluppi in
questo campo sono recenti alcuni ter-
mini del problema non sono ancora
conosciuti e mi propongo di illustrarli
in questo articolo.
ÀI livello massimo e più avanzato vi
sono <o vi saranno) sistemi di fabbri-
cazione integrati con calcolatori (CIMS,
dall'inglese Computer-lmegrated Ma-
nufacturing Systems)» Talt sistemi ri-
chiedono la partecipazione coordinata
dei calcolatori a tutte le fasi di lavo-
ro nell'azienda manifatturiera: il pro-
Nel centro di lavora rione pesante della
IngersolbRand ì pezzi da lavorare seguono
il ciclo qui presentato. Il calcolatore può
governare contemporaneamente la fabbri-
cazione di 16 pezzi di tipo diverso. Secon-
do la complessità del pezzo* esso può esse-
re indirizzato verso due o tre delle sei
macchine saltando le altre. Un pezzo nor-
male, per presentare agli utensili tutte le
superaci, non deve essere montato più di
due volte sul supporto, mentre in una
officina convenzionale può essere necessa-
rio montarlo da cinque a quindici volte.
getto del prodotto, la pianificazione
delia sua fabbricazione, la produzione
automatica delle parti, il montaggio
automatico, il collaudo automatico e
naturalmente il flusso dei materiali e
delle parti attraverso rimpianto con-
trollato dai calcolatori. Per quanto si
sappia non esistono ancora sistemi di
questo tipo completamente realizzati;
tuttavia stanno comparendo vari sot-
8
Nel Centro di lavorazione pesante del hi Ingersoll-Rand lo scher-
mò eli presentazione a raggi catodici disposto vicino a ognuna
delle marchine utensili indica il pezzo in lavorazione e quale
fase è stata eseguita dalla macchina nella sequenza delle opera-
zioni stabilite dal calcolatore* ^indicatore che appare nella foto-
grafìa è associato in questo caso a una trapanatrice a quattro assi.
11 carosello per il cambio automatico degli utensili che equipag-
gia ogni macchina Smidstrand nell'impianto Ingersoll-Rand può
contenere uno a 60 utensili diversi» Gli utensili sono scelti in
sequenza da) programma del calcolatore e vengono fissati auto-
maticamente alla macchina in pochi secondi. Gli utensili sono
perpendicolari al carosello anche se nella foto appaiono inclinati.
tosislemi e componenti di questi siste-
mi. In questa sede descriverò un sotto-
sistema chiamato da me e dai colleghi
del Massachusetts Instkute of Techno-
logy « fabbricazione di pezzi governa-
ta dal calcolatore» (CMPM, dall'ingle-
se Compii ter-Managed Parts Manu-
facture),
A Ilo scopo di dimostrare le possibili-
tà della fabbricazione di pezzi go-
vernata da calcolatore verranno anzi-
tutto descritti brevemente i metodi at-
tuali dì fabbricazione. Per semplicità
si prende in considerazione solo la pro-
duzione di parti in metallo come quel*
le impiegate nelle automobili, nelle
macchine lavastovìglie, nei frigoriferi,
negli apriscatole, nei temperamatite, ec-
cetera. Gli americani sono abituati a
pensare alle loro fabbriche come ad
aziende ad alta produttività; Teffic len-
za della produzione in serie fa parte
del loro patrimonio nazionale. Fin dal-
la scuola elementare essi sentono par-
lare di Henry Ford e sono informati
che la loro produttività è la più alta
del mondo in termini di produzione di
beni per ora di mano d'opera prestata
e tendono a credere, con compiacimen-
to, che la loro produttività è forse qua-
si la massima raggiungibile. Ma ciò
non è vero.
Per gli articoli prodotti In serie, ad
esempio i motori per automobili, i si-
stemi americani sono in effetti tan-
to altamente produttivi che per il fu-
turo oggi prevedibile si può pensare
solo a miglioramenti marginali. Però
per gli articoli non prodotti in serie,
come i motori per aeroplani o le pe-
santi e costose macchine per centrali
elettriche, la produttività è così bassa
da essere scoraggiante e quindi la pos-
sibilità di realizzare miglioramenti sen-
sazionali è elevata.
La produzione in serie, nell'uso cor-
rente del termine, si riferisce a un par-
ticolare gruppo di macchine operatrici
progettate di norma per costruire ite-
rativamente lo stesso pezzo nel modo
più efficiente possibile. Se si vuole am-
mortizzare il costo di impianto del
gruppo speciale di macchine dedicate
alla fabbricazione di questo singolo
pezzo è evidente che la produzione an-
nuale deve essere tanto elevata da te-
nere le macchine quasi ininterrotta-
mente in funzione.
Per molti articoli la domanda non è
tale da giustificare la installazione di
macchine speciali e quindi devono es-
sere usate macchine per lavorazioni ge-
neriche, cioè macchine che possono
essere predisposte per realizzare una
grande varietà di pezzi. La maggior
parte delle persone ha una certa fa-
miliarità con le macchine utensili per
lavorazioni generiche come i torni, le
trapanatrici, le fresatrici e simili. Me-
diante attrezzi adatti e operai specia-
lizzati con una serie di tali macchine
si può fabbricare una grande varie-
tà di pezzi, il cui costo però è elevato
in confronto a quello dei pezzi fab-
bricati in grande serie.
Un determinato pezzo può essere rea-
lizzato in diversi modi partendo dalla
fabbricazione mediante macchine per
lavorazioni generiche fino alla fabbri-
cazione con i metodi della produzione
dì serie. La scelta logica del tipo di
macchine da usare dipende principal-
mente dal numero dei pezzi da esegui-
re, numero che può variare da una so-
la unità a milioni di unità all'anno.
Normalmente il costo della lavorazio-
ne alla macchina è funzione della
quantità da produrre. Lavorare una
sola unità con macchine utensili ge-
neriche può costare fino a 100 vol-
te di più di quanto costa fabbrica-
re lo stesso pezzo con i più efficien-
ti metodi della produzione in serie.
Come esempio si consideri un pezzo
complesso prodotto in serie, conosciuto
da chiunque: il monoblocco dì un ti-
pico motore a 8 cilindri a V per auto-
mobile, Nelle condizioni della produ-
zione di grande serie, nella quale il
monoblocco viene trasferito automati-
camente lungo la linea di trasporto da
una stazione di lavorazione alla suc-
cessiva per le varie operazioni (trapa-
natura, maschiatura, alesatura, fresa*
tura, ecc), l'intero costo dì lavorazione
alla macchina (escluso il costo delle
materie grezze, ma inclusi t costi della
mano d'opera e degli attrezzi, il deprez-
zamento del macchinario e l'interesse
sull'investimento) sarebbe dell'ordine di
25 dollari (16000 lire). Tuttavia se si
dovessero costruire solo alcuni mo-
noblocchi speciali con le macchine
Il sistema di fabbrica zi otte per lavorazioni multiple in fase di sviluppo da parie della
Cincinnati Miiacron Inc. impiega un sistema non convenzionale di trasferimento sospe-
so per muovere i pezzi in lavorazione. Nella fotografìa un monoblocco viene convoglia-
to verso un e centro di fabbricazione > a cinque assi a controllo numerilo che cambia
automaticamente le teste portautensili, alcune delle quali portano punte da trapano,
ni 3-i hi per filettare o utensìli di vario genere per l'esecuzione di operazioni simultanee.
io
n
utensili generiche e operai specializzati,
il costo della lavorazione potrebbe fa-
cilmente aumentare da 25 a 2500 dol-
lari o più {da 16000 a J 600 000 lire).
Per produzioni in quantità intermedie
in cui i pezzi vengono fatti « per lotti »
oppure per partite, è tuttora necessa-
rio impiegare le macchine utensili ge-
neriche (che possono essere usate an-
che per Fare altri pezzi); sì può giusti-
ficare, però, un cerio grado di automa-
zione con una corrispondente riduzio-
ne del costo per pezzo di lavorazione
alla macchina.
Si può ora esaminare il problema più
da vicino e domandarsi dove viene spe-
so il denaro per la fabbricazione dei
pezzi. Sebbene l'industria produca in
serie una grande quantità e varietà di
pezzi, il loro costo unitario è basso.
D'altra parte i pezzi « costruiti in un
solo esemplare », sebbene molto co*
stosi, sono anche in numero piuttosto
limitato, Fra questi due estremi ci sono
pezzi di molti tipi che vengono prodot-
ti in lotti; sia i costi sia la quantità di
questi uh imi non sono molto elevati.
È stato valutalo che negli Stati Uniti
fra il 50 e il 75 per cento della spesa
complessiva per la fabbricazione di pez-
zi è relativa ai metodi di fabbricazione
a lotti con ordine di grandezza del sin-
golo lotto pari a 50 unità o anche me-
no. Le partì costruite in questo modo
possono costare da 10 a 30 volte di più
che se fossero prodotte in serie. Quin-
di ciò ha una notevole influenza eco-
nomica: se una parte dell'efficienza
della produzione automatizzata di se-
rie potesse essere utilizzata per la fab-
bricazione a lotti, si avrebbero grandi
possibilità dì risparmio.
IVon deve meravigliare che gli operai
addetti alla fabbricazione per lotti
delle parti metalliche costituiscano cir-
ca il 40 per certo di tutta la forza di
lavoro manufatturiera. Diventa sem-
pre più difficile trovare apprendisti per
le industrie metalmeccaniche poiché
sembra che i giovani preferiscano al-
tri tipi di occupazione, particolarmen-
te nel settore dei servizi. Tale fenome-
no si verifica su scala mondiale; molte
nazioni europee sono già costrette a
importare per l'industria un gran nu-
mero di operai semispecializzati e non
specializzati. Quindi questa è l'area
alla quale ci dedicheremo: il settore
dell'industria manifatturiera per la fab-
bricazione in lotti di parti metalliche.
Di quanto sì riducono esattamente
i costi di lavoro e dì produzione con
l'introduzione del controllo e della ge-
stione mediante calcolatore? La rispo-
sta può essere più precìsa prendendo in
considerazione come si sono sviluppa-
te, nell'arco degli ultimi dieci anni, le
macchine utensili per lavorazioni ge-
neriche mediante Tintroduzione della
tecnologia dei calcolatori.
Nel funzionamento di una macchina
per lavorazioni generiche vi è un cer-
to numero di funzioni che devono es-
sere eseguite o manualmente o auto-
maticamente: 1) trasportare il pezzo
da lavorare fino alla macchina; 2) mon-
tare il pezzo sulla macchina e fissarlo
rigidamente e accuratamente; 3) sce-
gliere l'utensile appropriato e inserirlo
nella macchina; 4) stabilire e regolare
la velocità e altri parametri dì funzio-
namento della macchina; 5) controlla-
re il movimento della macchina met-
tendo l'utensile in condizioni di com-
piere la lavorazione voluta; 6) cambia-
re in sequenza gli utensili, le condizio-
ni e i movimenti fino a completare tut-
te le operazioni eseguibili sulla mac-
china; 7) smontare il pezzo dalla mac-
china. Durante il ciclo di funzionamen-
to della macchina tradizionale per la-
vorazioni generiche (il tornio» la fresa-
trice, il trapano, ecc.) tutte le sette fun-
zioni suddette vengono eseguite dall'o-
peratore (si veda l' Must razione nella
pagina a fronte in alto a sinistra).
Due decenni fa veniva sviluppata al
MIT la prima macchina utensile a con-
trollo numerico. In sostanza la fun-
zione n. 5, il controllo del movimento
della macchina, veniva sottratta all'o-
peratore e resa automatica per mezzo
dell'informazione contenuta in un na-
stro perforato (H veda ['illustrazione
nella pagina a fronte in alto a destra).
Attualmente esistono macchine a con-
trollo numerico con vari gradi dì com-
plessità a seconda del numero di assi
(movimenti) controllati e se viene veri-
rificata solo la posizione finale (funzio-
namento point-to*point) o è prescrìtta
l'esecuzione di un profilo continuo. La
macchina più semplice di questo tipo è
una «trapanatrice poìnt-to-point a due
assi » nella quale la tavola portapezzo
può essere posizionata automaticamen-
te solo nel piano orizzontale (x-y). La
macchina più complessa è una «fresa-
trice a cinque assi » nella quale vengo-
no controllati in modo sincrono e con-
tìnuo tre movimenti lineari (x-y-z) e
due rotazioni angolari per produrre
pezzi scolpiti con profili complessi Tali
macchine sono largamente usate nella
costruzione di cellule per aerei
Lo sviluppo delle macchine a con-
trollo numerico ha rappresentato un
importante progresso tecnico perché di
solito le altre funzioni richiedono mol-
to meno addestramento e abilità da
parte dell'operatore. Con l'aumentare
del numero di macchine a controllo nu-
merico installate, si è originato un ti-
po di lavoro assolutamente nuovo e al-
tamente specializzato, quello del pro-
grammatore di pezzi la cui funzione
è dì trasferire il disegno tecnico di un
pezzo su nastro perforato il quale poi
governa la macchina per produrre ìl
pezzo stesso.
TI risultato più importante che si è
avuto dopo quello delle macchine a
controllo numerico è stato Tintrodu-
zione dei sistemi con cambio automati-
co dell'utensile (ATC, dall'inglese Au-
tomatic Tooi-Changing), che sottrae
all'operatore la funzione ÈL 3 (sì veda
r illusi razione in basso a sinistra nella
pagina a fronte). Questo tipo di siste-
ma fornisce a una macchina utensile
automatica, per esempio una fresa-
trice a tre assi a controllo numerico,
la possibilità di immagazzinare, sele-
zionare e cambiare gli utensili da ta-
glio mediante comandi registrati su na-
stro perforato, Queste macchine, chia-
mate spesso centri di lavorazione, han-
no raggiunto uno sviluppo che consen-
te a una singola macchina di incorpo-
rare una batteria di 60 utensili che pos-
sono essere cambiati in pochi secondi,
Il passo successivo nello sviluppo
delle macchine a controllo numerico è
stato la sostituzione dell'informazione
contenuta in un nastro perforato con
una memoria a dischi magnetici o con
organi di memoria per calcolatori dan-
do luogo a un sistema dì controllo nu-
merico mediante calcolatore (CNC\
d a 1 T i ng I ese Co m pu ter- Nume rìcai-Con -
troi). Questo progresso (si veda l'illu-
strazione nella pagina a fronte in bas-
so a destra) ha reso molto più facile re-
digere e modificare i programmi per
la costruzione delle parti: ha reso inol-
tre possibile al calcolatore di adem-
piere a molte funzioni ausiliarie come
la preselezione dell'utensile successivo
richiesto e averlo già pronto al momen-
to in cui occorre. Quando una batte-
ria di macchine viene posta sotto il
controllo di un solo calcolatore ne ri-
sulta un sistema conosciuto come con-
trollo numerico diretto (DNC, dall'in-
glese Direct Numerica? Control). Ov-
viamente questo sistema aumenta Tuli*
lizzazione dei calcolatori.
Si possono ora esaminare le carat-
teristiche e le possibilità di un siste-
ma di fabbricazione di pezzi governato
da calcolatori. In un sistema CMPM,
un certo numero di macchine sono
connesse fra loro non solo tramite un
calcolatore di controllo comune, ma
anche mediante un sistema di cari-
co/scarico e dì trasferimenti dei pezzi
[sì veda Vili astrazione a pagina 15). Ol-
tre alla manutenzione delle macchine
e degli utensili Tunica attività dell'ope-
ratore è di installare \ pezzi da lavora-
re su supporti speciali (carico) e d:
rimuovere i pezzi finiti (scarico), Do-
INFORM AZIONE
e
MACCHINA
PEZZI
Le macchine per lavorazioni generiche, per esempio un tornio,
o una trapanatrice, richiedono le prestazioni di nn operatore spe-
cializzato. Il suo lavoro consiste nel caricare la macchina, sce*
gli ere gli utensili appropriati e provvedere alle necessarie rego-
lazioni deUa macchina per compiere il lavoro voluto. Di solito
le istruzioni sono inferite nel disegno di produzione del pezzo.
NASTRO
INFORMAZIONE
PEZZI
11 passo successivo per aumentare la produttività delle macchine
utensili per lavorazioni generiche è stato il cambiamento auto*
malico degli utensili. In questo sistema il nastro perforato con-
tiene anche le informazioni per scegliere da una batteria di uten-
sili, che varia da 20 a 100, quello appropriato. Il tempo ore or*
rente per il cambio dell'inondile può essere di soli due secondi»
f UTENSILI j
NASTRO
INFORMAZIONE
MACCHINA
PEZZI
La macchina utensile a controllo numerico, sviluppata al Massa-
chusetts Insti tu te ol Tecnology, solleva l'operatore dal lavoro
dì interpretare il disegno di produzione per stabilire le regola-
zi oni della macchina, il cui movimento è controllato dalle istru-
zioni contenute in un nastro perforato* L'operatore deve tuttavia
scegliere ancora gli utensili e caricare e scaricare la macchina.
Ne] controllo numerico mediante calcolatore l'i mm a ga zzi na men-
to deirinformazione è trasferito da un nastro perforato alla più
ampia e flessibile memoria di un calcolatore. Questo cambiamen-
to non solo rende più facile compilare e modificare ì programmi,
ma consente anche di utilizzare il calcolatore per altri compiti
come la registrazione della durata d'impiego di ogni utensìle.
po che il pezzo da lavorare è stato in-
stallato e ne è stato informato il cal-
colatore, quest'ultimo ne assume il con-
trollo e avvia il pezzo alle macchine
occorrenti, sceglie gli utensili adatti,
esegue le opportune operazioni e a la-
vorazione finita restituisce il pezzo al-
l'operatore per lo scarico. Tutte le set-
te funzioni richieste sono state auto-
matizzate con il risultato che l'opera-
tore serve un sistema di macchine an-
ziché una sola macchina.
Questo sistema è molto adatto per il
settore industriale preso in considera-
zione: la fabbricazione di pezzi in pic-
cole serie, I pezzi sono prodotti in lot-
ti a causa dei costi della « messa a
punto » e di quelli occorrenti per attrez-
zare la macchina affinché passi dalla
fabbricazione del pezzo A a quella del
pezzo E, I dispositivi di fissaggio, che
permettono alla parte A di essere assi-
curata perfettamente alla macchina,
devono essere sostituiti da altri idonei
per la parte B; gli utensili per la par-
te B devono essere estratti dal « ma-
gazzino degli utensili » e inseriti al po-
sto di quelli usati per la parte A\ in-
fine la macchina deve essere fatta fun-
zionare e i pezzi prodotti devono es-
sere verificati attentamente per assicu-
rarsi che tutto è in ordine. Ovviamente
se viene costruito solo un piccolo
lotto di pezzi, i costi unitari di messa
a punto sono elevati Se invece vie-
ne costruito un grande lotto i costi di
messa a punto sono bassi, ma risulta-
no elevati quelli del successivo magaz-
zinaggio. Ne consegue che esiste una
dimensione ottimale del lotto per ogni
pezzo particolare. Tuttavia in un si-
stema di fabbricazione di pezzi gover-
nata da calcolatore, ri concetto abitua-
le della dimensione economica del lot-
to non è applicabile perché ì costi di
12
13
messa a punto sono estremamente bas-
si. Può convenire lavorare anche un
«lotto» composto di un unico pezzo,
Se i lotti sono esigui diventa quasi tra-
scurabile il costo di magazzinaggio di
parti finite o in corso di lavorazione.
IVon c'è bisogno di mettere in eviden-
za che i sistemi di fabbricazione
di parti governati da calcolatore richie-
dono una quantità di lavoro diretto
considerevolmente minore dei sistemi
di fabbricazione più convenzionali, I
dati, per quanto ancora limitati, indi-
cano che un sistema CMPM richiede
solo dal 10 al 30 per cento del lavoro
diretto occorrente in un'officina con-
venzionale di capacità equivalente. Sen-
za dubbio è anche vero che le macchi-
ne per la fabbricazione di parti dirette
da calcolatore sono più complesse e
costose dì quelle convenzionali. Può il
lavoro risparmiato compensare il loro
maggior costo? Per rispondere a que-
sta domanda si deve ricordare che una
macchina per lavorare il metallo è
produttiva solo nei periodi in cui il
truciolo viene effettivamente asportato,
mentre non è produttiva quando è fer-
ma, quando viene attrezzata per pro-
durre un pezzo diverso, quando i pez-
zi vengono caricati e scaricati o men-
tre vengono sostituiti gli utensìli. An-
che se le stime differiscono fra loro, la
macchina utensile comune in un'offi-
cina convenzionale taglia ìl metallo
solo dal 3 al 10 per cento del tempo,
mentre in un sistema CMPM il tem-
po di taglio del metallo può essere del
50 per cento o anche più. È questa
utilizzazione di gran lunga maggiore
che compensa il costo più elevato della
macchina singola. Si prevede che per
una determinata capacità produttiva
l'investimento di capitale richiesto per
un sistema CMPM altamente sofistica-
to non sarà maggiore di quello occor-
rente per un'officina più convenzionale.
In aggiunta ai sicuri risparmi nei eo-
sti di lavoro si può contare su notevo-
li economie per le minori scorte dì ma-
gazzino. Un numero molto minore di
pezzi, sia in lavorazione sia finiti, sa-
rà a in attesa » o della successiva la-
vorazione o dell'assemblaggio. Come
risultato si prevede una riduzione del
costo complessivo di un fattore fra
cinque e dieci; in altri termini una ri-
duzione di costo dairSO al 90 per cento.
Sebbene i sistemi CMPM siano solo
ora in corso di realizzazione ne sono
stati installati alcuni prototipi per la
CALCOLATORE
Il controllo numerico diretto pone sotto il controllo dì un unico calcolatore una serie
dt macchine, che possono essere dì tipo diverso e programmate per lavori differenti.
Il sistema può avere o non avere la possibilità del cambio automatico degli utensili.
produzione o a scopi dimostrativi. Il
sistema forse più ambizioso di tutti (e
anebe quello sul quale è molto difficile
ottenere informazioni) è in funzione a
KarKMarx-Stadt nella Germania Orien-
tale. 11 sistema, installato in uno spe-
ciale edificio ad aria condizionata gran-
de quanto due campi di calcio, impie-
ga motori a induzione lineare per tra-
sferire i supporti di lavoro, sospesi su
cuscini d'aria. Questo sistema può la-
vorare pezzi con dimensioni massime
di l X l X 1,6 metri.
Il sistema CMPM che è stato proba-
bilmente più a lungo in esercizio negli
Stati Uniti è il Centro di lavorazione
pesante nello stabilimento Ingersoll-
-Rand a Roanoke in Virginia. Costrui-
to dalla Sundstrand Corporation, rim-
pianto ha sei macchine disposte intor-
no a un sistema di trasferimento chiu-
so (si vedano le illustrazioni alle pagi-
ne 8. 9 e 10). Il sistema è in grado
di fabbricare circa 500 pezzi completa-
mente diversi e può accettare contem-
poraneamente lino a sedici pezzi di for-
ma diversa sia per essere lavorati alla
macchina, sia in attesa di essere lavo-
rati, sia sul sistema di trasferimento.
Nell'attuale configurazione il sistema
comprende circa 500 utensili, 200 dei
quali disposti simultaneamente nei ca-
roselli per il cambio automatico degli
utensili. L*intero sistema, che si può
considerare come il sostituto di una
officina tipica con 30 macchine e 30
operai, è fatto funzionare da una squa-
dra composta da tre persone e da un
supervisore.
Alcuni dei più notevoli progressi nel-
la produzione automatica di pezzi in
piccole serie sono stati incorporati nel
sistema di fabbricazione per lavora-
zioni multiple attualmente in fase di
sviluppo da parte della Cincinnati Mi-
lacron Inc. (si veda l'ili tu; trazione a pa-
gina ìl). Questo sistema ha non solo
le caratteristiche generali della fab-
bricazione di pezzi governata da calco-
latore già viste in altri sistemi, ma prov-
vede anche alla lavorazione di pez-
zi di piccolo volume con un ritmo più
alto di quello ottenibile con le mac-
chine convenzionali a controllo nume-
rico. Per esempio, un ingegnoso «cen-
tro di fabbricazione » a cinque assi
cambia automaticamente gruppi di u-
tensili montati su un'unica testa in
modo da effettuare simultaneamente
un certo numero di operazioni. Il si-
stema della Cincinnati Milacron con-
sente, per mezzo di un nuovo metodo
per il trasporto sospeso dei pezzi da la-
vorare, una manovra efficiente del flui-
do di taglio e dei trucioli, oltre a un
facile accesso per le verifiche e la
manutenzione.
Quanto detto finora si riferisce alla
14
descrizione della fabbricazione di pez-
zi governata da calcolatore e al suo at-
tuale stadio di sviluppo. Cosa riserba
il futuro? A questo punto si devono
sostituire le opinioni personali alla de-
scrizione dei fatti. Se per i sistemi
CMPM si possono prevedere riduzioni
di costi fino air80 per cento, perché i
sistemi in esercìzio sono così pochi?
I motivi sono di due tipi: tecnologici
ed economici.
Il principale motivo economico è che
finora non si è completamente sicuri
di quanto si possa risparmiare nelle va-
rie branche dell'industria con la fab-
bricazione di pezzi governata da cal-
colatore. Come si è visto, sì valuta che
per il 50-75 per cento tutti i pezzi fab-
bricati alla macchina costituiscono lot-
ti di 50 unità o meno e quindi adat-
ti a essere prodotti con la fabbrica-
zione governata da calcolatori. Comun-
que non si conosce quale sia l'inciden-
za del fattore economico. 1 sistemi esi-
stenti sono stati giustificati per la fab-
bricazione di specìfiche serie di pezzi e
la giustificazione ha incluso una no-
tevole quantità di fiducia. I sistemi
CMPM sono dispendiosi: possono co-
stare milioni di dollari, À meno che
non si possa provare con la ricerca e
le dimostrazioni che i sistemi CMPM
sono davvero economici, affidabili e su-
scettibili di future modifiche nella va-
rietà e quantità di prodotti, poche so-
cietà saranno disposte ad assumere il
rischio finanziario richiesto per sco-
prirlo in proprio.
I motivi tecnologici della lenta ado-
zione dei sistemi CMPM sono soprat-
tutto collegati allo sviluppo dei siste-
mi di calcolatori e dei programmi per
il loro funzionamento. Quantunque
singole società abbiano creato sistemi
funzionanti in modo soddisfacente, per
quanto si sappia nessuno di questi ha
la completa versatilità operativa ne-
cessaria per garantire la massima pre-
stazione da parte di un sistema CMPM.
Dal punto di vista del mercato degli
Stati Uniti sembra troppo dispendioso
per ciascun fabbricante di macchine
utensili che pensi di entrare nel mer-
cato CMPM sviluppare completamente
un proprio sistema brevettato. È opinio-
ne, quindi, dell'autore che se i costi va-
lutati del CMPM sono sufficientemen-
te esatti e se si realizzano le speran-
ze degfi Stati Uniti di mantenere la
produzione a livelli più alti di quelli
delle altre nazioni, si dovrà preparare
un programma nazionale per lo svi-
luppo della fabbricazione di pezzi go-
vernata da calcolatori con lo scopo fi-
nale di realizzare sistemi dì fabbrica-
zione totalmente integrati da calco-
latori.
CALCOLATORE
La fabbricazione di pezzi governala da calcolatore è la fase più recente dell'applica-
zione della tecnologia del calcolatori per ridurre il costo della lavorazione di pezzi in
piccole serie. Siccome la memoria del calcolatore contiene tutte le informazioni neces-
sarie per lavorare un pezzo alla macchina utensìle, un <: lotto s può essere composto an*
che di una sola unità. Il sistema qui descritto è sostanzialmente lo stesso di quello ini*
piegato nel Centro di lavorazione pesante della Ingersoll-Rand di Hoanoke in Virginia.
15
Micro fotografi a detironicu di nucleo di cellula epatica di topo,
effettuata da David E. Cominga e Tadaahi Okada del City of
Hope Medicai Center, Il nucleo, delimitato da una doppia mem-
brana, è riempito di cromatina, il materiale che svolge le funzio*
ni genetiche e di controllo della cellula. Nella cromatina, il
materiale genetico I DNA) forma un complesso con le proteine
la cui funzione è apparentemente quella di regolare l'attività dei
16
geni, 11 materiale scuro vicino alla membrana e in altri punti
della cellula è cromatina «addensata», che sta sintetizzando
KN\. Il niairriale granulare fine che è visibile nella metà sinistra
del nucleo è costituito da granuli di RNA riurtiti per formare un
complesso con le proteine* La grossa struttura scura, visìbile vi-
cino al centro, è il nucleolo, una zona di cromatina speciali zzala,
li preparato risulta ingrandito 22 000 volte nella mi crof olografia.
Proteine dei cromosomi e
regolazione genica
La funzione delle proteine nei nuclei degli organismi superiori
sta per essere chiarita. Sembra che gli istoni mantengano i geni
disattivati e le proteine non istoniche li attivino selettivamente
dì Gary S. Stein, Jauet Swinebart Stein e Lewis J. Kleinsmith
Come è ben noto* i geni che tra-
smettono l'informazione eredi-
taria di generazione in generazio-
ne e dirigono il funzionamento di ogni
cellula vivente sono costituiti da DNA.
Nelle cellule degli organismi superiori
i geni sono disposti sui cromosomi,
ma questi sono in realtà nucleoprotei-
ne, cioè complessi di acidi nucleici e
di proteine. Se il materiale genetico è
soltanto DNA, qua! è allora la fun-
zione delle proteine cromosomiche?
Sembra che esse svolgano un compito
importante nel mantenere costante la
struttura del materiale genetico e nel
regolare l'attività dei geni, cioè nel de-
terminare quali geni in ogni cellula
vengono attivati e quando. 11 controllo
da parte dei geni è un fatto chiave in
processi come il differenziamento, lo
sviluppo embrionale e l'azione ormo-
nale e in processi abnormi come la
proliferazione cancerosa, le malattie
metaboliche e quelle malattie congeni-
te che sono correlate all'espressione
dell'informazione genetica. In questa
sede intendiamo interessarci in primo
luogo dell'attività regolatrice delle pro-
teine cromosomiche, un campo d'inda-
gine che ha cominciato a fornire risul-
tati significativi negli ultimissimi anni.
L'attività regolatrice dei geni
L'informazione genetica di una cel-
lula è codificata nelle sequenze nucleo-
tidiche che costituiscono il DNA. Per
utilizzarla, la cellula trascrive tati se-
quenze in filamenti complementari di
RNA che sono poi « tradotti » in ca-
tene di amminoacidi, che a loro volta
formano le proteine. Il controllo della
attività genica risiede nella selettività
della trascrizione sia nel tempo, sta
nello spazio. Nello sviluppo embrionale,
per esempio, un singolo uovo fecon-
dato contenente tutti i geni dell'orga-
nismo prolifera così da dare un'ampia
varietà di cellule differenziate, che so*
no specializzale per compiere diverse
funzioni. Nel corso dello sviluppo cen-
tinaia di migliaia di geni vengono at-
tivati e disattivati. Inoltre in ogni tipo
di cellula definitiva viene trascritta» o
espressa, solo una certa combinazio-
ne di geni, in base alla funzione spe-
cifica di quel tipo cellulare: nei globuli
rossi può trattarsi dell'attività del ge-
ne che codifica per l'emoglobina; nelle
cellule muscolari di quella del gene
per la mioglobma; nei fibroblasti di
quella del gene per il collagene, la pro-
teina del tessuto connettivo. E pur tut-
tavia, per quanto si può dire, il DNA
è sempre lo stesso in ognuno di questi
tipi dì cellule specializzate. La costan-
za del DNA in tutte le cellule di un
determinato organismo è stata stabili-
la per la prima volta nel 1948 ed è
stata confermata ripetutamente. La
verifica più elegante è venuta dagli
esperimenti dì J.B. Gurdon del l'Uni-
versi là di Oxford. Questo ricercato-
re ha trapiantato nuclei dì cellule in-
lestinali differenziate dì rana in uova
di rana i cui nuclei erano stati rimossi:
le uova si sono sviluppate normalmen-
te. Risultati del genere dimostrano che
i nuclei delle cellule intestinali e di
tutte le altre cellule differenziate della
rana contengono l'in formazione gene-
tica totale della rana, anche se soltanto
una porzione limitata di essa viene
espressa.
Anche all'interno di una data cellu-
la differenziata, una certa parte del-
l' informazione si esprime in un deter-
minato momento e rimane inespressa
in altri. L'espressione si può modificare
quando le cellule in riposo sono atti-
vate per dividersi oppure quando sono
stimolate da ormoni specifici: in ambe-
due i casi sì effettuano nel metaboli-
smo della cellula complessi cambia-
menti, in seguito all'innesco del pro-
gramma genetico insito nella cellula
stessa. In generale, in qualsiasi mo-
mento, si esprime meno del 10 per cen-
to del totale dell'informazione genetica.
Meccanismi regolatori specifici attiva-
no e disattivano per la trascrizione re-
gioni particolari del genoma, cioè una
intera serie di geni, a mano a mano
che cambiano le necessità della cel-
lula.
Nei batteri, che mancano di un nu-
cleo e in cut il genoma è considerevol-
mente meno complicato di quello degli
organismi superiori» è stato compiuto
un progresso sostanziale verso il chia-
rimento del meccanismo della regola-
zione. Nel colibacillo Escherìchìa coli
si è dimostrato che la trascrizione delle
singole sequenze genetiche in RNA è
governata dal fatto che regolatori spe-
cifici si legano e si distaccano in deter-
minati siti del DNA. Nelle cellule del-
le piante e degli animali superiori il
materiale genetico è più complesso,
da un punto di vista sia strutturale, sia
funzionale, 11 DNA è contenuto all'in-
terno di un nucleo delimitato da mem-
brana e, in questa sede, è unito a pro-
teine e a un piccolo quantitativo di
RNA per formare quella sostanza com-
plessa che se chiama cromatina o, nel-
la sua forma più organizzata, cromo-
soma. Finora, in queste cellule dotate
di nucleo, o eucariote, non sono sta-
le ancora identificate proteine regola-
trici specifiche, ma l'evidenza depone
in favore del molo di elementi regota-
tori delie proteine cromosomiche.
Gli istoni
Da un punto di vista storico, le pro-
teine cromosomiche sono state suddi-
vise in due gruppi: gli istoni e le pro-
teine non istoniche. Gli istoni sono de-
finiti nel modo migliore dalle loro pro-
prietà chimiche: si tratta dì proteine
con una carica positiva, riccamente do-
tate di amminoacidi basici arginina e
17
®
lisina e completamente prive dell'am-
minoacido triptoFano. A causa della
loro natura basica, possono essere fa-
cilmente estratte con acido cloridrico
o solforico diluito. Si possono frazio-
nare in c:r>que classi principali, la mag-
gior parte delle quali è presente in tut-
te le cellule eucariole. Gli istoni fu-
rono scoperti alla fine del XIX secolo,
ma fu solo nel 1943 che Edgar e El-
len Stedman, che allora lavoravano al-
l'Università di Edinburgo, attirarono
l'attenzione su dì essi come possibili re-
golatori. I dati degli Stedman fecero
intra wedere la possibilità che i tes-
suti in fase di attivo accrescimento
contenessero meno istori! dei tessuti
che si trovavano in altre fasi; i due ri-
cercatori ritennero quindi che gli isto-
ni funzionassero da repressori, o ini-
bitori, dell'attività biologica. Essi eb-
bero ragione di postulare una fun-
zione inibitrice per gli isioni, ma la lo-
ro conclusione era basata su misure
del contenuto istonico che in seguito
sono risultate imprecise; oggi sappiamo
che il contenuto in istoni delle cellu-
le attive e inattive è identico.
I primi studi decisivi di biochimica
sugli effetti degli istoni a carico del-
la funzione del DNA sono stati intra-
presi agli inizi degli anni sessanta, do-
po che furono sviluppati sistemi acel-
lulari per la sintesi dell'RNÀ, Tn tali
sistemi viene fornito DNA o cromati-
na che fungono da stampo perla trascri-
zione in provetta dell 1 RNA > Altri com-
ponenti della miscela di reazione sono
i precursori delle subunìtà dell'RNA e
la RNA polimerasi, l'enzima che ca-
talizza la polimerizzazione di tali sub-
unità nei filamenti deirRNA. Nel 1962,
Ru-chih Huang e James Bonner del
California Tnstitute of Technology
hanno dimostrato che, aggiungendo
istoni a un simile sistema acellulare,
si inibisce la sintesi dell'RNA (la mas-
sima inibizione della sintesi dell'RNA
è stata osservata con un rapporto isto-
n e/DNA di 1:1:, che è pressappoco il
rapporto in cui ì due composti chimici
UOVO FECONDATO
GENE PEH IL COLLAGENE
GENE PER L'EMOGLOBINA
GENE PER LA PROTEINA
DEL CRISTALLINO DELL'OCCHIO
GENE PER LA MI0GLQ8INA
RBROBLASTO DELLA CUTE GLOBULO HOSSO IN VIA DI SVILUPPO
CELLULA MUSCOLARE
CELLULA DEL CRISTALLINO
DELL'OCCHIO
COLLAGENE
EMOGLOBINA
RNA MESSAG
MIOGLOBINA
RMA MESSAGGERO
i
PROTEINA DEL CRISTALLINO
DELL'OCCHIO
Viene qui esemplificata la regolazione genica nel cofso dello svi*
luppo. Innovo fecondato (in alto) contiene tutta l'i n formazione
genetica dell'organi fimo, codificata nel DNA; si tratta dei geni
per le quattro importanti proteine qui indicate e per migliaia
di altre proteine, L'uovo si divide e le cellule proliferano e si
differenziano {frecce tratteggiate) in cellule spedulizzate appar*
lenenti a vari tessuti. Ogni cellula differenziata contiene tutti I
geni dell'organismo, ma questi sono regolati in modo che in ogni
cellula solo quelli adatti per le funzioni specifiche sono atti-
vati, trascrìtti in RNA messaggeri e quindi tradotti in proteine.
si trovano normalmente nel nucleo).
Il processo di inibizione diviene rever-
sibile per aggiunta di un altro DNA, il
che dimostra che gli istoni bloccano la
trascrizione legandosi al DNA piutto-
sto che inibendo Ja RNA polimerasi,
Airincirca nella stessa epoca, Vincent
G. Allfrey e Alfred E. Mirsky della
Rockefeller University hanno dimostra-
to che la rimozione selettiva degli isto-
ni da nuclei isolati aumenta la velo-
cità della sintesi di RNA. Ambedue
i tipi di esperimenti hanno portato al-
la conclusione che gli istoni normal-
mente funzionano inibendo la capaci-
tà dei geni dì essere trascritti neirRNA.
È subito parso evidente che gli isto-
ni sono implicati anche nella determi-
nazione delle proprietà strutturali del-
la cromatina. In particolare la loro
aggiunta aumenta la stabilità della
doppia elica del DNA. Questo fatto
fornisce una chiave su una delle fun-
zioni biologiche degli istoni, in quan-
to ti serrarsi della doppia elica potreb-
be interessare la disponibilità, o esposi-
zione, delle sequenze nucleotiche che
vengono trascritte in RNA.
Un altro aspetto del metabolismo de-
gli istoni che fa pensare alla loro fun-
zione biologica è il rapporto tra sin-
tesi degli isioni e replicazione del DNA.
Prima che una cellula si divida in due
cellule figlie, tutto il suo DNA deve
essere duplicato in modo che ogni cel-
lula figlia possa ricevere una copia
compieta dell'informazione genetica.
La sintesi del DNA è limitata a un pe-
riodo ben definito del ciclo vitale del-
la cellula (la fase S) ed è strettamente
accoppiata alJa sintesi degli istoni.
Thaddeus Borun, Elliot Robbìns e Mat-
thew D, Scharflf dell'Albert Einstein
College of Medicine e Gerald C Muel-
ler della Università del Wisconsin han-
no dimostrato che istone e DNA sono
sintetizzati simultaneamente e che la
inibizione della replicazione del DNA
è accompagnata da un immediato ar-
resto della sintesi del listone. Lo stret-
to appaiamento della sintesi del DNA
con quella del Pistone trova appoggio
anche in esperimenti che indicano co-
me gli RNA messaggeri che codificano
per gli istoni siano associati agli orga-
nelli cellulari deputati alla sintesi pro-
teica e tradotti in proteine solo nel
momento in cui viene sintetizzato il
DNA. (Ciò significa che, se soltanto
limitate regioni del genoma devono
essere trascrìtte in una data cellula
e in un dato momento, gli istoni devo-
no essere immediatamente disponibili
per poter reprimere i segmenti del
DNA appena replicati, che devono ri-
manere inespressi.)
A parte la sintesi di nuove molecole
di istone, l'interazione degli istoni con
CROMATINA
DNA (1}
PROTEINA
(1.5-2.5)
ESTONE (1)
RNA (0.05)
PROTEINA
NON ISTONICA
(0.5-1.5)
La cromatina, il complesso materiale presente nel nucleo delle cellule degli organismi
superiori* è costituita da DNA, da proteine e da una piccola quantità di RNA. Vi sono
due categorie di proteine: gli istoni e le proteine non isioni che. Le cifre indicano le
quantità relative di ogni costituente della cromatina. Questa contiene all'incirca la stessa
quantità di istoni e di DNA mentre il rapporto con le proteine non (atoniche è diverso.
il DNA può essere alterata dalla mo-
dificazione dì istoni già esistenti. Vi so-
no reazioni enzimatiche che modifica-
no la struttura istonica mediante la
aggiunta di gruppi acetato, metile e
fosfato. L'esatto significato di queste
reazioni non è ancora noto, ma è sta-
to dimostrato da Allfrey e collabora-
tori che Tacetilazione defissione è cor-
relata al livello generale della sintesi
di RNA; la fosforinone di certi isto-
ni, come ha osservato G. Roger Chalk-
ley dell'Università dello lowa, è corre-
lata alla velocità di divisione della cel-
lula. Tali reazioni possono essere im-
portanti nel controllo dell'attività glo-
bale e della struttura del genoma.
Tutto sommato, è chiaro che gli isto-
ni sono implicati nel mantenimento
della struttura cromatinica come pure
nella repressione della sintesi di RNA
DNA-dipendente. Cionondimeno, pa-
recchie serie di prove suggeriscono che
gli isioni hanno un'uniformità e una
conseguente mancanza di specificità,
che precludono la loro capacità di rico-
noscere e di influire su particolari gè-
RELATIVAJ
DI RMA (VELOCITA
SINTESI
0,5 1 1,5
ISTONE AGGfUNTO (MlCROGRAMMI
PER MICROGHAMMQ DI DNA)
ni. In una data cellula analoghe quan-
tità di htoni sono inoltre presentì nel-
le regioni attive e inattive dei genoma,
cioè nella cromatina « dislesa », che
sta sintetizzando attivamente RNA, e
nella cromatina « condensata », che
non sta sintetizzando RNA. Nei nu-
clei di certe cellule di larve d'insetto,
le regioni del genoma che stanno ef-
fettuando la sintesi dell'RNA sono di-
stese a costituire degli ammassi (puff)
relativamente voluminosi, Hewson
Swift delF Università di Chicago ha
misurato il rapporto istone/DNA neìle
regioni inattive e in quelle con puff e
ha trovato che è sempre lo stesso. For-
se la prova più sorprendente della man-
canza di specificità degli istoni è data
dal confronto effettualo tra le sequen-
ze ammìnoacidiche di una stessa fra-
zione istonica in due tipi molto diver-
si di cellule, quelle delle pianticelle di
pisello e quelle del timo di vitello:
è risultato che esse differiscono sol-
tanto per due amminoacidi. Sembra
chiaro dunque che gli istoni sono mo-
lecole regolatrici implicate nel control-
ai
<
O
o
_J
Ili
>
<
z
ce
Q
TEMPO
L'effetto inibitorio degli istoni sull'attività dei geni è stato dimostrato per la prima
volta negli anni sessanta. Ru-chih Huang e James Bonner del California Insti tute of
Technology hanno trovato (a sinistra) che in sistemi aeelhilari gli istoni inibiscono la
sintesi dell'RNA, Vincent G. Allfrey e Alfred E. Mirsky della Rockefeller University
hanno dimostralo {a destra* che la velocità con cui procede la sintesi dell'RNA è mag*
aiore nei nuclei privati degli istoni (in colore) rispetto ai nuclei di controllo (in nera).
18
19
Io della trascrizione genica. Tuttavia
devono esserlo in un senso non spe-
cifico.
Proteine non istoniche
Nella ricerca di molecole con capa-
cità di regolazione dì geni specifici, l'at-
tenzione è stata puntata di recente
sulle proteine non istoniche dei cro-
mosomi, che possono essere definite
semplicemente come proteine associate
con la cromatina, diverse dagli istoni.
Come questi ultimi, esse vengono sin-
tetizzate al di fuori del nucleo, nel ci-
toplasma. Mentre poi gli istoni» subi-
to dopo essere stati sintetizzati, vengo-
no trasportati nel nucleo e associati
con il DNA, studi effettuati nei no-
stri laboratori presso il collegio di me-
dicina dell'Università della Florida e
presso l'Università del Michigan hanno
dimostrato che, per le proteine non
istoniche, il quadro è un poco più com-
plesso. Una parte di queste proteine si
associa con il DNA subito dopo la sin-
tesi, ma trascorrono vari periodi dì
tempo prima che altre proteine non
istoniche appaiano tra i componenti
della cromatina. Come gruppo» le pro-
teine non istoniche mostrano una velo-
cità di ricambio superiore a quella de-
gli istoni, con una notevole variazione
della durala delle singole frazioni non
istoniche: alcune hanno una vita di
minuti e altre sono stabili perlomeno
come il DNA cellulare e gli istoni. Non
è chiaro se, abbandonando la loro as-
sociazione con il DNA, esse sono de-
gradate oppure entrano a far parte di
un fondo comune di proteine nel nu-
cleo o nel citoplasma. Ciò che è chia-
ro è che, se da una parte sembra che
gii istoni e il DNA costituiscano com-
ponenti permanenti del genoma, le pro-
teine cromosomiche non istoniche so-
no, perlomeno in parte, in stalo di flus-
so dinamico.
In contrasto con gli istoni, le pro-
teine non istoniche mostrano un'enor-
me eterogeneità sia dal punto di vista
strutturale che funzionale. Il loro pe-
so molecolare varia ira 10 000 e
150 000 dalton. È difficile determinare
accuratamente quante specie di pro-
teine non istoniche sono associate con
ti genoma, ma parecchie serie dì pro-
ve fanno pensare che questo numero
sia estremamente ampio. Un'indicazio-
ne della loro diversità funzionale è la
varietà dei sistemi enzimatici comples-
si che si trovano tra loro. Si hanno en-
zimi come le polirne rasi implicate nel-
la sintesi e nella reintegrazione del
DNA e deirRNA, enzimi implicati nel-
la sintesi e nella degradazione di pro-
teine ed enzimi che modificano gli aci-
di nucleici e le proteine, aggiungendo-
vi gruppi acetato, metile e fosfato. Ol-
tre a questi componenti enzimatici si
ritiene anche che la frazione non isto-
nica contenga proteine che hanno, nel-
la cromatina, funzioni strutturali e,
alla slessa stregua, Funzioni regolatrici.
Nella restante parte di questo artico-
lo concentreremo la nostra attenzione
sulle principali serie di prove a soste-
gno dell'idea secondo cui almeno al-
cune delle proteine non istoniche so-
no implicate nella regolazione dell'at-
tività di geni specifici.
Esistono differenze significative tra
i tipi dì proteine non istoniche che si
trovano nelle cellule di differenti spe-
cie, Dato ch^ l'informazione genetica
codificata nei DNA è unica per ogni
specie, l'osservata specie-specificità del-
le proteine non istoniche è coerente
con Tidea che esse abbiano una fun-
zione regolatrice. AH 1 interno dello stes-
so organismo esistono poi, in tessuti di-
versi, differenti proteine non istoniche.
Anche se tutte le cellule dell'organi-
smo contengono lo stesso DNA, la va-
riazione che si riscontra nell'insieme
di proteine non istoniche presenti nei
vari tipi cellulari concorda con un'u-
tilizzazione selettiva dell'informazione
genetica da parte di quei tipi cellulari.
Se le proteine non istoniche sono
impegnate in una regolazione genica
specifica, allora la gamma di queste
proteine in una cellula dovrebbe modi-
ficarsi quando si modifica l'attività dei
geni. Quest'ipotesi è stata messa alla
prova in un vasto numero di sistemi
sperimentali, in cui sì verificano noto-
riamente variazioni dell'espressione ge-
nica. In quasi tulli i casi sono stati os-
servati i cambiamenti previsti nelle
proteine non istoniche.
Variazioni ne Ha sintesi
Variazioni nell'espressione genica si
verificano, per esempio, nel corso del
ciclo cellulare. Le differenze più pro-
nunciate nella trascrizione sì osserva-
no tra la fase S (il periodo della sin-
tesi dì DNA) e la mitosi (il processo di
divisione cellulare). Nei nostri e in altri
laboratori sono state esaminate duran-
te ogni fase del ciclo cellulare, sotto
l'aspetto della composizione e del me-
tabolismo, le proteine cromosomiche
non istoniche associate con il genoma
e sono state osservate differenze ugual-
mente pronunciate. Per fare un altro
esempio, gli ormoni steroide!, come
gli estrogeni e V idrocortisone, esercitano
notoriamente i loro effetti su cellule
bersaglio legandosi al loro nucleo e, in
ultima analisi, alterando il quadro del-
la trascrizione genica. È stato dimo-
strato che parecchi ormoni steroide!
provocano dei cambiamenti nella com-
posizione e nel metabolismo delle pro-
teine cromosomiche non istoniche.
Le colture in vitro di cellule di neu-
roblastoma (cancro delle cellule nervo-
se) di topo costituiscono un interes-
sante sistema modello per lo studio del
differenziamento. Esse sono facilmente
indotte a differenziarsi in cellule con
proprietà strutturali, biochimiche ed
elettriche tipiche della cellule nervose.
Uno dei vantaggi davvero singolari del
sistema è che il differenziamento indot*
to è completamente reversibile. Mi-
chelle Zornetzer, nel nostro laborato-
rio in Florida, ha osservalo che, nel-
lo stato differenziato, c*è una diminu-
zione selettiva nella sintesi delle pro-
teine non istoniche di elevato peso mo-
lecolare e che questo fenomeno diven-
ta reversibile quando lo diventa anche
lo stato di differenziamento {si veda !a
figura a pagina 22). La Zornetzer ha
anche dimostrato che il differenzia-
mento delle cellule suddette è associato
a differenze nella sintesi deIl*RNA. Vi
è cioè una forte correlazione tra i ti-
pi di proteine non istoniche associate
con il genoma e le alterazioni nell'e-
spressione genica che si accompagna-
no al differenziamento.
£ possibile separare la cromatina" in
due frazioni che differiscono una dal-
l'altra sia per struttura, sia per attivi-
tà genetica; la frazione di cromatina
condensata, che è strutturalmente com-
patta e relativamente inattiva nella
sintesi deirRNA, e la frazione di cro-
matina distesa, che sintetizza attiva-
mente TRNA. Come abbiamo ricorda-
to, li rapporto istone/DNA è identico
in questi due tipi di cromatina. Tutta-
via la quantità relativa di proteina non
istonica è considerevolmente più eleva-
ta nella forma attiva, distesa, della
cromatina. Qui di nuovo la presenza
delle proteine non istoniche è correla-
ta con uno stato strutturale della cro-
matina, caratterizzato da una sintesi
attiva di RNA.
Cambiamenti nelle proteine non isto-
niche accompagnano anche le modifi-
cazioni che si verificano nelle proprie-
tà strutturali e biochimiche di una cel-
lula infettata e trasformata da virus
cancerogeni. Le cellule trasformate mo-
strano una mancanza di controllo del-
la crescita, che è tipica delle forme
maligne. Recenti risultati ottenuti nei
nostri laboratori indicano che, quasi
subito dopo l'infezione delle cellule
con virus tumorali, si verificano dei
cambiamenti nella composizione e nel
metabolismo di proteine cromosomiche
non istoniche. Queste modificazioni di-
ventano permanenti in cellule trasfor-
mate e rese neoplastiche. Finora non
si è avuta alcuna prova definitiva di
un rapporto causa/effetto, ma sembra
logico concludere che le proteine non
istoniche abbiano una funzione prima-
ria nel mediare le modificazioni indot-
te da virus nell'espressione genica as-
sociate con la condizione neoplastica.
Un'altra proprietà distinta delle pro-
teìne cromosomiche non istoniche, che
dà conferma aH*idea che esse siano
implicate nella regolazione genica spe-
cifica, è la loro capacità di legarsi al
DNA. Nelle cellule batteriche in cui
le proteine regolatrici specifiche so-
no state identificate e isolate, è ri-
sultato che esse funzionano legandosi
a sequenze specifiche in regioni oppor-
tune del DNA, In maniera analoga, ci
si potrebbe attendere che le molecole
regolatrici specifiche, presenti nelle cel-
lule eucartote, si leghino a tipi partico-
lari di DNA. Nel 1970, esperimenti ef-
fettuati in uno dei nostri laboratori
(precisamente in quello di Kieinsmìth)
hanno dimostrato che alcune proteine
non istoniche si legano innanzitutto
in maniera specifica al DNA,
Questi esperimenti hanno utilizzato
la tecnica della cromatografìa su cel-
lulosa del DNA, sviluppata da Bruce
M. Alberts della Princeton Universi-
ty, In essa il DNA viene adsorbito su
una matrice di cellulosa che riempie
un tubo di vetro. Le proteine in esame
passano attraverso questa colonna;
quelle che si legano al DNA, invece,
si fissano alla colonna e possono poi
essere rimosse per essere analizzate.
Quando proteine non istoniche, pre-
parate da fegato di ratto, si fanno pas-
sare attraverso una colonna del gene-
re, ottenuta con DNA di ratto, una
piccola percentuale delle proteine si
fissa, Quando le proteine che così si le-
gano al DNA vengono rimosse dalla
colonna e fatte passare attraverso una
nuova colonna, ottenuta con DNA
batterico, la maggior parte passa ol-
tre (si veda la figura a pagina 23). In
altre parole, una parte delle proteine
non istoniche deve essere in grado di
riconoscere sequenze nucleoli diche spe-
cifiche nel DNA, per cui si lega al
primo DNA che incontra, ma non a
un DNA estraneo. Una simile intera-
zione specifica tra queste proteine e il
DNA è esattamente quello che ci si
aspetterebbe se una parte di esse fosse
implicata nella regolazione dell'attività
di geni specifici. Questo legarsi specifi-
co delle proteine non istoniche al DNA
è stato provato da osservazioni effet-
tuate in parecchi altri laboratori, tra
cui quelli di Alifrey, Bonner e Lubo-
mir S. Hnilica dell'Università del Texas
a Houston.
Prove sperimentali
Per determinare direttamente se la
presenza delle proteine non istoniche
può alterare la trascrizione genica è ne-
cessario utilizzare sistemi in cui gli
effetti delle proteine non istoniche sul-
la sintesi dell' RNA possono essere mi-
surati con esattezza. Nel 1968, una re-
lazione presentata dal laboratorio di
Tung-Yue Wang dell 1 Università dello
stato di New York a Buffalo ha soste-
nuto che raggiunta di proteine non isto-
niche a un sistema acellulare contenen-
te DNA e RNA polimerasi purificate
può rendere reversibile ['inibizione del-
RENE
1
VUJvL
\k
PESO MOLECOLARE DECRESCENTE^
PESO MOLECOLARE DECRESCÈNTE -
PESO MOLECOLARE DECRESCENTE -
PÉSO MOLECOLARE DECRESCENTE -
Una vasta gamma di proteine non istoniche è predente nei diversi tessuti. Ogni curva
registra le fluttuazioni nella densità ottica^ e quindi nella quantità delle proteine pre-
senti, che avvengono in un gel. La disposizione dei pìcchi è diversa per ] gel contenen-
ti proteine non istoniche eslratte da quattro diversi tessuti specializzati del ratto.
20
21
la sìntesi di RNA, normalmente pro-
dotta dalla presenza degli istoni* Que-
sti risultati sono conformi a una pre-
cedente relazione di Thomas À, Lan-
gan, che lavorava a quell'epoca alla
Rockefeller University, relazione in ba-
se alla quale quando Tistone forma un
complesso con la proteina non istoni-
ca, esso esercita soltanto un parziale
effetto inibitorio sulla sintesi dell/RNA,
Simili modi di affrontare il problema
sono stati messi in atto da Ghin-Sung
Teng e da Terrell H. Hamilton della
Università del Texas ad Austin e da
Tnomas C Spelsberg e da Hnilica a
Houston, Ambedue i gruppi hanno
trovato che le proteine cromosomiche
non ìstoniche impediscono la completa
<
z
o
ce
Ql
O
<
<
O
PESO MOLECOLARE DECRESCENTE
ai
ce
a.
<
a
PESO MOLECOLARE DECRESCENTE -
2
O
a
<
La velocità di sintesi di certe proteine non istoni che, e, di conseguenza, la quantità di
ognuna di esse, varia nello Messo tipo di cellula nei diversi stadi del differenziamento.
Le curve in colore mostrano le velocità di sintesi, mentre le curve in nero le quantità
di proteine non ìstoniche che si trovano nelle cellule differenziate di un neuro bla stoma
di topo fin ulto) e in altre cellule non differenziate [in bassol Nello stato differenziato
vi è nna diminuzione della velocità di sintesi delle proteine ad alto peso molecolare.
inibizione della sintesi dell'RNÀ da
parte degli istoni. Il gruppo di Wang
è andato oltre, dimostrando che la
trascrizione aumentata, prodotta dal-
l'aggiunta di proteine non Ìstoniche,
rappresenta l'attivazione di regioni dei
genoma precedentemente represse. Pre-
si nel loro complesso, questi studi han-
no dimostrato chiaramente che le pro-
teine cromosomiche non ìstoniche pos-
sono influenzare la trascrizione. Tut-
tavia un'interpretazione definitiva dei
risultati è parsa diffìcile perché ì com-
ponenti della cromatina nei sistemi
acellulari erano mescolati in condizio-
ni che potevano non permettere loro
di associarsi come accade nel nucleo di
una cellula intatta.
La prova più diretta che le proteine
cromosomiche non Ìstoniche svolgono
una Funzione nella regolazione della
trascrizione specifica del tessuto pro-
viene da esperimenti di ricostituzione
della cromatina durante i quali i vari
componenti di quest'ultima sono iso-
lati e poi riuniti dì nuovo in varie com-
binazioni. In esperimenti pionieristici,
effettuati secondo questi orientamenti,
R. Stewart Gilmour e John Paul del
Beatson Institute for Cancer Research
di Glasgow hanno isolato cromatine
provenienti dai timo e dal midollo os-
seo di coniglio e le hanno dissociate in
DNA, proteìne ìstoniche e non ìstoni-
che. Quindi essi hanno ricostituito le
cromatine ricorrendo a un metodo ela-
borato da Huang e Bonner. Nell'espe-
rimento di controllo, il DNA, gli istori i
e le proteine non ìstoniche di timo di
coniglio sono stati semplicemente ri-
messi di nuovo insieme. La cromatina
ricostituita è stata quindi utilizzata co-
me stampo per la sintesi dell'RNÀ in
presenza di RNA polimerasi. L'RNÀ
trascritto si è comportato, negli espe-
rimenti eseguiti per valutare la sua ca-
pacità di legarsi al DNA estratto da
timo o da midollo osseo di coniglio,
proprio come RNA di timo sintetiz-
zato normalmente. Quindi Gilmour e
Paul hanno messo insieme il DNA e gli
istoni ottenuti dal timo e dal midollo
osseo, e hanno ricostituito la cromati-
na aggiungendo al miscuglio proteine
non Ìstoniche. L T RNA prodotto da que-
sta cromatina ibrida si è comportato es-
so pure come TRNA di timo, anche se
la cromatina includeva DNA e istoni
di midollo osseo, D'altra parte, quan-
do il DNA e gli istoni riuniti sono sta-
ti ricostituiti con proteine non ìstoni-
che di midollo osseo, TRNA ottenuto
dalla cromatina ibrida sì è comportato
proprio come FRNA di midollo os-
seo (si veda la figura a pagina 24). Gli
esperimenti hanno messo chiaramente
in luce che è la presenza di proteine
non ìstoniche, specifiche dei tessuti, a
determinare quali geni saranno esatta-
mente trascritti nei vari tessuti.
Che dire di ciò che avviene negli stes-
si tessuti in tempi diversi? Forse le pro-
teine non Ìstoniche sono responsabili
anche dei cambiamenti transitori nel-
l'attività di trascrizione, associati con
i cambiamenti dello stato metabolico
di un singolo tipo cellulare? Il ciclo
della cellula costituisce un sistema mo-
dello ideale per analizzare in maniera
diretta l'influenza che le proteine non
ìstoniche hanno sull'attività di trascri-
zione del genoma, dato che la croma-
tina isolata dalle cellule della fase S
(il periodo di replicazione attiva dei
DNA) ha una maggior attività nella
sintesi dell'RNA della cromatina iso-
lata da cellule in mitosi. Esperimenti di
ricostituzione della cromatina, condot-
ti da uno di noi (Gary Stein) e da John
Farber alla Tempie University, hanno
dimostrato che sono le proteine non
ìstoniche a essere responsabili di que-
sta modulazione della trascrizione ge-
nica durante il ciclo della cellula. La
cromatina, ricostituita da DNA e isto-
ni mescolati con proteine non Ìstoni-
che provenienti da cellule mttotiche,
ha mostrato una minor capacità di
sìntesi delTRNA della cromatina rico-
stituita, in presenza di proteine non
ìstoniche provenienti da cellule duran-
te la fase S (si veda la figura a pagina
25). Per eliminare la possibilità che gli
istoni siano coinvolti in queste altera*
zioni gli esperimenti di ricostituzione
sono stati anche effettuati in presenza
di istoni provenienti da cellule in fase
S oppure da cellule in mitosi. In questo
ultimo caso, le attività di trascrizione
dei due tipi di cromatine ricostituite
erano identiche, mostrando così che
gli istoni non stabiliscono le differenze
di disponibilità delle sequenze di DNA
per 'la sintesi dell'RNA durante il ci-
clo della cellula,
Per dimostrare chiaramente che le
proteine non Ìstoniche regolano l'atti-
vità di singoli geni, è necessario pro-
vare la trascrizione di un gene speci-
fico. Negli ultimissimi anni, è stato pos-
sibile sintetizzare in laboratorio copie
radioattive di singole sequenze geniche,
risalendo da un RNA noto al suo DNA
complementare. Queste copie di geni
radioattivi si legano in maniera spe-
cifica agli RNA complementari per
i quali codificano, e così possono es-
sere utilizzate come « sonde » sensibili
per mettere in evidenza la presenza di
RNA trascritti da geni particolari (sì
veda la figura in allo a pagina 26).
Gilmour e Paul hanno utilizzato di
recente queste «sonde» sofisticate in
una serie dì esperimenti di ricostitu-
zione della cromatina, Questa è stata
PflOTE+NE NON
ÌSTONICHE Di BATTO
SOLUZIONE
SALINA CONCENTRATA
PROTEINE CHE
SI LEGANO AL DNA
DNA DI RATTO-
PROTEINE ~
NON SPECIFICHE
CHE SI LEGANO
AL DNA
DNA BATTERICO-
O
PROTEINE-
SPECIFICHE
PER IL RATTO
CHE SI LEGANO
AL DNA
y
L'associazione specifica di proteine non Ìstoniche al DNA è stata dimostrata facendo
passare proteine non ìstoniche di fegato di ratto attraverso una colonna di cellulosa, sul-
la quale era stato adsorbito del DNA dì ratto. Una parte delle proteine rimaneva sulla
colonna, legata al DNA; le proteine non legate (grigio scuro) f nonusci vano invece dalla
colonna (i). Le proteine legale iìn colore e in bianco) sono state poi fatte migrare da
una soluzione salina concentrata ( la). Esse sono state fatte passare attraverso colonne
contenenti DNA di ratto o DNA del batterio Escherichia coli. Tutte si sono legale a E
DNA dì ratto (2), mentre soltanto una piccola percentuale si è invece legata al DNA di
Escherickia coli {J). Le proteine che sì sono legate soltanto al DNA di ratto, ma
non al DNA di Escherichia coli erano chiaramente specifiche per il DNA di ratto.
22
23
isolata da fegato di feto di topo, che
sintetizza normalmente la gtobina (la
proteina dell'emoglobina) e da cervello
di ratto, che invece non la sintetizza,
Ogni preparato di cromatina è stato
trascritto in un sistema aceliulare e gli
RNA sintetizzati sono stati caratteriz-
zati saggiando la loro capacità di le-
garsi con le copie radioattive dei geni
per la globina. Conservando lo stesso
tipo di trascrizione osservato nelle cel-
CROMÀTtNA Dì
MIDOLLO OSSEO
lule intatte, la cromatina di fegato fe-
tale ha sintetizzato RNA che codifica-
va per la globina, mentre la cromatina
proveniente dal cervello non lo ha fat-
to. Gilmour e Paul hanno proseguito
quindi i loro esperimenti dissociando
le cromatine e ricostituendole in pre-
senza di vari tipi di proteine non isto-
niche. Essi hanno trovato che, quando
la cromatina di cervello è stata ricosti-
tuita in presenza di proteine non isto-
niche ottenute da tessuto cerebrale,
non è riuscita a sintetizzare TRNA per
la globina, mentre quando la ricostitu-
zione si è realizzata in presenza dì pro-
teine non istoniche provenienti da fe-
gato fetale, il gene per la globina è sta-
to trascritto. Simili risultati danno un
valido sostegno airidea secondo la qua-
le è la presenza dì proteine non isto-
niche specifiche a determinare che il
gene per la globina sìa trascritto in tes-
RNA
PROTEINE
CROMOSOMICHE
DNA
DNA
PROTEINE
CROMOSOMICHE
PROTEINE
NON ISTON1CHE
PROTEINE
NON ISTONICHE
RNA s-S^^y
CROMATINA RICOSTITUITA
CON PROTEINE CROMOSOMICHE
NON ISTONICHE DI TIMO
Un esperimento di ricostituzione della cromatina, effettuato da
R, Stewart Gilmour e da John Paul del Beatson Insti tute for
Cancer Research ha dimostralo che le proteine non istoniche so-
no responsabili della trascrizione specifica del tessuto. La ero-
matina è stata isolata da limo e da midollo osseo di coniglio.
Ciascun tipo di cromatina ha prodotto un caratteristico RNA (a,
bì. La cromatina, dissociata in DNA e nelle frazioni istonica e
non istonica e quindi ricostituita, ha prodotto sempre Io stesso
CROMATINA RICOSTITUITA
CON PROTEINE CROMOSOMICHE
NON ISTONICHE DI MIDOLLO OSSEO
RNA, In seguito le due cromatine sono state dissociate e sìa i
DNA, sia gli i sto ni delle due preparazioni sono stati mescolati.
Quando poi il DNA e gli astoni riassociati sono stati combinati
con le proteine non istmi irti e de! timo, la cromatina ricostituita
ha prodotto RNA paragonabile alFRNÀ di timo (e). Quando, in-
vece, DNA e istoni riassociati sì sono combinati con proteine non
i sto ni eh e provenienti da midollo osseo, la cromatina ricostituita
ha prodotto RNA paragonabile alTRNA dì midollo osseo idi
suto epatico fetale e non in tessuto ce-
rebrale.
Forte di un simile modo di affron-
tare il problema, il nostro gruppo della
Florida ha dimostrato di recente che le
proteine cromosomiche non istonìche
sono responsabili della limitazione del-
la trascrizione dei geni per gli isto-
ni alla fase 5 del ciclo cellulare (si
veda la figura in basso ne Ha pagina
successiva). Servendosi di una « son-
da » costituita da tstone-DNA radioat-
tivo per esaminare TRNA prodotto in
provetta, abbiamo dimostrato innanzi-
tutto che la cromatina proveniente da
cellule in fase S trascriveva gli RNA
per gli istoni, mentre la cromatina ot-
tenuta da cellule nella fase G } del ci-
clo cellulare - cioè nel periodo prece-
dente alla replicazione del DNA — non
eseguiva la trascrizione. Questo risul-
tato concordava con una precedente
dimostrazione dell'appaiamento della
sintesi degli istoni con la replicazione
del DNA, Abbiamo dimostrato allora
che la cromatina ricostituita con pro-
teine non istoniche da cellule in fase
S trascrìveva gli RNA per gli istoni
nella stessa misura della cromatina
nativa da cellule in fase S. Per contro,
la cromatina ricostituita con proteine
non istonìche isolate dalla cromatina
di cellule in fase G x non ha mostra-
to nessuna trascrizione identificabile
degli RNA per gli istoni. 11 significato
di tutto questo è chz le proteine cro-
mosomiche non istoniche governano
l'elaborazione dell'informazione pro-
veniente da geni specifici durante perio-
di ben definiti del ciclo della cellula,
Un'ipotesi
Se si ammette che le proteine cromo-
somiche non istoniche svolgono un ruo-
lo chiave nel regolare la trascrizione di
singoli geni sia in diverse cellule spe-
cializzate, sia in perìodi differenti nel-
lo stesso tipo di cellule, ci si chiede co-
me potrebbe essere esercitato un si-
mile controllo. Qual è il meccanismo
molecolare che ne è alla base? Una
proprietà sorprendente delle proteine
non istoniche, è l'ampio grado della
loro fosforìlazione. In una serie di espe-
rimenti iniziati nel 1966 Kleinsmith,
Aìlfrey e Mìrsky hanno osservato che
le proteìne non istoniche vengono con-
tinuamente modificate nel nucleo per
aggiunta e rimozione di gruppi fosfato.
Abbiamo pensato che, siccome i grup-
pi fosfato sono dotati di carica nega-
tiva, tali modificazioni potevano alte-
rare sia la struttura, sia le interazioni
funzionali delle proteine non istoni-
che nella cromatina. Da quando sono
state effettuate queste prime osserva-
zioni; i ricercatori di molti laboratori,
<
ce
<
oc
}-
W
a
<
z
oc
5
5
LU
Z
b
z:
TEMPO
CROMATINA DI
CELLULE IN FASE S
TEMPO
CROMATINA DI
CELLULE IN MITOSI
\ZJ
CROMATINA RICOSTITUITA
CON PROTEfNE CROMOSOMICHE
NON ISTONICHE DI CELLULE IN MITOSI
W
CROMATINA RICOSTITUITA
CON PROTEINE CROMOSOMICHE
NON ISTONICHE DI CELLULE IN FASE S
C
z
oc
o
UJ
d
TEMPO
TEMPO
Un altro esperimento dì ricostituzione ha dimostrato che le proteine non iconiche go-
vernano le variazioni dì trascrizione, che si notano in diversi stadi del ciclo della cel-
lula. La cromatina isolata da cellule in fase S sintetizza più rapidamente RNÀ (a) della
cromatina isolata durante la mitosi ibi. Le due cromatine sono state dissociate e il DNA
e eli istoni riuniti. La cromatina ricostituita con proteine non istoniche di cèllule mito-
ti che ha sintetizzato RNÀ a una velocità caratteristica per la cromatina di cellule in mi*
tosi (e). La cromatina ricostituita con proteine non istoniche di cellule in fase S ha pro-
dotto delFRNÀ alla maggiore velocità tipica della cromatina di cellule in fase S (di
24
25
RNA MESSAGGERO
IBRIDO
DMA COMPLEMENTARE
^^^^^7^
DNA-POLIMERASI
RNA-DIPENDENTE
IDROLISI
Gli esperimenti di ibridazione servono a identificare prodotti
specifici del gene. Un RNA noto Un colore pieno) viene isolalo*
In presenza dell'enzima DNA polimerasi RNA dipendente (Iran-
scripta si inversa), TRNA serve da stampo per il monta g rio di un
filamento complementare di DNA Un colore chiaro), che può
essere marcato mediante incorporazione di una subunità radioat*
tiva. LHbrido RNA-DNA viene dissociato mediante idrolisi e dà
luogo a un DNA complementare radioattivo, ossia a un gene
sintetizzato. Questo è utile per identificare TRNA da cui è stato
prodotto in quanto forma ibridi solo ron quelfRNA (a destra).
"i
^^nXX
\*s-\
1
<w^-N
CROMATINA DA
CELLULE IN FASE G
CROMATINA DA
CELLULE IN FASE S
DNA COMPLEMENTARE
CHE CODIFICA
PER L'ISTONE
1
DNA COMPLEMENTARE
CHE CODIFICA
PER LISTONE
>^V
\-S
CROMATINA RICOSTITUITA
CON PROTEINE
NON ISTONICHE DI CELLULE IN FASE S
W
CROMATINA RICOSTITUITA
CON PROTEINE
NON ISTONICHE DI CELLULE IN FASE G>
DNA COMPLEMENTARE
CHE CODIFICA
PER LISTONE
DNA COMPLEMENTARE
CHE CODIFICA
PER L'ISTONE
<^"-s
Nell'esperimento qui descritto è stato preparato un DNA radio-
attivo complementare a 11 'RNA per Tistone ed è stato quindi usa-
to come «sonda» Un colore ckiaro\ con la quale dimostrare
che, mentre la cromatina proveniente da cellule in fase G t non
produce RNA per listone fa), la cromatina di cellule in fase S
lo fa {in colore piena, Ir. Le cromatine sono state quindi -li--
sociate, gli istoni e il DNA riuniti di nuovo e quindi ricostituiti
v>*-\
con due tipi di proteine non istoniche. Gli RNA sono stati pre-
parati da due cromatine ricostituite e quindi saggiati con il
DNA. La cromatina, ricostituita con le proteine non ìstoniehe
provenienti da cellule in fase S, ha sintetizzato FRNA per Pistone
proprio come la cromatina naturale proveniente da cellule in fase
S Ir). La cromatina, ricostituita con le proteine non istoniche di
cellule in fate G\ >^\ non v bmea in grido di *irileliz2are RNA,
studiando diversi sistemi biologici, han-
no notato che la fosforilazione delle
proteine non istoniche è associata con
il differenziamento cellulare e con l'at-
tivazione dei geni, inoltre è stato dimo-
strato che la capacità delle proteine
non istoniche di stimolare la sìntesi
delTRNÀ in sistemi acellulari dipende
dal loro stato di fosforilazione.
Tali osservazioni suggeriscono che la
fosforilazione delle proteine non isto-
niche possa essere in qualche modo
implicata nel meccanismo grazie al
quale queste molecole regolano la tra-
scrizione genica. Un modello propo-
sto chiama m causa sia il legame con
DNA specifico sia la fosforilazione {si
veda la figura in questa pagina). Noi
suggeriamo che una proteina non isto-
nica specifica si leghi a un sito specifi-
co del DNA, represso dall'istone. In
quel punto la proteina non istonica di-
venta fosforitela e, dato che i grup-
pi fosfato sono dotati di carica nega-
tiva, essa comincia a respingere il
DNA, che è pure dotato di carica ne-
gativa, mentre d'altra parte st asso-
cia intensamente con gli istoni dotati
di carica positiva. L'effetto di questi
due processi è quello di provocare il
distacco del complesso proteina ìsto-
nica-proteina non istonica dal DNA.
La risultante area priva di DNA, man-
cando del suo istone inibitore, può
quindi essere trascritta in RNA.
Anche se questo modello del distac-
co degli istoni è molto ipotetico, un
certo numero di osservazioni concor-
dano con le sue caratteristiche generali.
Come abbiamo ricordato, ì geni sono
trascritti più attivamente durante la
fase 5 che non durante la mitosi. Abbia-
mo osservato di recente che anche le
proteine non istoniche sono più atti-
vamente fosforiate durante la fase S
che non durante la mitosi e inoltre che
gli istoni si legano meno saldamente
al DNA durante la fase S che non du-
rante la mitosi. Alcuni recenti esperi-
menti sulla ricostituzione della croma-
tina, effettuati nel nostro laboratorio
in Florida, hanno dimostrato che le
proteine non istoniche associate con
il genoma durante la fase S sono re-
sponsabili in maniera specifica del le-
game meno forte degli istoni con il
DNA durante quel periodo del ciclo
della cellula. Questi risultati dimostra-
no se non altro almeno uno stretto
rapporto tra attività genica, fosforila-
zione della proteina non istonica e as-
sociazione degli istoni al DNA.
11 modello del distacco degli istoni
è solo uno dei molti proposti per spie-
gare il comportamento delle proteine
cromosomiche nella regolazione genica.
Anche se il meccanismo particolareg-
giato non è stato ancora chiaramente
dimostrato, la comprensione dell'atti-
vità delle proteine cromosomiche e
delle loro interazioni con il DNA sta
avanzando rapidamente. Certo le pro-
teine istoniche e non istoniche svolgo-
no delle funzioni importanti nella de-
terminazione delle proprietà struttura-
li e funzionali del genoma. Mentre gli
istoni sono implicati nel mantenimento
della struttura della cromatina e nella
repressione non specifica delle sequen-
ze geniche, sembra chiaramente dimo-
strato che le proteine cromosomiche
non istoniche riconoscano loci genici
ben definiti e quindi regolino la Ira-
scrizione dell'informazione genetica spe-
cifica.
PROTEINA NON ISTONICA
'SION:
z$s& MWw
+ +
_
+ + +
7A\
~mm
+ + +
+ +
FOSFORILAZIONE
-}
+ +
+ + +
TH
+ +
£v
+ + +
+ '+
11 gene viene attivato, secondo un ipotetico modello, quando una proteina non i&tonica
riconosce (J) un sito specifico su un filamento dì DNA che generalmente viene re-
presso da istoni. La proteina non istonica sì lega al sito (2); quindi subisce una fo*
sfonlacione e diventa pertanto dotata di rarica negativa (3). Poi respinge il DNA do-
tato di carica negativa e si allontana contemporaneamente ali 'iato ne dotato di carica
positiva, lasciando nudo il sito posto sul DNA i4). Questo sito, che in questo modo non
è più represso dalttstone, diviene disponìbile per la trascrizione dellUNÀ fin colore, 5),
26
27
Modelli a risonanza duale delle
particelle elementari
In questo nuovo modello teorico le particelle a interazione forte (adroni)
vengono descritte matematicamente come corde senza massa i cui estremi
si muovono con la velocità della luce in uno spazio multidimensionale
di John H. Schwarz
Negli ultimi 20 anni sono state
prodotte e identificate in colli-
sioni provocate da acceleratori
di particelle ad alta energia centinaia
di differenti particelle « elementari ».
Nello stesso periodo sono stati propo-
sti molti schemi empìrici e teorici nel
tentativo di mettere ordine in una mas-
sa di dati che a prima vista appare com-
pletamente caotica. Sono stati fatti no-
tevoli progressi e molti aspetti del pro-
blema sono oggi ben conosciuti, ma
la fisica appare ancora ben lontana dal
raggiungimento di una teoria completa
delle particelle elementari. Questo ar-
ticolo espone un nuovo promettente
metodo, noto come teoria della riso-
nanza duale, che può rivelarsi utile nel-
la comprensione del comportamento di
una delle due grandi classi di particel-
le elementari, gli adroni, cioè le parti-
celle soggette a una delle quattro forze
conosciute della fisica: I 1 interazione
forte.
Tutte ìe trattazioni teoriche della fi-
sica delle particelle elementari sono
basate su due principi solidamente af-
fermati: la teoria della relatività ri-
stretta e la teoria dei quanti. La teoria
della relatività ristretta, oltre a enun-
ciare la famosa relazione tra energia e
massa (E = me 1 }, descrive la correla-
zione esistente tra le osservazioni ese-
guite da osservatori in moto con velo-
cità differenti. Le teorie sono solita-
mente formulate in modo covariante,
il che significa che tali correlazioni so-
no implicite nel formalismo matemati-
co che esprime la teoria. Secondo la
teoria dei quanti, una particolare in-
terazione sperimentale - per esempio
la collisione dì due particelle - può ve-
rificarsi in molti modi diversi, ciascuno
con una ben determinata probabilità.
Queste probabilità vengono espresse
mediante numeri complessi chiamati
ampiezze di diffusione. Il compito di
ogni teorìa delle particelle è di permet-
tere il calcolo dell'ampiezza di diffu-
sione di una data interazione tra par-
ticelle con un alto grado di precisione*
Se si cerca di calcolare le ampiezze di
diffusione (date in funzione di un ade-
guato insieme di variabili), anche la
teoria dei quanti rientra automatica-
mente nel nuovo schema teorico.
T e particelle elementari sono sogget-
te a parecchi differenti tipi di forze
(o interazioni), che si possono raggrup-
pare in due vaste categorie: forti e
non forti. La categoria di quelle non
forti viene dì solito ulteriormente sud-
divisa in forza elettromagnetica, for-
za gravitazionale e forza debole. Per
gli scopi di questa trattazione possiamo
ignorare quest'ultima distinzione, poi-
ché le interazioni forti sono l'oggetto
più importante della teoria della riso-
nanza duale. Le interazioni forti opera-
no tra le particelle elementari solo a
brevi distanze (tipicamente dell'ordine
di IQ U centimetri) e sono circa 100 vol-
te più intense delle più forti tra le al-
tre interazioni, cioè quelle elettroma-
gnetiche. Le interazioni forti sono quel-
le che tengono Insieme il nucleo ato-
mico (per cui sono dette anche nuclea-
ri) e sono in gran parte responsabili
delle proprietà dei protoni e dei neutro-
ni che costituiscono il nucleo,
Dal punto di vista filosofico, sono
propenso a credere che dovrebbe esse-
re possibile trovare una descrizione ma-
tematica di tutte le particelle e delle
loro interazioni che sia completa, con-
sistente e persino elegante. Per pro-
gredire verso la formulazione di una
tale teoria, sembra opportuno affronta-
re dapprima problemi più modesti me-
diante approssimazioni successive. Due
sistemi ipotetici più semplici da esami-
nare sono: (1), adroni soggetti solo a
interazioni forti e, (2), non adroni sog-
getti solo a interazioni non forti. Cia-
scuno dei due sistemi è nei migliore
dei casi solo un'approssimazione, poi-
ché in effetti gli adroni sono soggetti
anche alte interazioni non forti. È im-
maginabile che entro ogni sistema si
possa trovare una teoria autoconsisten-
te che possa descrivere con precisio-
ne vaste classi di esperimenti, ma è
purtroppo altrettanto probabile che
ciascuna delle suddette approssimazio-
ni implichi l'eliminazione di elementi
logici che sono essenziali per delineare
una teoria matematicamente consisten-
te di tutte le particelle elementari. Per
il momento possiamo solo sperare che
si avveri la prima possibilità, In conse-
guenza di questa ipotesi il resto della
trattazione verterà sugli adroni e sul-
le loro interazioni forti, con l'ipotesi
sottintesa che si possa successivamente
trovare una teoria consistente e com-
pleta di tutte le interazioni.
Le conoscenze teoriche sugli adroni
ottenute finora sono basate principal-
mente su metodi che non tentano di da-
re formule esatte per tutte le possibili
ampiezze di diffusione, ma descrivono
piuttosto importanti aspetti generali de-
gli adroni che dovrebbero essere conte-
nuti o spiegati in una teoria completa.
Esempi di questi metodi di indagine
comprendono vari modelli statistici e
schemi di classificazione delle particelle.
Un'interessante possibilità che deri-
va da uno studio di modelli statistici
compiuto da Rolf Hagedom dell'Or-
ganizzazione Europea per le Ricerche
Nucleari (CERN) di Ginevra è che
possa esistere un numero infinito di
adroni, la cui distribuzione sia una fun-
zione esponenziale crescente della mas-
sa. Una siffatta distribuzione impliche-
rebbe l'esistenza di una temperatura
universale massima (circa 2 X IO 12
kelvin). In favore del tipo dì distribu-
zione di Hagedom vi è qualche indizio
sperimentale, non ancora confermato.
Lo stesso tipo di spettro di particelle
nasce anche in modo naturale (e ine-
vitabile) nei modelli a risonanza duale.
Questo aspetto pone inoltre tali mo-
delli in netto contrasto con i modelli
della usuale teoria quantistica dei cam-
pi, che ne costituiscono i principali
concorrenti nella ricerca di una teo-
ria degli adroni. I modelli della teoria
dei campi riescono solo con difficoltà
a rendere conto di una tale distribuzio-
ne di massa, anche se non la escludono
totalmente.
Il significato dì una temperatura uni-
versale può essere valutato consideran-
do la seguente ipotetica situazione.
Supponiamo che una pentola di adroni
sia prossima a tale temperatura mas-
sima e che si tenti di portarla a una
temperatura superiore fornendo ener-
gia, per esempio bombardando gli adro-
ni con particelle ad alta energia in con-
dizioni tali da dare origine a un equi-
lìbrio termico. Le previsoni dell'ipotesi
di Hagedom sono che una volta rag-
giunta la temperatura massima, qual-
siasi ulteriore cessione di energia si tra-
duca nella creazione di nuove parti-
celle piuttosto che in un aumento di
temperatura. Qualcuno ha avanzato l'i-
potesi che un siffatto «quarto princi-
pio della termodinamica » possa avere
influenzato l'evoluzione dell'universo
fino dai primi stadi del big bang (gran-
de scoppio iniziale).
Vi sono due schemi distinti di classi-
ficazione delie particelle che rendono
conto con notevole successo dei diffe-
renti aspetti dello spettro di particelle
elementari finora osservato. Il primo
(basato sulle ricerche di Murray Geli-
-Mann e di George Zweig dell'Istituto
di Tecnologia di California) è chiama-
to modello a quark. Esso prevede, in
ultima analisi, il raggruppamento degli
adroni in certe famiglie, nelle quali i
diversi componenti sono simili, fatta
eccezione per certi numeri quantici, o
proprietà fondamentali, quale la cari-
ca elettrica (esempi di numeri quanti-
ci di significato più riposto sono le
proprietà chiamate spin isotopico e
ipercarica). Il modello a quark stabili-
sce inoltre che il criterio dì raggrup-
pamento può apparire chiaro se sì sup-
pone che gli adroni siano formati se-
condo certe regole da tre costituenti
fondamentali ti quark) e dalle loro an-
tiparticelle (antiquark). Questa sche-
matizzazione ricorda da vicino la sud-
divisione di molecole in atomi, di ato-
mi in elettroni e nuclei, di nuclei in
neutroni e protoni; ora si afferma che
i neutroni e i protoni sono a loro vol-
ta costituiti da quark.
A questo punto le analogie paiono
crollare, poiché non è ancora stata
osservata nelle collisioni ad alta ener-
gia la produzione di quark come par-
ticelle libere. Per questo e altri motivi
Q
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QUADRATO DELLA MASSA D3 RIPOSO (GEV 2 )
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12 3 4 5 6
QUAOHATO DELLA MASSA DI RIPOSO (GEV a J
Le irai et tu ri e di Regge! curve ipotetiche lungo le quali possono essere raggruppate le
famiglie di adroni con differenti valori dello spin e della massa, risultano essere pres-
soché rettilinee e approssimativamente parallele! in accordo con le previsioni della teo-
ria della risonanza duale. Nella figura in alto sono indicate con linee oblique alcune
delle traiettorie dei mesoni meglio conosciute. I simboli indicano i componenti finali
di ciascuna famiglia di mesoni secondo diversi sistemi di nomenclatura; alcuni dei
mesoni indicati sono risonanze estremamente instabilì non elencate nella tabella della
pagina seguente. Le particelle dotate della proprietà chiamata stranezza sono indicate a
colori, Nella figura qui sopra sono riportate le più note traiettorie dei barioni. In que-
»lo caso ISI indica un nucleone, elle può essere o un protone o un neutrone. L'unità
di momento angolare, ~fi è ugnale alla costante di Planck ( indicata con h i divisa per 2n.
I mesoni hanno valori interi del momento angolare, mentre ì barioni hanno valori semi-
interi. La massa di riposo è espressa In unità equivalenti di energia secondo la relazione
di Einstein E = me 1 ; GeV ìndica il g ignei ellron voli* pari a un miliardo di elettronvolt*
Tutte le traiettorie nelle due figure hanno una pendenza di poco inferiore a 1/GeV*.
28
ì teorici credono oggi che i quark sia-
no permaneutemente legati all'interno
degli sdroni e non possano esser pro-
dot»» in nessun caso come particelle
libare. Un certo numero di tentativi
per comprendere il confinamento per-
manente dei quark entro gli adroni è
stato fatto nel contesto sìa dei modelli
della teoria dei campi sia dei modelli
a risonanza duale, ma finora nessuna
delle proposte avanzate è mollo con-
vincente. Al punto in cui stanno le co-
se ora, il problema del <t confinamento
dei quark » rappresenta un serio e for-
se fondamentale ostacolo a tutti gli
sforzi fin qui compiuti per costruire
una teoria completa delle particelle
elementari.
Il secondo importante schema di clas-
sificazione delle particelle non ha un
nome semplice, anche se ha avuto mol-
to successo. Secondo tale schema gli
adroni 'possono essere raggruppati in
famiglie i cui costituenti hanno valo-
ri diversi del momento angolare e della
massa, ma sono simili sotto tutti gli
altri aspetti (il momento angolare, se-
condo la teoria dei quanti, può avere
PIONI fr + .7r f iO
z
KAONI (K\ k°> K tì , K")
o
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tu
2
ETÀ ( V *)
RHO (/Ap%")
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POSITONE (e + )
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NEUTRINI fo, £ fll J>. v^)
E
FOTONE (yì
5
<
GRAVITONE
(NON ANCORA OSSERVATO*
Gli a <.! runì e i non adroni, rispettivamente
particelle soggette a interazioni forti e par-
ticelle che non lo sono, sono ulteriormente
suddivisi in quattro sottoclassi in questo
elenco parziale che comprende, tra le par-
ticelle elementari osservate, solo quelle a
vita media relativamente più lunga e me-
no pesami. I mesoni e i barioni, le due
sottoclassi degli adroni, sono contraddistin-
ti di) vari numeri quantici, come il mo-
mento angolare intrinseco, o spin. I sim-
boli soprassegnati indicano un'antiparticel-
la; in alcuni casi la particella coincide con
la propria antiparticella. I neutrini e gli
antineutrini possono essere di due tipi:
elettronico, v B e muonico, v„. Negli acce-
leratori di particelle sono stati prodotti
centinaia di adroni più pesanti a vita me-
dia più breve (chiamati anche risonanze).
solo valori discreti, multipli della co-
stante di Planck ridotta). I componen-
ti di ciascuna famìglia giacciono su
una ipotetica curva detta traiettoria di
Regge (dal nome del fisico torinese
Tullio Regge). L'idea che tutti gli adro-
ni giacciano su tali traiettorie, chiama-
ta talvolta ipotesi di Regge (anche se
il lavoro originale dì Regge non riguar-
dava gli adroni), è oggi largamente
accettata.
I fatti empirici sono molto più spe-
cifici e vanno persino al di là di quan-
to suggerisce l'ipotesi di Regge. Le
traiettorie di Regge risultano sperimen-
talmente quasi rettilinee, il che signifi-
ca che il momento angolare delle par-
tìcelle su una particolare traiettoria
è espresso con buona approssimazio-
ne da una funzione lineare del quadra-
to della massa della particella (si veda
la figura nel! a pagina precedente). Inol-
tre, tutte le traiettorie di Regge per
gli adroni consueti appaiono approssi-
mativamente parallele. Ulteriori pro-
ve sperimentali a sostegno dell'ipotesi
di Regge e della linearità delle ordina-
rie traiettorie di Regge si ricavano dal-
l'osservazione del comportamento alle
alte energie delle funzioni di probabili-
tà di interazione note ai fisici delle
particelle come sezioni d'urto di diffu-
sione. I modelli a risonanza duale go-
dono della proprietà che nella prima
approssimazione tutte le particelle giac-
ciono su traiettorie di Regge paralle-
le e rettilinee. Questo fatto assicura
che lo spettro delle particelle e le am-
piezze di diffusione hanno molti aspetti
realistici. D'altra parte, nei modelli del-
la teoria dei campi è difficile render
conto della linearità delle traiettorie
di Regge. A mio avviso questa pro-
prietà dei modelli a risonanza duale è
una delle ragioni più stringenti per af-
fermare la validità di tale linea d'at-
tacco.
Tn pratica la teoria della risonanza
duale è lo studio di una classe di
modelli matematici. Il principale obiet-
tivo è ovviamente quello di trovare l'e-
sempio particolare che si presti a de*
scrivere il nostro universo, ma ì mo-
delli finora realizzati non sono eviden-
temente in grado di farlo, anche se
presentano molti aspetti che fanno ri-
tenere di essere sulla strada giusta, qua-
li per esempio la distribuzione di Ha-
gedorn e le traiettorie rettilinee paral-
lele di Regge. Un'altra importante pro-
prietà di questi modelli è implicita nel
loro nome. Cosa si intende per riso-
nanza duale?
II termine «dualità» è stato usato
nella fisica delle alte energie con pa-
recchi significati differenti. Per evitare
confusione possiamo definire separata-
mente la «dualità teorica» dalla «dua-
lità fenomenologica». La dualità fe-
nomenologica, dal punto di vista sto-
rico, è stata scoperta per prima (nel
1967) e ha avuto un ruolo importante
nel motivare la formulazione della dua-
lità teorica un anno dopo. La dualità
fenomenologica è il fatto empirico che
quando il regolare comportamento a-
sintotico di una sezione d'urto di dif-
fusione ad alta energia viene estra-
polata all'indietro verso le energie in-
feriori, la curva che ne risulta tende
a rappresentare una media dei massi-
mi e minimi della vera sezione d'urto
(sì veda la figura netta pagina a fianco
in alio). I massimi sono dovuti a parti-
celle instabili a breve vita media chia-
mate risonanze. Anche se non manca
qualche ambiguità nel procedimento di
estrapolazione, la dualità fenomenolo-
gica ci permette di ricavare relazioni
approssimate tra i parametri che de-
scrivono il comportamento alle alte
energie e le masse e le intensità di ac-
coppiamento delle risonanze a energie
inferiori.
La dualità teorica è una proprietà
intrinseca nella costruzione dei mo-
delli a risonanza duale. Si tratta di
una precisa affermazione matematica
sulla struttura delle ampiezze di diffu-
sione calcolate in prima approssimazio-
ne, nella quale le formule sono relati-
vamente semplici poiché le risonanze
non hanno larghezza (cioè non presen-
tano dispersione in energia). I modelli
a risonanza duale vengono calcolati con
una serie di approssimazioni successi-
ve che partono e sono determinate da
questa prima approssimazione. L'intera
serie costituisce la teoria completa, ma
la dualità teorica riguarda solo la pri-
ma approssimazione. L'esatto enuncia-
to della dualità teorica è che l'ampiez-
za di diffusione calcolata sommando
tutti i contributi degli «scambi» di ri-
sonanze uguaglia quella ottenuta som-
mando tutte le risonanze di « canale
diretto » (si vedano te figure netta pa-
gina a fianco in basso). Questa formu-
lazione rassomiglia molto all'ipotesi
del bootstrap (stringa da scarpe) avan-
zata da Geoffrey Chew dell'Università
di California di Berkeley e da Steven
Frautschi dell'Istituto di Tecnologia
della California, Secondo la loro ipo-
tesi, lo scambio di risonanze fornisce
le forze necessarie per tenere insieme
le risonanze di canale diretto. Una dif-
ferenza è che il meccanismo di duali-
tà non determina l'intensità complessi-
va della forze. Il nuovo aspetto dei mo-
delli a risonanza duale che rende pos-
sibile questo fatto è che essi sono ba-
sati su un'infinità di risonanze con pro-
prietà strettamente correlate la cui
funzione specifica è di incorporare in
prima approssimazione il meccanismo
di bootstrap,
Dal punto di vista storico i modelli
a risonanza duale vennero sviluppati
inventando formule per le ampiezze di
diffusione nella prima approssimazione.
11 processo fu iniziato da Gabriele Ve-
neziano dell'Istituto Scientifico Wctz-
mann (Israele) e del CERN e fu con-
tinuato da molti altri. La teoria ven-
ne poi studiata allo scopo di dimostra-
re che essa soddisfa certi principi ge-
nerali, quali per esempio ì requisiti che
le probabilità di Interazione siano po-
sitive e diano per somma 1 e che un
segnale non possa essere ricevuto pri-
ma ancora di essere stato inviato. Ne-
gli ultimi anni è stato intrapreso con
successo un programma di ricerca che
spiegasse come queste e altre proprietà
siano intrinseche alla teoria della riso-
nanza duale. Questo metodo di attac-
co ha avuto uno stimolante impulso
dal recente lavoro di Yoichiro Nambu
dell'Università di Chicago, Léonard
Susskind dell'Università di Yeshiva
(New York), Holger Nielsen dell'Isti-
tuto Niels Bohr dì Copenaghen e altri,
i quali hanno mostrato l'esistenza di
un semplice quadro fisico degli adroni
previsto dai modelli duali, Questo qua-
dro fornisce un modo elegante per la
descrizione della teoria della risonanza
duale, anche se non è sempre il più
conveniente per i calcoli dal punto di
vista pratico.
IVambu e gli altri hanno scoperto che
in un modello di risonanza duale
gli adroni si possono considerare come
stati quantici di una corda, anche se
di un tipo molto particolare di corda.
Da un lato la corda è intrinsecamente
priva di massa e quindi il suo moto è
necessariamente relativistico: perciò,
per esempio, i suoi estremi devono
muoversi sempre con la velocità della
luce. Corde con queste proprietà so-
no dette corde di luce. La massa di
un adrone nasce dall'energia dovuta
alla tensione della corda e dall'energia
cinetica del suo moto rispetto al centro
di massa (la tensione, ricavata dalla
pendenza delle traiettorie di Regge, ri-
sulta essere di circa 13 tonnellate).
Emerge da questo fatto la differenza
tra i modelli di risonanza duale e i
modelli della teoria dei campi: le par-
ticelle elementari descritte secondo un
modello della teoria dei campi sono
puntiformi, mentre quelle di un mo-
dello di risonanza duale hanno un'e-
stensione spaziate.
Una volta accettata la possibile esi-
stenza di un'estensione spaziale è na-
turate chiedersi perché mai la struttu-
ra di un adrone debba essere monodi-
mensionale (a corda) piuttosto che bi-
o tridimensionale (a goccia). Per defi-
nizione i modelli a risonanza duale ac-
cettano solo una struttura monodi-
mensionale, fc stata esaminata anche la
possibilità di una struttura a gocce, ma
tutto ciò che sappiamo finora è che
queste teorie sono molto più difficili
dal punto di vista matematico, Secon-
do me, gii schemi esistenti basati sulle
corde sono sufficientemente realistici
da rendere plausibile che una corretta
teoria degli adroni possa essere basa-
ta su un tipo di corda ancor più fan-
tastico di tutti quelli fin qui ipotizzati.
La teoria delle corde di luce avreb-
be potuto essere studiata 40 anni fa,
ma non vi era alcun motivo per farlo
fin quando non si sospettò una correla-
zione con i modelli duali. Questo stu-
dio è un'applicazione interessante e
istruttiva dei principi della relatività
ristretta e della meccanica quantistica.
Se sì esaminano solo i moti classici
(cioè non quantistici) di corde non in-
teragenti, il problema non presenta
alcuna difficoltà, ma se si inseriscono
le imposizioni della teoria dei quanti
gli effetti sono notevoli. Una sorpren-
Ui
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iu
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ENERGIA CRESCENTE
La dualità delle risonanze è definita empìricamente mediante l'osservazione del compor-
lamento delle funzioni di probabilità di interazione chiamate sezioni d'urto di diffusio-
ne. In questo esempio la curva in grigio rappresenta la differenza tra la sezione d'urto
totale per interazioni % ¥ p e la sezione d'urto totale per interazioni T*~p, I massimi e i
mìnimi della curva* particolarmente evidenti a basse energie, indicano la presenza di
risonanze. La curva a colori è n n'estrapola zio ne a energie inferiori dei comportamento
regolare alle alte energie della curva in grigio. Il fatto che la curva a colori tenda a me-
diare i massimi e i minimi della curva in grigio viene chiamato dualità fenomenologica.
Due modi alternativi di interpretare le forze in gì oro in un'interazione in cui due
particelle elementari incidenti \ indicate con «a» e <b>) si urtano per produrre due
particelle uscenti (indicate con <c» e td*} sono indicati in questo schema. Le forze
si possono interpretare come il risultato di uno scambio di risonanze, come indicalo nel
diagramma schematico a sinistra, o come il risultato della formazione di una risonanza
intermedia che successivamente decade, come nel processo di diffusione * di canale di*
retto * rappresentato a destra» La dualità teorica consiste nel l'afferma re che questi due
processi di diffusione, trattati matematicamente in prima approssimazione, coincidono»
30
31
L'analogia delle corde senza massa si è rivelata utile nella de*
scrizione degli stati quantici degù' adroni nel modello a riso*
na ti z si duale. Gli estremi della e orda devono sempre muoversi
con la velocità della Ine e. Sebbene una siffatta « corda di luce *
sia supposta monodimensionale, la teorìa dei quanti richiede che
lo spazio nel quale la corda si muove nel più semplice dei mo-
delli di risonanza duale debba avere 25 dimensioni! Per una
data massa adrontea la corda ha un numero finito di possibili
moti nel sistema di riferimento del centro di massa, corrispon-
denti a un insieme di stati quantici discreti. Per esempio, la cor*
da può ruotare attorno al proprio centro mantenendosi tesa
fin atto), o contemporaneamente ruotare e oscillare fin basso l~
dente conseguenza è che diventa im-
possibile soddisfare contemporaneamen-
te i principi della meccanica quanti-
stica e della relatività ristretta, ;i me-
no che le dimensioni dello spazio in
cui si muovono le corde non abbiano
un valore particolare. Nel mondo rea-
le lo spazio ha ovviamente tre dimen-
sioni: nel più semplice dei modelli a
corde ne deve avere 25! Per fortuna i
differenti modelli a corde hanno diffe-
renti dimensioni critiche, in modo ta-
le che questa restrizione non rappre-
senta una difficoltà insormontabile,
Piuttosto si intravvede l'interessante
possibilità che il numero delle dimen-
sioni dello spazio possa un giorno es-
sere ricavato da altre grandezze, o al-
meno correlato ad esse*
La relazione tra le particelle elemen-
tari e gli stati di moto di una ipotetica
corda merita qualche considerazione
ulteriore. Secondo le leggi della risica
classica una corda di luce ha un'infìni-
Le corde di Iure possono interagire secondo la teoria della ri*
amanza duale o co ngi ungendosi in sinistrai, o rompendosi (al
centro l, o rompendosi e poi ri con giungendoci (a destraU Quest'ul-
timo raso è l'analogo del cros&ing over osservato nei cromosomi.
tà continua di moti possibili. La teoria
dei quanti riduce il numero di possibi-
lità nel sistema di riferimento del cen-
tro di massa a un insieme discreto di
stati quantici. Anche il numero di sta-
ti quantici è infinito, ma fino a ogni
dato valore della massa è finito: in ef-
fetti la distribuzione è esattamente
del tipo di Hagedorn. Come possibile
esempio di moto, supponiamo che la
corda stia ruotando attorno al suo pun-
to medio mantenendosi perfettamente
tesa; in questo caso la frequenza di ro-
tazione deve essere tale che il momen-
to angolare sia un multiplo intero della
costante di Planck ridotta. La lunghez-
za totale della corda è unicamente de-
terminata in ciascun caso dalla condi-
zione che i suoi estremi si muovano con
la velocità della luce. Questa classe di
stati contiene il massimo momento
angolare per una data quantità di mas-
sa, perciò gli stati adronici descritti in
questo modo corrispondono a quelli
previsti dalla traiettoria dì Regge. Vi
sono molti altri possibili moti nei qua-
li la corda subisce sia oscillazioni che
rotazioni (si vedano le figure nella pa-
gina a fronte in alto).
La teoria delle corde di luce espo-
sta sopra descrive lo spettro di par-
ticelle di un particolare modello duale
nella prima approssimazione. La situa-
zione completa è più complessa, perché
le corde possono interagire una con Tal-
ira (si vedano le figure nella pagina a
fronte in basso). Stanley Mandelstam
deirUniversità della California a Berke-
ley mostrò che la principale Interazione
può essere o La rottura di una corda in
due pezzi o la giunzione di due corde per
formarne una sola. Un'altra possibilità
è che quando due corde si toccano in
punti interni, esse si spezzino per poi
ricongiungersi in modo che ogni seg-
mento di una corda si congiunga a un
segmento dell'altra (un fenomeno ana-
logo in biologia è il doppio scambio di
frammenti dei cromosomi.) Queste re-
gole sull'interazione delle corde per-
mettono di calcolare le ampiezze di dif-
fusione per varie possibili reazioni degli
adroni. Un effetto delle interazioni e
di modificare in qualche modo le pro-
prietà degli adroni stessi. Per esem-
pio, le traiettorie di Regge non si man-
tengono esattamente rettilinee quando
nell'esame delle interazioni sì introdu-
cono correzioni al di là della prima
approssimazione.
Quando si prendono in considerazio-
ne gli effetti dell' interazione delle cor-
de, si scopre subito che è necessario un
nuovo tipo dì corda. Dato che due
corde possono interagire congiungen-
dosi agli estremi, che cosa può impe-
dire ai due estremi di una corda di
congiungersi, trasformandola in tal mo-
liti nuovo tipo di corda di luce necessario per la consistenza matematica del modello, è
una corda chiusa,, o cappio, che si forma allorché una corda aperta si congiunse agli
estremi (a sinistra). Viceversa, dovrebbe essere possibile anche la rottura di una corda
chiusa per formare una corda aperta ia destra K Particelle ipotetiche chiamate p omero ni
sembrano essere descrivibili mediante il modello di risonanza duale a corda chiusa,
ma tali particelle non sono ancora state osservate sperimentalmente in laboratorio.
do in una corda chiusa, o cappio? In
effetti la consistenza matematica ri-
chiede che gli adroni a cappio siano
inclusi nella teoria, anche se essi non
sono previsti nella prima approssima-
zione (ai veda fa figura sopra). Anche
gli adroni che corrispondono a stati
quantici di corde chiuse giacciono su
traiettorie di Regge parallele rettilinee
(nella prima approssimazione), con una
pendenza che è esattamente la metà di
quella delle traiettorie associate alle
corde aperte. La possibile esistenza di
questi nuovi stati nella teoria è ecci-
tante, poiché i fatti sperimentali richie-
dono qualcosa in più delle ordinarie
traiettorie dì Regge a corde aperte. Il
comportamento alle alte energie del-
le reazioni dì diffusione elastica ha mo-
strato un tipo di interazione diffrattiva.
Un punto di vista ampiamente sostenu-
to è che la diffusione di diffrazione può
essere spiegata in termini dì scambi
singoli e multipli della traiettoria di
Regge dì un « pomeron » (il nome
« pomeron » deriva da quello del fisi-
co russo Isaak Yakovlevich Pomeran-
chuk). Le corde chiuse costituiscono
dei validi candidati per le traiettorie
pomeronìche. Infatti, questa particola-
re teoria richiede che le particelle sia-
no associate a traiettorie pomeronìche.
Finora non è stato rivelato in labora-
torio nessun serio candidato al ruo-
lo dì particella pomeron, ma vi sono
parecchi motivi per ritenere che tali
particelle siano difficilmente rivelabili.
Oove sì inseriscono i quark nel mo-
dello a corde? Un'interessante pos-
sibilità è che essi siano particelle punti-
formi (come in qualsiasi teoria dei
campi) fissate agli estremi delle corde.
Se si suppone che compaiano nuovi
quark ogniqualvolta si formano nuovi
estremi per la rottura delle corde, allora
questo quadro fornisce una semplice
spiegazione del confinamento dei quark:
I quark possono essere inseriti in molti modi pos&ihili nei modelli di risonanza duale.
Per esempio, se si suppone che i quark siano particelle fondamentali puntiformi fissate
agli estremi delle corde di luce, sarebbe facile descrivere la sinistrai un itdrone costi'
tuito da un quark e da un antiquark (cioè mi mesone!, mentre un adrone costituito da
tre quark (cioè un barione! richiederebbe una topologia più complessa ia destra).
32
33
Primo Levi
Il sistema
periodico
Gli incontri, gli imprevisti, le
sfide del mestiere di chimico,
raccontati attraverso venturi
«momenti», ognuno dei quali
prende spunto da un elemen-
to: l'azoto, il carbonio, il ni-
chel, e cosi via, Un «romanzo
della materia» che è anche
la storia di una formazione ci-
vile, negli anni a cavallo del-
la guerra. Lire 2600.
Einaudi
i quark sono tenuti assieme da corde!
A prima vista il quadro appare promet-
tente per la classe di adroni chiamati
mesoni, che contengono un quark e un
antiquark e per gli stati pomeronici, che
non contengono quark. Gii adroni chia-
mati barioni, invece, sono composti da
tre quark ciascuno e richiedono quin-
di una costruzione più complicata, qua-
le una corda a forma di Y, in modo
da presentare tre estremi liberi ai qua-
li fissare t quark {si veda la figura nella
pagina precedente in basso). Questa to-
pologia dà origine a serie difficoltà ma-
tematiche; in effetti anche la costruzio-
ne dei mesoni presenta certi problemi. I
quark dovrebbero avere una carica elet-
trica e uno spin, ma pare che tali parti-
celle non possano attaccarsi saldamente
agli estremi di una corda in moto con
la velocità della luce. Si potrebbe an-
che cercare di rallentare gli estremi at-
tribuendo ai quark una massa, ma que-
sto solleva altri seri problemi Nono-
stante l'interesse iniziale, attaccare i
quark agli estremi di corde può rive-
larsi un metodo completamente errato
per incorporarli nei modelli a risonan-
za duale,
Un'alternativa all'idea di fissare i
quark agli estremi di corde potrebbe
essere che i vari numeri quantici (co-
me la carica elettrica) che si suppone
che i quark trasportino, siano distri-
buiti sulla lunghezza delle corde. In
questo caso i barioni non richiedono
necessariamente urta nuova topologia-
Questa ipotesi che i numeri quantici
dei quark non siano localizzati in pun-
ti ben precisi è alquanto impopolare fra
ì fisici teorici. II principale motivo sta
nel fatto che recenti esperimenti ese-
guiti al Centro dell'Acceleratore Linea-
re di Stanford (SLÀC) sulla diffusione
ad alta energia di elettroni e protoni
mostrano la proprietà chiamata scaling
(invarianza di scala).
Lo scaling è solitamente interpreta-
to come una prova diretta del fatto
che la carica elettrica air in terno di un
protone è in un dato istante localizza-
ta in uno o più punti, che^ corrispondo-
no alte posizioni dei quark. Un'altra
alternativa che dovrebbe essere compa-
tibile con lo scaling è che i quark sia-
no particelle puntiformi mobili lungo
la corda come le perle di una collana,
Sfortunatamente questo modo di af-
frontare il problema porta a una ma-
tematica molto complessa, e quindi le
sue previsioni non possono in alcun mo-
do essere verificate.
Una lacuna più grave del più sem-
plice dei modelli a corde, oltre a quella
di essere vincolato a 25 dimensioni, è
la sua incapacità di giustificare resi-
stenza dei fermioni, particelle con spin
semiintero (lo spin, come le altre pro-
prietà quantistiche, può avere solo cer-
ti valori discreti). Tra gli adroni que-
ste particelle sono esattamente quelle
chiamate barioni. Se viene rifiutata l'i-
potesi di poter ricavare uno spin se-
miintero attaccando a una corda tre
quark, ciascuno con mezza unità di
spin t allora è la corda stessa che deve
in qualche modo dare origine allo spin.
Stati di fermioni duali non interagenti
furono proposti teoricamente da Pierre
Ramond nel 1971, Poco tempo dopo
fu messo a punto da André Neveu e
dal sottoscritto un modello duale di
particelle interagenti dotate di spin
che comprendeva i fermioni di Ra-
mond. Tale modello soddisfa gli stessi
principi generali del più semplice di tali
modelli, ma prevede uno spettro di par-
ticelle più realistico. È stato dimostra-
to che una descrizione a corde di que-
sto modello è in accordo con la relati-
vità ristretta e con la meccanica quan-
tistica, purché lo spazio abbia nove
dimensioni. Anche se questo non è
ancora il numero giusto, esso costitui-
sce un passo in avanti nella direzione
giusta, Pare inoltre che esista almeno
la possibilità che sei delle nove dimen-
sioni possano essere attribuite a gradi
di libertà interni anziché allo spazio
ordinario.
Se sì riuscisse a fare ciò in un modo
pienamente autoconsistente, allora for-
se una forma modificata del modello
potrebbe essere quella giusta*
Il modello duale con spin rappresen-
ta un'estensione non trascurabile del
precedente modello duale. Mentre la
«azione» che caratterizza il modello
senza spin presenta un gruppo di sim-
metrie matematiche analogo a quello
della teoria della relatività generale, il
modello con spin presenta un gruppo
di simmetrie ancora più vasto. Se l'e-
leganza di una teoria viene misurata
dal numero di simmetrie che essa pos-
siede, allora il modello duale con spin
ha un'alta quotazione. La mia opinio-
ne è che l'eleganza, definita in questo
modo, sia strettamente correlata al-
l'importanza fìsica.
Per concludere, negli ultimi sei anni
è stata sviluppata una nuova teoria del-
le particelle elementari - la teorìa del-
la risonanza duale. Essa non ha ancora
fornito nuove previsioni di fatti speri-
mentali di rilievo che possano confer-
marne la validità (o escluderla), ma
essa rende conto in modo soddisfacen-
te di molti aspetti generali dei sistema
degli adroni.
Se si potranno superare i pochi osta-
coli che ancora rimangono, vi sono
huone probabilità che questa ricerca
possa alla fine tradursi in una teoria
completa delle interazioni forti e delle
particelle che a esse sono soggette.
34
Il mantello terrestre
Questo grande involucro di roccia incandescente comprende V80 per cento del
volume della Terra e il 6 7 per cento della sua massa. Per q uanto il mantello sia
inaccessibile, si è appreso molto su di esso attraverso esperienze indirette
di Peter J. Wyllie
ATMOSFERA
IDROSFERA
Il mantello terrestre è uno spesso gu-
scio dì roccia incandenscenle che
separa il nucleo della Terra, metal-
lieo e parzialmente fuso, dalle rocce
più fredde della sottile crosta. Esso ha
inizio a una profondità che va in media
da 35 a 45 chilometri sotto la superfìcie
e prosegue fino ad una profondità dì
circa 2900 chilometri; interessa così cir-
ca la metà del raggio della Terra, VS3
per cento del suo volume e il 67 per
cento della sua massa, Ha una profon-
da influenza sulla crosta: questa infat-
ti, con la sua sottile pellicola di oceani
e di atmosfera, è un distillato del man-
tello dal quale hanno origine le forze
propulsive che muovono lentamente ì
continenti attorno alla superfìcie ter-
restre. La conoscenza del mantello è
quindi fondamentale per la compren-
sione della struttura e del comporta-
mento dinamico della Terra. Anche se
il mantello è inaccessibile, è stata rac-
colta su di esso, con mezzi più o meno
indiretti, una considerevole messe dì
informazioni.
Il mantello esercita la sua Influenza
sulla superfìcie in molti modi, Per
esempio, nei 4,6 miliardi di anni tra-
scorsi da quando la Terra ha avuto
origine dalla nebulosa solare, il mantel-
lo, per fusione dei suoi costituenti a più
basso punto di fusione, ha prodotto lave
che hanno raggiunto la superfìcie e si
sono solidificate, aggiungendo altre roc-
ce alla crosta e liberando vapore ac-
queo e altri gas nell'atmosfera e negli
oceani. Su scala diversa ì composti gas-
sosi del carbonio provenienti dal man-
tello hanno dato inizio alla storia della
vita, fornendo la materia prima per le
molecole organiche.
Analogamente, il mantello è sede di
una forza propulsiva che ha molteplici
effetti: muovendosi lentamente sotto la
crosta, il mantello plasma la superfìcie
terrestre; determina la nascita e la per-
sistenza delle montagne che, in sua
assenza, verrebbero spianate dall'ero-
sione fino al livello del mare In meno
di 100 milioni di anni; provoca le eru-
zioni vulcaniche, i terremoti e la deriva
dei continenti*
Una sezione trasversale della Terra
ne mostra gli strati concentrici del nu-
cleo, del mantello e della crosta (si
veda la figura in alto nella pagina a
fronte). Essi differiscono l'uno dall'al-
tro per la composizione o per lo stato
fisico, o anche per entrambi. Il man-
tello è composto di minerali silicatici
ricchi in magnesio e ferro, e ha una
composizione media che corrisponde a
quella di una roccia chiamata perido-
tite dal nome del suo componente prin-
cipale, l'olivina, usata come gemma e
detta anche peridoto nella sua forma
verde e trasparente. Il mantello è soli-
do, ma in una zona relativamente sot-
tile che va da circa 100 chilometri sot-
to la superficie a circa 250 chilometri,
la roccia può essere parzialmente fusa,
con sottili pellicole di liquido distri-
buite fra i granuli minerali. Questa zo-
na, per ragioni che verranno chiarite
più avanti, viene detta strato a bassa
velocità.
La densità del mantello aumenta
con la profondità da circa 3,5 gram-
mi per centimetro cubo presso la su-
perficie a circa 5,5 grammi presso il
nucleo. L'aumento non è continuo; la
curva della densità mostra dei gradini
ben distinti (si veda la figura a pagi-
na 42). Essi indicano cambiamenti si-
gnificativi nelle rocce del mantello a
profondità vicine a 400 e 650 chilome-
tri. La distribuzione delle densità of-
fre la base per calcolare che il man-
tello costituisce il 67 per cento della
massa della Terra.
Tettonica a zolle
Questo quadro statico di una Terra
concentrica e stratificata viene modifi-
cato dalla teoria della tettonica a zol-
le, che si riferisce al moto delle zolle
di litosfera. La litosfera comprende 3a
crosta e parte del mantello superiore, e
viene distinta dairastenosfera, che le
sottostà, in base al fatto che è più fred-
da, e quindi più rigida. La teoria della
tettonica a zolle offre un quadro dina-
mico di un mantello mobile, con zol-
le di litosfera spesse circa 100 chilome-
tri che si spostano sopra i'astenosfera.
La superficie della Terra è coperta da
poche grandi zolle litosferiche e parec-
chie altre minori. Queste zolle, simili a
gusci, si muovono le une rispetto alle
altre e Tatti vi tè geologica, testimonia-
ta da terremoti e vulcani, si concentra
lungo i limiti che dividono una zolla
dall'altra, cioè lungo i margini di zolla.
I margini delle zolle sono di tipo di-
vergente o convergente, Sotto la cresta
delle dorsali oceaniche risale il materia-
le dalFastenosfera, fondendo a mano a
mano che si muove e producendo così
della lava che viene eruttata nella val-
le tettonica che si estende al cen-
tro della dorsale; in questo modo sì
genera nuova crosta. I moti convetti-
vi presenti nel 'mantello fanno diver-
gere le zolle là dove si forma nuo-
va crosta.
Dove i loro margini convergono le
zolle possono collìdere, sollevando la
crosta fino a formare montagne, op-
pure una zolla può spingersi sotto l'al-
tra, riportando nel mantello il materia-
le della litosfera; di conseguenza la
nuova litosfera che si forma è com-
pensata da quella che si distrugge al-
trove. Tali margini sono associati alle
fosse oceaniche e agli allineamenti di
vulcani, compresi gli archi di isole vul-
caniche e i vulcani nelle catene mon-
tuose attive.
Della Terra nel suo insieme sono
state determinate molte proprietà fisi-
che: le dimensioni, la forma e la mas-
sa del nostro pianeta sono state misu-
crosta
250 CHILOMETRI
100 CHILOMETRI
12-60 CHILOMETRI
2900
CHILOMETRI
L'interno della Terra delineato lenendo confo solo degli strati
e non dei processi attivi che hanno luogo nel ano interno. Le
rocce della sottile crosta sono fredde e rigide. La roccia del
DORSALE MEDIO ATLANTICA
mantello, che è ealdo, è in grado di muoverai lentamente. I dati
delle onde sismiche indicano che il nucleo esterno consiste di
metallo fuso, L'idrosfera è costituita dai! e acque di superficie.
Sezione trasversale della Terra dinamica, come viene vista dalla
teoria della tettonica a zolle. Le zolle di litosfera, la quale com-
prende la crosta e parte del mantello superiore, si spostano
lateralmente sull'astenosfera* che è uno strato del mantello cai*
do e forse parzialmente fuso. 11 materiale dell'astenosfera rìsale
sotto le «reste delle dorsali oceaniche, fonde e produce della
lava che viene eruttala e va a formare nuova crosta nel fondo
oceanico. Le zolle di litosfera divergono a mano a mano che U
materiale che risale forma della nuova litosfera; la formazione
di nuova litosfera viene bilanciala dalla distruzione di una
quantità equivalente di litosfera ai margini delle zolle che con-
vergono, dove la piastra dì litosfera si spinge giù nel mantel-
lo. Questo tipo di margine è associato in modo caratteristico
sia alle fosse oceaniche sia agli allineamenti di vulcani.
40
©
41
rate con grande precisione. In base al
suo volume e alla sua massa si può
calcolare una densità media di 5,5
grammi per centimetro cubo, molto
più alta, cioè, di quella delle rocce che
costituiscono la parte accessibile della
crosta. Una parte notevole del suo in-
terno, quindi, dev'essere composta di
un materiale a densità più alla di 5,5
grammi per centimetro cubo. Gli stu-
di sul campo gravitazionale terrestre e
sulle proprietà delle sfere rotanti indi-
cano che la massa è concentrata ver-
so il centro.
Dati sul mantello
La principale fonte di informazioni
sulla fìsica della Terra proviene dagli
studi sulle onde sismiche, le quali for-
niscono qualcosa di simile a una radio-
grafìa dell'interno della Terra. Quest'ul-
tima, infatti, quando viene scossa da
un terremoto violento, risuona come
una campana; le vibrazioni di una cam-
pana dipendono dalla sua forma e
dalle sue proprietà fìsiche, e, analoga-
mente, le vibrazioni della Terra, regi-
strate da strumenti sensibili, possono
- o
1000
2000
3000
4000
OC
P
3
O
o
z
o
u.
o
n
6000
2000 4000 6000
PROFONDITÀ DELLA SUPERFICIE
{CHILOMETRI)
3 5 7 9 11 13
DENSITÀ (GRAMMI PER CENTIMETRO CUBO)
o
1000
2000
3000
4000
5000
B9HHBHI
_L
É ;■ '
\ 1 —
o
J
x
o
<
H
5
z
o
LL
o
a:
2000
PROFONDITÀ DELLA SUPERFICIE
(CHILOMETRI)
1 2 3 4 5
TEMPERATURA {MIGLIAIA DI GRADI CELSIUS)
*--- ~ ~-—- ^-^ tir" 1- * ^"i~T -~~~^ ir»nTi ?— ' * — " t— r t~ — r*
- -j
i- 1— I—
1000
2000
■ 3000
o
a
z
o
il
o
ce
6000
2000 4000 6000
PROFONDITÀ DELLA SUPERFICIE
(CHILOMETRI)
12 3 4
PRESSIONE (MILIONI DI ATMOSFERE)
Le proprietà fisiche della Terni variano con la profondità della superfìcie. Le profon-
dità sui grafici della densità» della temperatura e della pressione corrispondono alle
profondità sulle sezioni disegnate a sinistra. Un'atmosfera corrisponde alla pressione
che l'aria esercita al livello del mare e vale 1033 grammi per ogni centimetro quadrato.
venire interpretale in modo da avere
indicazioni sulle sue proprietà.
La liberazione di energia al fuoco
(ipocentro) di un terremoto genera di-
versi tipi di onde: sia le onde primarie
P sia le onde secondarie S, più lente, si
propagano all'Interno della Terra. Le
abbreviazioni servono anche a ricor-
dare che l'energia viene trasmessa in
due modi diversi lungo un certo per-
corso: le onde P sono onde di compres-
sione e rarefazione, mentre le onde S
sono dovute a deformazioni di taglio
(sì veda la figura nella pagina a fronte).
Le onde P attraversano sia i solidi sia
i liquidi, le S t invece, vengono trasmes-
se soltanto dai materiali che possono
subire deformazioni di taglio, cioè ma-
teriali che possono venire piegati o de-
formati. Un'onda S non può attraver-
sare un liquido perché il liquido non
offre resistenza a deformazioni di ta-
glio e scorre, invece, molto facilmente,
Se le proprietà del materiale che
compone la Terra fossero uniformi
dappertutto, le onde, uscendo dai fuo-
co di un terremoto, seguirebbero linee
rette e ogni tipo di onda si propaghe-
rebbe a velocità costante. Il tempo im-
piegato dalle onde P e S a raggiunge-
re una certa stazione di registrazione,
posta a distanza nota dal fuoco, dareb-
be la velocità di ogni tipo di onde. In
realtà, invece, i risultati ottenuti da
molti terremoti indicano che le onde
viaggiano all'interno della Terra a ve-
locità superiore a quella che si potreb-
be prevedere in base alle velocità che
si conoscono nelle rocce superficiali.
Inoltre questi risultati indicano che
le onde che percorrono distanze mag*
giori viaggiano anche a velocità supe-
riore. Questi dati significano che la
velocità delle onde sismiche u grande
profondità è maggiore che presso la
superfìcie e che essa aumenta progres-
sivamente con la profondità.
In base a queste e ad altre osserva-
zioni è noto che le onde sismiche al-
l'interno deìla Terra vengono riflesse
e rifratte. In seguito alla rifrazione es-
se seguono dei percorsi concavi verso
l'alto. Si ha riflessione a quelle profon-
dità alle quali si hanno dei cambiamen-
ti improvvisi nelle proprietà fisiche. La
riflessione si verifica quindi ai limiti:
fra crosta e mantello, fra mantello e
nucleo, fra nucleo esterno e nucleo in-
terno. Queste caratteristiche delle on-
de sismiche testimoniano la struttura
concentrica della Terra; le onde S se-
guono percorsi che non vanno oltre il
limite mantello-nucleo: non attraver-
sano cioè il nucleo, e questo dato dimo-
stra che almeno la parte esterna del nu-
cleo è liquida.
La misura dei tempi di viaggio delle
onde lungo diversi percorsi nel man-
DIREZIONE DI PROPAGAZIONE
DIREZIONE DI PROPAGAZIONE
Onde sismiche di due tipi si propagano nell'interno della Ter-
ra a partire dal fuoco di un terremoto, dove si libera dell'ener-
gia. Esse sono qui rappresentate mentre attraversano un hi orco
di r ni tì a. A sinistra è un'onda di compressione, o P, che ha ori
gine da una pressione o una rarefazione improvvisa in direzione
della propagazione dell'onda. Questa comprime la roccia e le
particelle vicine st muovono in avanti; poi rimbalzano indietro
alla posizione iniziale e oltre, continuando a vibrare in questo
modo per qualche tempo. Ogni volumetto di materia f colore) st
contrae e si espande man mano che Fonda di compressione st
muove nella roccia, Un*onda trasversale, o S„ ha origine da una
pressione ad angolo relto con la direzione di propagazione» Le
particelle di roccia vibrano in su e in giù; un pezzetto dì ma*
lertalc i colare) subisce deformazioni di taglio» Il fronte d'onda
trasmette energia. Questa illustrazione è stata adattata da La Geti-
fisica, di O. M. Phillips pubblicata in Italia da Mondadori Est.
42
43
tello fornisce un modo per calcolare a
che velocità si trasmettono le onde nel
materiale che compone il mantello alle
varie profondità. I diagrammi della
velocità delle onde sismiche mostrano
un aumento progressivo con la profon-
dità, ma fino a circa 1000 chilometri
gli aumenti avvengono a salti. Queste
osservazioni indicano che il mantello ha
una struttura stratificata. La velocità
sia delle onde P sìa delle onde S net
mantello diminuisce in una zona che
va circa da 100 a 250 chilometri dalla
superficie, Questo è io strato a bassa
velocità a cui si è già accennato: nel
modello della tettonica a zolle è consi-
derato equivalente alFastenosfera. Le
proprietà fisiche di questo sdraio, dedot-
te dai grafici della velocità delle onde e
da altri dati georìsici, sono in accordo
con la presenza di un liquido intersti-
ziale, che in genere è ritenuto una fra-
zione fusa della roccia stessa che com-
pone lo strato.
Margini di zolla
I terremoti ci offrono non solo que-
sto quadro statico di una Terra a stra-
ti concentrici, ma anche alcuni aspetti
del quadro dinamico della tettonica a
zolle- Poiché i terremoti avvengono
soltanto in rocce che siano abbastanza
Fredde e rigide da potersi fratturare, la
distribuzione dei loro fuochi indica i
margini delle zolle stabili, La profon-
dità dei fuochi che sì trovano lungo i
margini associati a dorsali oceaniche è
inferiore ai 100 chilometri, e questo
indica che il mantello al di sotto della
litosfera è caldo.
Presso i margini convergenti, dove
una zolla sprofonda nel mantello al di
sotto di un'altra, i fuochi dei terremoti
si spingono fino a profondità attorno
ai 700 chilometri. La distribuzione di
questi fuochi profondi permette di indi-
viduare \ frammenti di litosfera che af-
fondano; studi dettagliati sulla veloci-
tà delle onde sismiche in queste zone
confermano resistenza di piastre di li-
tosfera più fredda del mantello che si
estendono dentro di esso fino a profon-
dità considerevoli,
Le informazioni sulla struttura e sul-
le proprietà fisiche del mantello che ci
vengono date dalle onde sismiche sono
abbastanza dirette; al contrario, per
ottenere delle informazioni sulle pro-
prietà chimiche dell'in terno delia Ter-
ra, bisogna ricorrere essenzialmente a
dati indiretti. I soli campioni chimici
disponibili sono alcune rocce giunte
nella crosta dagli strati più superficia-
li del mantello. Per poter valutare la
composizione della Terra nel suo insie-
me, e quella del nucleo e del mantello,
bisogna affidarsi alla chimica dei cor-
pi extraterrestri, ivi compresi le meteo-
riti, il sole e le stelle. Si suppone che Ja
composizione di questi corpi sia sostan-
zialmente simile a quella della Terra.
FUOCO DEL TERREMOTO
Questo modo di affrontare il problema
comporta la formulazione di modelli
fisici e chimici sull'orìgine dei sistema
solare e della Terra-
Si accetta, in genere, che il sistema
solare si è formato 4,6 miliardi di an-
ni fa per il collasso gravitazionale di
materia che prima si trovava dispersa
nello spazio interstellare. Un grande
precursore del Sole, un proto Sole, era
circondato da una sottile nebulosa, a
forma di disco, formata di gas e parti-
celle di polvere. L'aggregazione locale
di particelle e la condensazione di gas
al Tin terno della nebulosa rotante for-
marono dei piccoli oggetti che, aggre-
gandosi, diedero luogo a corpi planeta-
ri. In questo periodo si formò il ma-
teriale delle meteoriti. Poiché il Sole
comprende più del 96,6 per cento della
massa del sistema solare, la sua compo-
sizione è realmente la stessa di tutto il
sistema solare. La concentrazione degli
elementi nel Sole e nelle altre stelle è
stata misurata con metodi spettroscopi-
ci, in base al fatto che ogni elemento
viene identificato dalla sua radiazione
elettromagnetica caratteristica,
Cosa rivelano le meteoriti
Le meteoriti viaggiano adesso attra-
verso il sistema solare su orbite ellit-
tiche che di tanto in tanto intercetta-
no la Terra. Esistono prove che esse
provengono dalla fascia degli asteroidi,
FUOCO DEL TERREMOTO
I percorsi delle onde sismiche nell'interno della Terra danno
delle informazioni sulla sua struttura e bulle proprietà fisiche
dei suoi strati concentrici, Dal fuoco di un terremoto l'energia
si propaga in tulle le direzioni. Se le proprietà della Terra fot*,
aero dappertutto uniformi i percorsi delle onde seguirebbero li-
nee rette fa sinistrai e le veloiità delle onde sarebbero costanti.
44
Le misure dei tempi di viaggio mostrano invece che la velocità
delle onde, e quindi le proprietà fisiche, cambiano improvvisa-
mente a certi livelli (ti destra), rivelando così gli strati concen-
trici. Le onde P vengono trasmesse sia dai solidi che dai liquidi.
Le onde S, non trasmesse dai liquidi, non attraversano il nu-
cleo : almeno i] nucleo esterno della Terra è allo stato liquido.
quello sciame di piccoli corpi planete-
simali che orbitano a distanze fra 2,2
e 3,2 unità astronomiche dal Soie (si
veda anche l'articolo La natura degli
asteroidi su « Le Scienze *, n> 81, mag-
gio 1975). Le meteoriti sono molto va-
riabili per composizione chimica, per
mineralogia e per struttura, ma per lo
scopo di questa discussione sarà suffi-
ciente distinguerne i due gruppi prin-
cipali: le meteoriti ferrose e le meteo-
riti litoidi. Le meteoriti ferrose sono
costituite essenzialmente da leghe <H
ferro-nichel, in cui la concentrazione di
nichel varia ira il 4 e il 20 per cento:
contengono anche piccole quantità dì
solfuro di ferro.
Le meteoriti litoidi sono composte
essenzialmente da minerali silicatici, as-
sieme a leghe metalliche e solfuro di
ferro in varie proporzioni. Le abbon-
danze relative dì elementi non volatili
quali il magnesio, il calcio e il ferro so-
no più o meno le stesse, in molti tipi di
meteoriti litoidi, che si hanno nel Sole
e nelle altre stelle. Se ne deduce quindi
che queste abbondanze forniscono una
buona base per la stima delle abbon-
danze complessive nella Terra e negli
altri pianeti.
Nei modelli complessi sull'origine e
sull'evoluzione del sistema solare la
composizione della Terra viene ricavata
a partire da una meteorite litoide ricca
in elementi volatili e immaginando una
serie di processi e di cambiamenti chi-
mici che potrebbero spiegare gli altri
tipi di meteoriti e l'attuale struttura
della Terra. Questi calcoli permettono
delle stime della composizione del nu-
cleo e del mantello.
Un metodo d'indagine più semplice,
che fornisce risultati simili, è di sceglie-
re un certo gruppo di meteoriti litoidi
e di supporre che la composizione me-
dia della loro frazione silicatica sia
equivalente a quella del mantello terre-
stre, I solfuri di ferro e una parte suffi-
ciente delle leghe ferro-nichel delle
stesse meteoriti forniscono una stima
della composizione del nucleo terrestre.
Le meteoriti ferrose servono come
controllo per questi calcoli.
Qualsiasi procedimento venga segui-
to, le stime della composizione del man*
tello sono d'accordo sui seguenti punti:
I) più del 90 per cento (in peso) del
mantello consiste di ossidi di silicio,
magnesio e ferro (Si0 2 , MgO e FeO),
e nessun altro ossido supera il 4 per
cento; 2) gli ossidi dì alluminio (Àl 2 Oj),
calcio (CaO) e sodio (Na 2 0) in totale
oscillano fra il 5 e 1*8 per cento; 3)
questi sei ossidi rappresentano più del
98 per cento del mantello, e nessun al-
tro ossido raggiunge una concentrazio-
ne dello 0,6 per cento. Le concentra-
ci
<
oc
(E
LU
H
5
_l
_
500
1000
1500
2000
ZdCO
3000
3500
MANTEUO
f
\
NUCLEO
6 e 10 12
VELOCITA DJ PROPAGAZIONE (CHILOMETRI AL SECONDO)
14
Diagrammi di velocità delle onde sismiche che ultra vergano il mantello, disegnali per
le onde S {in nero) e P Un colore), Le velocità risentono dell'aumento di temperatura e
pressione con la profondità, ma i gradini che appaiono a intervalli lino a profondità
di circa lOflO chilometri corrispondono a cambiamenti nelle proprietà fìsiche del man-
tello. La diminuzione di velocità fra 100 e 250 chilometri prò ha hi 1 mente è dovuta alla
presenza di roccia parzialmente fusa : questa è Tastenosfera mobile della tettonica a zolle,
zionì degli altri elementi, presenti in
tracce, non vengono definite, Nelle roc-
ce del mantello gli ossidi sono combi-
nati in minerali diversi.
Solo le pendoliti, fra tutte le rocce
che si trovano nella crosta, corrispon-
dono alle stime della composizione del
mantello eseguite attraverso lo studio
dei corpi extraterrestri. È dunque a
tali pendoliti che si rivolge l'attenzione
dei geologi che sì interessano al man-
tello e che desiderano altri dettagli, fra
cui le concentrazioni degli elementi in
traccia. Il problema, ovviamente, è di
assicurarsi che il campione di pendo-
li te che si sta studiando si sia formato
nel mantello e non nella crosta. Per
questa ragione hanno un interesse par-
ticolare quegli inclusi arrotondati, detti
noduli, che si trovano nei camini (pi-
pes) kimberlitici (intrusioni cilindriche,
del diametro di qualche centinaio di
metri, che in certe zone perforano la
crosta e che provengono dal mantello).
Kimberliti e lave
Le kimberliti sono celebri come roc-
ce che portano i diamanti alia superfi-
cie terrestre. 11 diamante è una fase del
carbonio stabile soltanto a pressioni
elevatissime; quindi sì può essere certi
che le kimberliti hanno origine nell'in-
tervallo compreso fra i 150 e i 300
chilometri di profondità dalla superfi-
cie - ben dentro il mantello superiore.
Diversi fatti indicano che un camino
kimberlitico, al momento della sua for-
mazione, risale rapidamente attraverso
la crosta come sospensione fluida di
solidi, roccia fusa e gas, irrompendo al-
la superficie con un tremendo scop-
pio e dando luogo a una breve esplo-
sione vulcanica. Fra i pezzi di roccia
strappati dal condotto del camino e ri-
portati alla superficie sì hanno noduli
dì peridotite e, meno frequentemente,
noduli di eclogite, un'altra roccia del
mantello. Questi noduli sono arroton-
dati e lucidati per gli urti continui con
gli altri frammenti spìnti dal gas nel
camino esplosivo.
Anche in certe lave vulcaniche si
hanno delle associazioni di noduli si-
mili a quelle che si trovano nelle kim-
berliti. In genere questi noduli proven-
gono da livelli del mantello più super-
ficiali di quelli delle kimberliti. Molte
*3
stime della composizione del mantel-
lo si sono basate sulla mineralogia e
sulla chimica delle associazioni di no-
duli delle kimberliti e delle lave. A
questo scopo sono state usate anche
pendoliti che si trovano in altri am-
bienti geologici, per quanto con que-
ste ultime sia particolarmente impor-
tante tenere conto della natura dell'as*
sanazione geologica con altre rocce e
dei risultali dei processi geologici, per
essere ben certi che i risultati ottenuti
in base alle misure eseguite sulla roc-
cia si riferiscano davvero al mantello e
non a fenomeni della crosta,
Oltre allo studio dei corpi extraterre-
stri e delle rocce del mantello, un ter-
zo mezzo dì indagine è quello di calco-
lare ta composizione chimica di una
pendolile immaginaria adatta a forni-
re le lave vulcaniche che derivano dal
mantello per fusione parziale. La fu-
sione dà luogo al magma basaltico che
viene eruttato abbondantemente alla
superfìcie dai vulcani e lascia nel man-
tello dietro di sé una peridotite resi-
duale, presumibilmente impoverita de-
gli elementi a più basso punto di fusio-
ne che» fondendo, sono stati asportati
dal magma, Assegnando una composi-
zione chimica adeguata alla peridotite
residuale si arriva a una ipotetica com-
posizione del mantello superiore; que-
sta peridotite ipotetica è stata chiama-
ta pirolite (roccia a pirosseno e olivina).
II mantello eterogeneo
Un tempo si supponeva, sulla base di
modelli fisici, che il mantello superio-
re avesse una composizione omogenea,
Invece, come abbiamo visto, gli studi
geofisici dettagliati degli ultimi anni in-
dicano una struttura stratificata, In ef-
fetti i noduli che sono stati studiati
confermano il fatto che il mantello su-
periore è molto eterogeneo, sia da un
punto di vista chimico che mineralo-
gico. I campioni a disposizione proven-
gono da una zona del mantello che va
dal limite con la crosta alla zona di
origine dei camini kimbe ri itici, da un
intervallo di profondità, cioè, fino a
250 chilometri. Si potrebbe sperare di
trovare, fra i noduli, campioni della
peridotite originale del mantello, che
non sìa mai stata fusa; campioni di pe-
ridotite residuale impoverita, dalla qua-
le, cioè, è stata asportata una frazione
fusa dei componenti a più basso punto
di fusione; campioni di questa frazione
fusa che non sono riusciti a raggiunge-
Bollirìne di anidride carbonica che compaiano in una mirrografia elettronira di un
campione di peridotite, L*in grandi mento è di 2fl Oflfl diametri. Le bollicine, che com-
paiono nelle discontinuità della struttura cristallina, dimostrano la presenza di anidri»
de carbonica nel mantello* La micrografìa è stata realizzata- da Harry W, Green IL
re la superficie come magma, ma so-
no invece cristallizzati nel mantello
sotto alta pressione Formando della
eclogite; campioni intermedi fra i ti-
pi accennati e campioni dalla stessa
composizione mineralogica, ma formati
da altri processi, troppo complicati per-
ché si possano prendere in considera-
zioni qui.
Le stime sulta composizione del man-
tello nel suo complesso, basate sul-
l'esame dei corpi extraterrestri, for-
niscono dei valori simili a quelli che
si ottengono dallo studio delle roc-
ce che hanno origine nel mantello su-
periore. Queste stime, nel loro insieme,
fanno pensare che il mantello, dairalto
in basso, come composizione, non cam-
bi molto. Paragonando queste stime,
però, si trova che la concentrazione di
potassio del mantello superiore nel mo-
dello della pirolite è notevolmente più
alta dì quella che si trova nelle rocce
peridotìtiche che derivano dal mantel-
lo, e entrambe sono molto più basse
delle stime ottenute dallo studio dei
corpi extraterrestri.
Rimangono ancora grandi incertezze
su concentrazione e distribuzione di
altri elementi in traccia e di compo-
nenti volatili come l'acqua e l'anidride
carbonica, Questi componenti hanno
un significato fondamentale per defini-
re la quantità di energia termica ge-
nerata per decadimento radioattivo (di
elementi come Turante», il torio e riso-
topo radioattivo del potassio, il potas-
sio-40), la temperatura di fusione (in
presenza di piccole quantità di acqua
ad alta pressione le rocce cominciano
a fondere a temperature più basse del
punto di fusione della roccia asciutta)
e la resistenza fisica del mantello (che
verrebbe notevolmente ridotta dalla
presenza di piccole quantità di materia
fusa fra i granuli minerali o di bolli-
cine interstiziali di gas).
Acqua e anidride carbonica.
In certi noduli pe rido ci liei si trova
della flogopite e dell'anfibolo, che sono
minerali idrati, che, cioè, incorpora-
no dell'acqua. Questa viene accettata
come una prova dell'esistenza di acqua
per lo meno in certe parti dei mantello
superiore. È dubbio se la concentra*
zione dell'acqua possa superare lo 0,1
per cento in peso, ed è probabile che la
sua distribuzione non sia uniforme.
L'esame microscopico ha mostrato
che i cristalli di olivina e pirosseno in
alcuni noduli peridotitici di kimberliti
e lave contengono numerose cavità dal
diametro fino a 5 micrometri, Molte
di esse sono piene di densa anidride
*
'-.4
*~>
•;.»
La peridotite a mica e granalo Ui sinistra) e l'er-logite U destra)
sono rocce che provengono dal mantello. La peri dotile consiste
principalmente dì olivina \ giallo verdastro)* ma contiene anche
granato trossoU pirosseno rombico e pirosseno tnonoclino f ver-
de brillante K I campioni contenenti mica, un minerale che con-
itene acqna nella sua struttura, sono rari. Questo campione pro-
viene dalla Tanzania. L/eclogite (questa proviene da una minte*
ri in Sudafrica! è composta da granato (rosso) e da un pirosseno
monoctino tverdeK I minerali sono stratificali. Le rome del
mantello vengono portate alla superficie dai camini kimberli-
ti ci e da certe lave vulcaniche. Queste fotografie sono sta-
te fornite da J, B, Dawson, deirÙ ni versila di $L Andrews»
carbonica liquida, intrappolata ad ul-
ta pressione. Ciò indica la presenza di
anidride carbonica sotto qualche for-
ma, nel mantello superiore.
La microscopìa elettronica ad alta
tensione ha recentemente fornito dei
quadri veramente dettagliali sui difet-
ti reticolari, cioè sulle discontinuità
nelle strutture cristalline che si trova-
no nei singoli granuli minerai] . I di-
fetti non possono essere visti al micro-
scopio normale. Nelle micrografie elet-
troniche, lungo le discontinuità nel-
l'olivina e ne) pirosseno di certi noduli
peridotitici, si vedono numerose bolli-
cine dì anidride carbonica. Ciò fa pen-
sare che inizialmente l'anidride carbo-
nica doveva essere discìolta nei mine-
rali solidi, mentre poi per essoluzione
è precipitata in goccioline dì gas a cau-
sa delle deformazioni elastiche presso i
difetti reticolari.
Le determinazioni indipendenti delie
proprietà fisiche e chimiche del man-
tello devono essere coerenti fra di loro.
Per controllare se sono coerenti biso-
gna conoscere le proprietà fìsiche di
un materiale di composizione uguale a
quella stimata per il mantello nell'in-
tervallo di pressioni e temperature che
esistono in quest'ultimo. Se è possibile
determinare in che modo varia la mi-
neralogìa in funzione della pressione e
della temperatura si ha un modo per
valutare la profondità da cui proviene
un campione di roccia e la temperatura
esistente a quella profondità quando la
roccia vi si è formata o ha raggiunto
requii ibr io con l'ambiente circostante.
Pressione e temperatura
La struttura dei silicati è controllata
dalle posizioni degli atomi di ossigeno;
gli altri atomi, che sono molto più
piccoli, occupano gli spazi fra di essi.
A bassa pressione ogni atomo di silicio
è circondato da quattro ossìgeni, 1 cen-
tri dei quali formano un tetraedro; si
dice che il silicio ha coordinazione quat-
tro. À pressioni molto superiori gli ato*
mi di ossìgeno vengono schiacciati gli
uni contro gli altri e si riorganizzano in
una struttura più densa, con gli atomi
di silicio a coordinazione set. Questa
riorganizzazione della struttura cristal-
lina è una transizione di fase. Le va*
riazioni brusche delle proprietà fisiche
del mantello sono causate da transi-
zioni di fase successive.
A partire da un materiale con una
certa composizione, come la peridotite
che si immagina che esista nel mantel-
lo, le transizioni di fase dipendono dal-
la pressione e dalla temperatura. Per
via sperimentale è stato determinato
un diagramma delle transizioni di fa-
se della peridotite, con strumentazio-
ni di laboratorio capaci di raggiun-
gere i 200 kilobar (200 000 atmosfe-
re, equivalenti alla pressione che esì-
siste 600 chilometri sotto la superfìcie
terrestre). Questo diagramma, con me-
todi indiretti, è stato esteso anche a
una larga fascia di pressioni superiori.
Dai noduli nelle kimberliti e nelle
lave è noto che nel mantello le pendo-
liti possono cristallizzare almeno in tre
associazioni mineralogiche: pe ridotiti a
plagioclasio. pendoliti a spinello e pe-
ndoliti a granato. Gli esperimenti ad
alta pressione dimostrano che queste
associazioni sono legate da passaggi di
fase, All'aumentare della pressione le
pendoliti a plagioclasio si trasformano
prima in peridotiti a spinello e quindi
in peridotiti a granato (si vedano te
figure alle pagine 52 e 55),
Alcuni studi sperimentali dimostrano
che, a pressioni ancora superiori, la
peridotite a granato subisce una transi-
zione di fase che comporta un aumen-
to di densità di almeno il 10 per cento;
l'olivina, che predomina nel mantello
superiore, si trasforma in un materiale
simile allo spinello e il pirosseno allu-
minifero si trasforma in una struttura
simile al granato, che si combina in
soluzione solida col granato già presen-
te, À pressioni prossime ai 200 kilobar
i minerali vengono ancora compressi in
strutture in cui tutti gli atomi di silì-
cio hanno coordinazione sei, dando
luogo a minerali sconosciuti alla su*
perfide della Terra. Questa compres-
sione risulta da un nuovo aumento di
densità di circa il 10 per cento. La
pressione a cui effettivamente avven-
gono i passaggi di fase aumenta all'au-
mentare della temperatura.
Ad ogni determinata profondità un
46
47
Ne/fa foto a co/ori un* vettura OPEL trasformate in uno serra di fre-
schezza da un condiziona tor e DfLCO GENERAL.
Ne Ha fofo sopra, sono visibìli /e due manopole per regolare il flusso
o la femperafura dell'aria.
t'impiego de/ compressore frigidaire f it nome più prestigioso netta pro-
duzione mondiale dei compressori, garantisce /a qualità dell'impianto
DELCO GENERAL
48
aumento di temperatura può portare la
roccia al punto dove inizia la fusione.
Questa temperatura aumenta con la
pressione, come è indicato dalla curva
detta «solitili*» nel diagramma delle
fasi {sì veda ìa figura a pagina 52\ Una
roccia composta da diversi minerali
fonde progressivamente attraverso un
intervallo di temperatura in cui cristalli
soJidi coesistono con del liquido. La
fusione completa è contrassegnata dal-
la curva detta «Jiquidus».
GH effetti della temperatura si pos-
sono studiare per mezzo di una geo-
terma, cioè una curva che dà la tem-
peratura ad ogni profondità all'interno
della Terra. Se questa curva viene ri-
portata sul diagramma dì fase della pe-
ridotite ogni suo punto occupa una
certa posizione sul diagramma delle
fasi» e quindi definisce anche l'associa-
zione mineralogica della pendolile a
ogni profondità. Seguendo una geoter-
ma sul diagramma delle fasi sì può co-
struire una sezione trasversale attra-
verso un mantello ipotetico composto
di peridotite. Ogni strato è costituito
da una particolare associazione mine-
ralogica.
I limiti fra gli strati del mantello si
hanno presumìbilmente alle profondità
in cui la geoterma taglia i passaggi di
fase. Risulta da tutto ciò che questi li-
miti corrispondono strettamente alle
profondità alle quali camhia la veloci-
tà delle onde sismiche. Questo risulta-
to viene considerato come una buona
prova che la composizione del mantel-
lo è prossima a quella della ipotetica
peridotite e che la struttura stratifica-
ta del mantello superiore è dovuta a
transizioni di fase piuttosto che a cam-
biamenti di composizione,
La diminuzione nella velocità delle
onde sismiche nella zona a bassa ve-
locità si può spiegare con la presenza
di acqua o anidride carbonica nel man-
tello superiore. Entrambe potrebbero
provocare un inizio di fusione nella
peridotite del mantello superiore. Il ri-
sultato è un cambiamento nelle pro-
prietà fisiche della roccia. E se non
fosse presente acqua, forse, un effetto
simile potrebbe essere provocato da ani-
dride carbonica inlergranulare.
Nella prima metà di questo secolo la
maggior parte dei geofisicì era convin-
ta che la convezione, cioè la risalita
di materiale più caldo e la discesa di
materiale più freddo, non poteva av-
venire nel mantello, solido e rigido.
Questa è una delle ragioni per cui per
tanto tempo la teoria della deriva dei
continenti non riuscì a trovare sosteni-
tori. Recentemente, tuttavia, in un cer-
to numero di modelli la convezione
nel mantello è stata assunta come |
meccanismo propulsore per la migra-
zione delle zolle di litosfera, I dettagli
sul moto del mantello e sulla scala del-
la convezione restano incerti, ma vi
sono pochi dubbi sul fatto che le velo-
cità sono estremamente basse - così
basse che ne] la normale scala dei tem-
5
O
100
ir
200
D
Z
O
u-
O
te
300
400
1000 2000
TEMPERATURA (GRADI CENTIGRADI)
3000
Lo sfrato a bassa velocità nel mantello superiore sembra the possa essere spiegalo dal-
la presenza di aequa e anidride carbonica, che abbassano la curva del « solidus % e fan*
no fondere la roccia a temperatura e pressione più basse. L'anfibolo e la flogopite,
minerali idrati, cioè contenenti acqua, sono stabili in un intervallo di temperatura
limitalo (in colore), Paragonando questo diagramma a quello per rorre del mantello
asciutte sì vede che la curva geolerma passa da una fase dì peridotite solida u una
di peridotite parzialmente fusa alla profondità di circa 100 chilometri, che corrisponde
esattamente al letto della zona a bassa velocità che si osserva nel mantello superiore.
pi umani il mantello è praticamente
fermo.
Le zolle di litosfera, coi loro conti-
nenti sul dorso» si muovono alla velo-
cità di qualche centimetro all'anno.
Supponiamo che zi materiale del man-
tello si muova alla velocità di cinque
centimetri alFanno, il che equivale a
circa 0,005 millimetri all'ora. La punta
della lancetta di un normale orologio
a pendolo da casa si muove a cinque
centimetri all'ora, ed il suo moto non
viene avvertito direttamente dai rocchio
umano. Eppure questa velocità è 10000
volte più alta di quella calcolata per il
mantello. Nfa anche così un moto di
cinque centimetri all'anno è molto si-
gnifìcativo nel tempo geologico; una
particella di roccia potrebbe spostarsi
dal fondo alla parte più alta del man-
tello in 58 milioni di anni, e cioè in
una frazione molto piccola dei 4,6 mi-
liardi che rappresentano l'età della
Terra.
/ moti del mantello
Come è possibile che le rocce scor-
rano, seppure così lentamente? Quan-
do un fabbro prende una sbarra di
acciaio freddo non è in grado dì pie-
garla, ma se la riscalda fino a farla di-
ventare rossa allora la può piegare fa-
cilmente, anche se la sbarra è ancora
solida. Analogamente si possono de-
formare le rocce del mantello, che so-
no ad alta temperatura, anche se stan-
no ancora allo stato solido.
L'olivina! il pirosseno e le peridotiti
sono stati sottoposti a deformazioni ad
alta pressione e temperatura in una se-
rie di esperimenti dì laboratorio: si de-
formano davvero. Recentemente sono
stati studiati al microscopio elettronico
ad alta tensione i campioni deformati,
per stabilire il meccanismo degli scorri-
menti plastici. Una conclusione che si
ricava da questo lavoro è che le defor-
mazioni si verificano prima nei singo-
li cristalli, i quali poi rie ristai lizzano
formando un mosaico di nuovi granuli,
fi meccanismo dello scorrimento varia
in funzione della temperatura e della
pressione.
Sono stati proposti degli schemi di
celle di convezione molto grandi, che
si estendono per tutto il mantello ($t
veda la figura nella pagina a fronte).
Un modello alternativo, che si basa sul-
l'argomentazione che l'assorbimento di
calore nelle transizioni di fase ridur-
rebbe la forza motrice, confina la con-
vezione al mantello superiore, al di
sopra della transizione olivina-spinello.
Un terzo modello limita la convezione
all'astenosfera, che è uno strato del
mantello che si trova fra i 100 e i 300
chilometri di profondità. Tuttavia le
DORSALE
FOSSA
LITOSFERA
MANTELLO
PUNTO CALDO
X
Modelli di convezione proposti per spiegare come l'attivila nel
mantello muove le solle di litosfera. Nella convezione il mate-
riale più caldo sì muove verso l'alto e U materiale più freddo
si muove verso il ba&go. Secondo un modello (a) le celle con-
vettive si estendono attraverso l'intero mantello. Nel secondo
modello lo! esse sono confinate a profondila inferiori alla tran-
sizione spi nello »oLivina. Un terzo modello (e) limita ì moti del
mantello a) la ste nosfera. Nel modello del « piume * termico (d'i
tulli i movimenti verso Palio sono limitati a pochi piume ter
miei; quelli verso il basso sono estesi a tutto il mantello.
zone di su bd tizio ne, dove il materiale
della litosfera ritorna nel mantello e si
collega quindi alle forze convettive,
sembrano giungere fino a profondità
di 700 chilometri, Un altro modello sul
meccanismo che muove le zolle fa ap-
pello a « plumes » (ciuffi o pennacchi)
termici nel mantello. Secondo questa
teoria tutti i movimenti verso l'alto del
materiale del mantello sono ristretti a
circa 20 piume, ognuno dei quali ha
un diametro di poche centinaia di chi-
lometri e risale dai limile tra nucleo e
mantello. Il movimento di ri tomo vie-
ne effettuato tramite un lento moto
verso il basso del resto del mantello.
Quando un piume raggiunge la lito-
sfera il flusso diventa orizzontale, espan-
dendosi radialmente in tutte le direzio-
ni. Un piume crea un punto caldo, con
attività vulcanica in superficie, e può
causare una risalita della litosfera ver-
so l'alto. In questo modo i piume po-
trebbero causare il movimento delle
zolle di litosfera.
L'ipotesi del punto caldo attuai me n-
te è un'idea calda, e molli geologi ne
stanno studiando le implicazioni per di-
versi fenomeni, fra cui Je caratteristi-
che delle catene di isole vulcaniche co-
me le Hawaii. Questa ipotesi, comun-
que, ora è stata messa sotto processo
da parte degli studiosi della Terra che
dubitano che un piume possa rimanere
un tutto unico mentre risale per 2800
chilometri di mantello.
I moti verticali del materiale che co-
stituisce il mantello, in qualsiasi tipo
di sistema convettivo, portano dei cam-
biamenti nella distribuzione di tempe-
ratura; a una certa profondità la tem-
peratura aumenta dove il materiale è
in risalita e diminuisce dove sta affon-
dando. Il moto cambia la forma della
curva geotermica nel corso del tem-
po e da un posto airaltro a mano a ma-
no che la convezione procede. La
composizione dei minerali nella peri-
dotite del mantello varia in funzione
della pressione e della temperatura, e
questo è stato stabilito dagli esperimen-
ti di laboratorio sui diagrammi di fase
delle peridotiti e dei minerali che la
costituiscono.
Se una particella di peridotite del
mantello, a causa dei moti convettivi
in esso, viene sottoposta a variazioni
di temperatura e pressione, la sua com-
posizione mineralogica, per mezzo del-
la ricristallizzazìone, cerca di raggiun-
gere un equilibrio con l'ambiente che
sta cambiando. I movimenti sono cosi
lenti che di solito l'equilibrio minera-
50
51
logico viene raggiunto. Se però la roc-
cia viene improvvisamente trasportata
alla superficie, come in un'eruzione
kimberiitica, il campione non ha il tem-
po di nequilibrarsi e raggiungere la su-
perficie col timbro mineralogico che
corrisponde alla posizione e alla tem-
peratura alle quali per V ultima volta
aveva raggiunto l'equilibrio nel man-
tello.
La composizione dei minerali coesi-
stenti nelle pe ridotiti ad ogni pressione
e temperatura è stata misurata diretta-
mente con esperimenti di laboratorio.
Usando questi dati come taratura og-
gi è possibile prendere dei campioni di
pendolili del mantello, come j noduli
delle kimberliti, misurare la composi-
zione dei minerali di ogni campione e
valutare così la pressione (o la profon-
dità) e la temperatura della zona del
mantello da cui sono venuti.
Un'antica geo ferma
Questi metodi, applicati ai noduli
delle kimberliti, nell'ultimo anno o
due hanno portato a risultati strani.
Una serie di noduli, raccolti nello stes-
so camino kimberlilico, dà una serie di
punti, uno per ogni nodulo, definiti dal-
la temperatura e dalla pressione di
equilibrio stimate prima dell'eruzione.
Il luogo di questi punti su un diagram-
ma profondità (pressione) - tempera-
tura corrisponde alla geoterma che esi-
steva al tempo dell'eruzione della kim-
berlite. In altre parole ogni nodulo del-
la kimberlite porta immagazzinata nel-
la sua composizione mineralogica Ja re-
gistrazione della sua temperatura e
pressione d'equilibrio nel mantello pri-
ma di venire improvvisamente strap-
pato via. I mineralogisti sperimentali
impegnati in questo lavoro hanno tro-
ILF
2
O
<
CE
te
_
UJ
■z.
a
O
u_
O
ce
vato che i risultati dei camini kìmber-
litici del Sudafrica danno delle geoter-
me fossili a gradiente normale fino a
circa 150 chilometri, ma con gradien-
ti maggiori a profondità più alte; appa-
rentemente a quelle profondità la tem-
peratura era più alta del normale, per
un certo intervallo di tempo prima che
le kimberliti venissero eruttate, circa
100 milioni di anni fa.
Questi risultati sono estremamente
interessanti per i geofisici che cercano
di ricostruire la storia termica della
Terra, la dinamica del mantello e le
forze motrici della tettonica a zolle.
Un'interpretazione dì questi dati è che
il punto in cui V isoterma fossile si pie-
ga corrisponde al tetto dell'astenosfera
a un'età di circa 120 milioni di anni
fa, quando la zolla litosferica africana
cominciò a muoversi rapidamente, men-
tre l'Atlantico si apriva. Secondo que-
600
10O0 2000
TEMPERATURA (GRADI CELSIUS}
Il diagramma delle fasi per la pendolile è stabilito in Termini
di pressione» o profondità, e temperatura* À una certa profon*
dita un aumento di temperatura può portare la roccia al pan»
lo in cai inizia la fusione. L'inizio e la fine della fusione sono
delimitati dalle curve del « solidus » e del * liquidus ». Leggen-
do le due parti del diagramma dal basso verso l'alto, seguendo
la geoterma (n), si vede che il mantello superiore ha una atrut»
CROSTA
PERIDOTITE A SPINELLO
100
„ 200
2
O
-j
x
300
400
a
z
o
u.
o
oc
3000
500
600
700
PERJDOTITE A GRANATO
OLIVINA 5T
PIROSSENO ROMBICO 17
PIROSSENO MONOCLINO 12
GRANATO 14
TRANSIZIONI
ROCCIA A SPINELLO E GRANATO
SPINELLO 57
GRANATO 39
GIADEITE i
TRANSIZIONI
STRUTTURE A COORDINAZIONE SEI
SEZIONE TRASVERSALE DEL MANTELLO
tura strali ficaia a causa di sucressive transizioni di fase, dalla
peridotite a spinello della parte più alta fino a una roccia com-
posta di minerali con elementi a coordinazione set, cioè con
atomi di ossigeno molto ravvicinati che racchiudono atomi di
magnesio, ferro e silicio, a una profondita di circa 600 chilo-
metri. I numeri nella sezione trasversale \h\ rappresentano le
percentuali dei vari minerali che sono presenti nella roccia.
sta interpretazione il moto dell'asteno*
sfera prò duce va energia termica per
attrito e faceva spostare la geoterma
verso temperature più alte e facendola
piegare al limite Jitosfera-astenosfera,
mentre la velocità di conduzione del ca-
lore attraverso le rocce è così bassa che
la geoterma originale rimaneva prati*
camente invariata nella litosfera, I geo-
fisici che concludono che l'attrito nel-
Tastenosfera non è in grado di pro-
durre effetti termici così vasti avanza-
no un'altra interpretazione, Essi argo-
mentano che la parte più ripida della
geoterma fossile, al di sotto del punto
in cui si piega, potrebbe essere stata
causata dalla convezione verso l'alto
di un piume termico locale che avreb-
be dato inizio all'eruzione della kim-
berlite.
Questo esempio illustra in che modo
la tettonica a zolle, col suo centro nel
100
- 200
S
UJ
3
o
-J
x
o
« 300
or
ce
UJ
400
Q
Z
O
-
o
ce
500
600
700
(
i
STRATO A BASSA VELOCITA
\
^
8 9 10 1t 12
VELOCITA DELLE ONDE P NEL MANTELLO
(CHILOMETRI AL SECONDO*
II diagramma della velocità delle onde
P mostra che le profondità effetti ve dei
cambiamenti nel mantello, indicate dalle
onde sismiche, coincidono strettamente
con quelle delle transizioni di fase» ri*
cavate sia dal diagramma delle fasi
sia dalla geoterma riportati qui accanto.
mantello, ha riunito nelle stesse aule
ai congressi scientifici ricercatori di
campi che un tempo venivano conside-
rati molto diversi gli uni dagli altri.
Geologi dì campagna, mineralogisti,
geofisici, chimici e fisici sperimentali
hanno insieme scoperto nei minerali
dei noduli delle kimberliti una serie dì
informazioni che ora sono pane per i
denti dei teorici che cercano di capire
come il mantello si muove ora e come
si è mosso nei 4,6 miliardi di anni di
vita della Terra.
Vista da una nave spaziale, la Terra
nel suo insieme si presenta come un
grande globo rotante, liscio come una
palla da biliardo. La più profonda per-
forazione eseguita alla sua superficie
raggiunge una profondità di appena
novt chilometri; non è che una puntu-
ra éi spillo, che penetra per meno del-
lo 0,15 per cento del raggio terrestre.
Per questo è molto notevole che si
sappia tanto sul l' inaccessibile man-
tello.
Incertezza dei modelli
Ciononostante, la quantità delle in-
formazioni nelle nostre mani è insuffi-
ciente per una piena comprensione del
comportamento dinamico del mantello»
ed è questa la chiave di mólti fenome-
ni geofilici e geologici. La misura del-
Tincertezza su quello che realmente
succede nel mantello si può illustrare
paragonando due ipotesi -sulla catena
di isole vulcaniche delle Hawaii, Ogni
isoia si è formata in seguito a eruzioni
al di sopra di una zona di fusione fissa
neirastenosfera. La zolla di litosfera,
nel suo moto, ha poi allontanato risola,
formando così, in un lungo intervallo
di tempo, la catena di isole.
Secondo una interpretazione di que-
sti eventi la fusione è localizzata in un
punto caldo sopra un piume termico.
Secondo un'altra interpretazione la fu-
sione è localizzata per attrito in rocce
che fluiscono dall' aste nos fera in una
colonna che si muove verso il basso at-
traverso il mantello. Si dice che questa
colonna forma un'ancora gravitaziona-
le, perché mantiene la zona di flusso
verso il basso in una posizione più o
meno direttamente soprastante,
Queste ipotesi diametralmente op-
poste vengono avanzate da studiosi di
scienze della Terra assai rispettati* Le
Hawaii vanno spiegate con un piume
termico in risalita o con un'ancora gra-
vitazionale che affonda? Io ho fiducia
che presto l'accumularsi di nuovi dati
e il raffinarsi delle teorie porranno dei
limiti molto più precisi al quadro che
si può fare della struttura e della di-
namica del mantello.
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G. Napolitano, G, Guazza; G. To
raldo di Francia e altri) per di
scutere e chiarire uno dei temi
più attuali della società di og
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o
MALESSERE
Le neurosi viscerali di Massimo
Gaglio, Come la prevenzione e la
cura del «malessere» trova nella
scienza ufficiale che lo nega e
nella società che tradizìonalmen
te chiede la sua medtcalizzazio
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52
53
Passato e futuro dei centri storici
Il patrimonio culturale ed edilizio del nostro paese esige che stato, regioni
e comuni intervengano con sollecitudine nel risanamento e nel restauro dei
centri storici senza trascurare gli aspetti sociali ed economici del problema
dì Luciano Puntuale
f | ^re anni or sono, la data del pri-
mo aprile 1972 ha costituito una
A svolta importante e, per certi
aspetti* decisiva per una più diretta
azione di conservazione e di recupero
dei centri storici, a causa dell'avvenuto
passaggio delle competenze in materia
urbanistica alle regioni a statuto ordi-
nario. Conseguentemente un diverso
ruolo Io stato è stato chiamato a svol-
gere e imo ve responsabilità sono state
decentrate; con delega, agli enti locali.
Tra stato e comuni un ruolo prima-
rio dovranno quindi svolgere le re-
gioni. À queste ultime, in particolare,
è stato assegnato, ormai da tre anni,
stante la loro responsabilità nel settore
urbanistico, il non facile compito di
provvedere, attraverso una accorta e
lungimirante azione politica di incen-
tivi e di sostegno,, alla predisposizione
di programmi per La conservazione del
patrimonio edilìzio storico di oltre 8000
comuni italiani, guidando e sollecitan-
do gli sforzi degli enti locali nella dire-
zione ritenuta più idonea, sotto il pro-
filo edilizio e urbanistico, onde soddi-
sfare compiutamente le molteplici e
complesse esigenze del risanamento edi-
lìzio, cosi come è richiesto anche dal-
l'attuale cultura storica, economica e
sociologica. Tutto ciò sulla base degli
indirizzi che lo stato dovrà formulare
per il coordinamento generale delle
iniziative. Mancano ancora infatti i
necessari inquadramenti, nonché i cri-
teri di base per T approntamento di tut-
te quelle metodologie operative che
possano assicurare, a livello regionale
o locale, l'attuazione di una più ade-
guata e unitaria disciplina dell'intera
materia.
Alcune regioni, come per esempio La
Toscana, l'Emilia Romagna e l'Um-
bria, tuttavia, anche in assenza di nor-
me-quadro, si sono sollecitamente pre-
occupate della tutela del proprio pa-
trimonio architettonico e hanno già
54
predisposto numerosi seppur limitati
provvedimenti Legislativi o normativi.
Questi, tuttavia, risentono ancora, co-
me già detto, dell'assenza di un pre-
ciso inquadramento giuridico di livel-
lo generale che stabilisca, net settore
urbanistico, gli ambiti entro i quali
T intervento regionale può e deve arti-
colarsi indipendentemente dagli aspet-
ti ambientali, culturali o monumenta-
li del problema. Occorre, in tale ma-
teria, non cadere nel facile equivoco,
tuttora ricorrente, che per la tutela
dei centri storici siano sufficienti solo
quelle provvidenze legislative statali
che solitamente vengono usate per i
beni culturali di natura estetico-am-
bientale, I centri storici sono infatti
strutture urbane che - indipendente-
mente dal costituire episodi storici che
testimoniano valori di civiltà passate -
contengono una pluralità di organismi
di impianto complesso che possono es-
sere recuperati solo privilegiando in
essi gli aspetti più propriamente urba»
nìstico-edilizi. Occorre, in sostanza, una
precisa politica di intervento operativo
che valuti le possibilità di riuso del
patrimonio architettonico in termini
strumentali, in ordine ai caratteri nor-
mativi, tipologici e, soprattutto, eco-
nomici del problema.
È necessario quindi che le regioni,
oggi, svolgano un ruolo autonomo, in
qualità di « protagoniste », nel campo
della promozione dì concrete iniziative
per l'attuazione sistematica dì quei
programmi di restauro e di risanamen-
to conservativo che le più recenti ri-
sultanze proposìtive scaturite dal di-
battito culturale dell'ultimo quindicen-
nio hanno ormai chiaramente indivi-
duato nei loro termini sia individuali
sia specifici e che lo stato si è anche
di recente preoccupato di trasformare
in concreti atti legislativi, anche se di
carattere speciale, come nel caso dì
Venezia, Ancona, Tuscania, ecc.
Allo stato, alle regioni e agli enti
locali sono, pertanto, oggi in molti a
guardare con un certo interesse poiché
spetta a loro attuare, nelle rispettive
sedi, i diversi programmi di interven-
to. Lo stato di degradazione di circa
15 milioni di vani costituenti il patri-
monio edilizio storico delle nostre città
ha ormai raggiunto livelli tali da ri-
chiedere provvedimenti rapidi e riso-
lutivi sia da parte dello stato - per
quanto concerne la programmazione
La struttura rinascimentale di Roma, stretta nella penombra delle sue anguste vie
{in atto ti sinistriti gj raccoglie ai lati dei lungotevere alberati al di là dei quali
incombano gli edifìci trionfalìstici della ri uà-rapitale. In alcune zone in particolare,
come nel quartiere Tor di Nona Un alto a destra)* questa antica struttura ricca di
edifici architettonici pregevoli ha subito in alcune sue parti profonde trasformazioni
fisiche, sociali ed economiche a causa dell'isolamento a cui è stata costretta per la
realizzazione dei lungotevere che ne hanno limitato la continuità. Come si vede nel-
l'immagine, sullo sfondo, una antica via quattrocentesca è rimasta bloccata dal lungo»
leverò sopraelevato che ha definitivamente eliminato il tradizionale accesso al fiume.
A Roma, come in molte altre città italiane! che traggono la loro caratterizzazione dalie
preesistenze di strutture di epoche diverse, non è infrequente la presenza dt monu<
menti che risalgono a epoche molto antiche (per esempio, il tetto in primo piano
nella fotografia in basso a sinistra raffigurante Piazza della Rotonda, è la copertura del
pronao romano del Pantheon!. Questo fenomeno, riscontrabile anche in Via della
Rotonda li» busso n destral ha caratterizzalo ambienti inconfondibili nei quali con-
vivono in simbiosi monumenti eccezionali ed edifici di scarso valore architettonico
formando una unità ambientale che diviene essa stessa un unico monumento di ecce zio*
naie equilibrio umano. In ogni caso, i quartieri antichi rappresentano la testimonianza
del passato civile della nostra società e, quindi, la loro conservazione si impone
alla coscienza dell'uomo moderno in termini di sopravvivenza culturale e civile.
degli interventi - sia da parte delle
regioni, per assicurare una attuazione
unitaria dei programmi. Ai comuni
spetta, per ultimo, il compito non fa-
cile ma determinante di provvedere
alla gestione della intera operazione
di risanamento con l'approntamento
dei necessari strumenti attuativi.
Tali provvedimenti dovranno mirare
alla tutela dei caratteri più propria-
mente storici e tipologici degli organi-
nismi edilizi e determinare una loro
più attenta riqualificazione sociale ed
economica, così come è stato ormai
sufficientemente acclarato da moltepli-
ci deliberazioni comunali,
Nessuno nutre più dubbi» ormai, che
occorra evitare* sulla scorta della ne-
gativa esperienza dei decenni passati,
il prevalere di tutti quegli interventi
parziali di marca speculativa che tanti
danni hanno arrecato al patrimonio
edilizio e urbanìstico dei centri storici»
poiché in tal modo si verrebbe a in-
centivare ancor di più t'esodo di quel-
le fasce dì popolazione tradizionalmen-
te più deboli con conseguente modifi-
ca di quell'equilibrio sociale che è le-
gato alla struttura economica degli
abitanti.
À differenza di quanto è avvenuto
nel passato» occorre, pertanto, che il
problema deìla riqualificazione dei cen-
tri storici venga definitivamente in-
quadrato in una prospettiva di svilup-
po dell'intero territorio urbano in ter-
mini sia di razionalità degli insedia-
menti residenziali sìa di pianificazione
delle scelte territoriali, per una effetti-
va fattibilità delle proposte operative
e per una loro maggiore concretezza a
livello esecutivo. A tale proposito è
bene ricordare che, se nell'immediato
futuro sarà possibile giungere alla for-
mulazione di più concrete iniziative -
inquadrando cioè iì problema del ri-
sanamento edilìzio in un programma
più generale e vasto di riequilibrìo del-
l'intero territorio urbano - lo sì dovrà
soprattutto ai risultati metodologici e
programmatici raggiunti nel corso degli
anni sessanta. Tali anni, infatti, sono
stati estremamente fecondi di idee e di
contributi, il che ha fatto maturare
con sufficiente rigoglio il complesso
problema del recupero dei centri sto-
rie i T anche se poi non v*è stato, in de-
finitiva, l'emergere sia dì un chiaro e
costante indirizzo metodologico» sia
di precìse e unitarie proposte operati-
ve da contrapporre come valida alter-
nativa all'intervento «spontaneo» che»
tuttora, in gran parte prevale.
Il migliore contributo degli anni ses-
santa rimane, pertanto, quello circo-
scritto di una più generale e approfon-
dita presa di coscienza del problema,
da parte della classe dirigente, la quale
La presenza di similare dì epoca romana ha condizionato la forma archi tettonica e ur-
li mi -tira di molte città italiane. La persistenza del castrum romano, per esempio, ha
influenzato la configurazione di Como (in alto a sinistra^ poiché costituisce tuttora la
matrice degli attuali moduli spaziali entro i quali continuano a svilupparsi le abita-
zioni» mentre a Firenze Un alto a destra ! i caratteri architettonici e urbanistici di mol-
ti quartieri, condizionati dalia presenza di strutture pubbliche romane» danno conti-
nuità, attraverso La permanenza degli elementi più antichi* alle espansioni urbane di
epoca successiva. Tra le città romane» Verona, stretta nell'ansa dell'Adige e contor-
56
nata dalle espansioni medtoevali {in basso a sinistra ), racchiude entro le «ne mura i va-
lori tipici e inconfondìbili della maggior parte dell'edilizia storica italiana* valori che,
durante le manifestazioni indette in questo < Anno europeo del patrimonio a re hi lettoni-
co *, verranno portali all'attenzione dì coloro che attraverso lo stato, le regióni e i co-
muni debbono assicurare la salvaguardia di ogni testimonianza delle civiltà passate.
Per quanto riguarda Napoli (in basso a destra\ inconfondibile appare ancora oggi
la dimensione della città greco-romana» perfettamente conservata nelle strette strade
costruite sul modello dell'isolato greco e sviluppatasi secondo gli schemi ip pò do nei.
%3
ha cercato spesso, in nome della cosid-
detta «cultura ufficiale», di limitare
attraverso \ suoi organi tecnici le alte-
razioni che si andavano perpetrando ai
danni del patrimonio storico, Ne è una
riprova la maggiore attenzione che in
quegli anni è stata riposta dagli orga-
ni statali di controllo in sede di va*
lutazione delle scelte urbanistiche co-
munali» alle norme operative di Pla-
no regolatore generale o di piano par-
ticolareggiato riguardanti i centri stori-
ci. (Il che ha comportato» di riflesso,
anche una più accorta opera di pianifi-
cazione da parte degli stessi enti loca-
li.) Nel fare un bilancio di tale perio-
do occorre sottolineare subito la parti-
colare dimensione che è stata data ai
problema della tutela dei «beni cultu-
rali ». Gli anni sessanta si sono aperti
con un importante convegno sul tema
della « salvaguardia e risanamento dei
centri storico-artistici » e si sono con*
elusi con la celebrazione deir« Anno
intemazionale in difesa della natura ».
Si è assistito, cioè» nel giro di dieci an-
ni a una evoluzione qualitativa del con*
cetto di «bene culturale», dai valori
storici a quelli ecologici» e a una sua
estensione quantitativa, dalla dimensio-
ne edilizia a quella territoriale.
Gli anni settanta hanno visto» inve-
ce» fin dall'inizio» lo spostamento del-
l'interesse degli studiosi più sugli aspet-
ti dì carattere economico caratteriz-
zanti ogni bene culturale (specificata-
mente quelli edilizi) per una più ade-
guata opera di risanamento. Il che ha
conseguentemente diminuito di mol-
to l'importanza dei valori formali che
erano alla base di tutte le discussioni
del decennio precedente,
'autunno del 1960 si chiuse con la
dichiarazione finale del convegno
dell'ai lora nascente « Associazione na-
zionale per i centri storico-artistici » la
cui importanza fu tale da divenire» con
il nome di «Carta di Gubbio*» un do-
cumento fondamentale sulla salvaguar-
dia più attiva dell'ambiente storico del-
le nostre città» i cui risultati avrebbero
dovuto costituire il capìtolo principale
di quel tormentato a Codice dell'urba-
nistica » allora in corso di elabora-
zione.
I contenuti ideologici e programma-
tici che ispirarono razione rin novatrice
di quegli anni trovarono» tuttavia» la
loro premessa e il loro principale so-
stegno proprio nel clima culturale, po-
lemico e contradditorio del decennio
precedente che vedeva l'Italia del « mi-
racolo economico» sempre più tesa
verso quel frenetico quanto caotico svi-
luppo edilizio che nel giro di pochi an-
ni l'avrebbe portata alla crisi econo-
mica del 1963-1964. In quegli anni si
57
Dalla sommila della cupola del Pantheon *i possono osservare le ampie trasformazioni
cui sono assoggettati quasi tutti gli ultimi piani degli edifìci della Roma storica che
vengono spesso rinnovati per essere adattali come abitazioni di lusso. Ciò provoca,
conseguentemente, profonde trasformazioni nella struttura sodale e abitativa dei quar-
tieri antichi e tensioni economiche che facilitano l'espulsione dei ceti meno abbienti»
riteneva che fosse già una grande af-
fermazione di princìpio il sostenere,
per la tutela dei centri storici, la neces-
sità della conservazione dei « volumi
edilizi ». Era il periodo in cui i mass
media facevano balenare modelli di
vita basati sui consumi e le città si am-
pliavano sulla base di pochi; vecchi e
inefficienti piani regolatori.
T piani di costruzione, quando c'era-
no, si limitavano a cristallizzare si-
tuazioni particolari senza tenere con-
to della necessità di assicurare una più
efficiente strutturazione urbanistica del-
le città, mentre i nuovi piani regola-
tori, adottati o in corso di approvazio-
ne - che tuttavia avrebbero visto la
luce solo nella seconda metà del decen-
nio - erano strutturati sulla base del-
la vecchia legge urbanistica dd 1942,
la Quale era ben lontana da proporre
qualsiasi pur mìnima azione di salva-
guardia in difesa dei centri storici.
In presenza di tali e tante carenze
nel settore del V urbanistica italiana, in
assenza di qualsiasi pur minimo ma
razionale processo di pianificazione del
territorio (sia a livello comunale sia
intercomunale), le città erano quasi
sempre inadeguate a sopportare lo sfor-
zo edilizio del tempo.
Gli interessi immobiliari continuava-
no, pertanto, a concentrarsi netle aree
più centrali della città - cioè nelle zone
di più sicuro profitto per la loro po-
tenziale redditività anche se di più de-
licata struttura dal punto di vista sto-
rico-ambientale e monumentale - a
causa della indubbia convenienza eco-
nomica che aveva il proprietario per il
maggior provento che gli sarebbe deri-
vato attraverso il processo di trasfor-
mazione del proprio immobile median-
te il meccanismo della demolizione e
ricostruzione. Era la logica spietata di
un certo sistema economico, frutto di
un particolare calcolo di convenienza,
che sotto l'alibi di un miglior « decoro »
degli ambienti più «malsani» delle
città tendeva invece a far aumentare
il saggio di accumulazione nel settore
edilizio anche attraverso l'aumento dei
prezzi delle aree più centrali In tali
zone, molte abitazioni di elevato valore
storico e ambientale, se non addirit-
tura monumentale, per gli oneri deri-
vanti dalle proprietà obsolete e insuffi-
cientemente ricompensati dagli affitti
bloccati, subirono forzatamente que-
sto progressivo processo di svaluta-
zione e molti proprietari ridussero al
minimo i costi di manutenzione; era
nell'interesse esclusivo di un certo tipo
di proprietà, infatti, in assenza di qual-
siasi piano di risanamento e tenendo
fissi i costì di esercizio, cercare dì fare
aumentare il più possibile gli introiti
accrescendo l'indice di affollamento fi-
no al giorno in cui si sarebbero presen-
tate l'opportunità e la convenienza del-
la sostituzione con nuovi edifìci. Ciò
al fine di ricavarne il massimo benefi-
cio attraverso una operazione immo-
biliare che puntava il tutto per tutto
sul sicuro richiamo che le nuove desti-
nazioni d'uso (rappresentative, direzio-
nali, commerciali, eccetera) nelle aree
più centrali avrebbero certamente com-
portato a tutto benefìcio dell'operazio-
ne stessa, secondo la logica speculativa
tipica del settore. Nelle aree più in-
terne, invece, ove ciò non poteva ac-
cadere per particolari vincoli dettati
dalla ubicazione o dall'ambiente, si as-
sisteva ugualmente al degrado delie
abitazioni per un accentuarsi dei feno-
meni di ghettìficazione sociale delle
aree stesse non sottoposte ad alcun pro-
cesso di riqualificazione urbana ma la-
sciate alla progressiva incuria del tempo.
È il momento delle ultime episodi-
che trasformazioni edilizie che aggredi-
scono quasi tutti i principali centri sto-
rici, il cui peso diminuirà soltanto ver-
so la fine degli anni cinquanta quando
si renderanno ormai disponibili in nu-
mero sufficiente i primi piani regolatori
del dopoguerra, piani che contenevano
quanto bastava per assicurare il mas*
simo tornaconto ai processi di svilup-
po edilìzio basati sulla preventiva acqui-
sizione delle nuove aree fabbricabili.
Si venivano così, sostanzialmente,
favorendo più o meno direttamente,
con la connivenza di molte amministra-
zioni locali e a seconda dei calcoli di
giochi politici legati al finanziamento
delle reciproche « correnti » di parti-
to, gli interessi edilizi di sempre più
vasti gruppi monopolistici privati che
cominciarono a valutare positivamente
la convenienza al «decentramento»
su quelle aree marginali alle città che
loro stessi, sotto forma di società im-
mobiliari, si erano nel frattempo af-
frettati ad acquistare a basso prezzo
agricolo ma che poi i piani regolatori
avrebbero fc provvidenzialmente » tra-
sformato in sicure aree fabbricabili:
prendeva così slancio in tutta Italia
quella vasta operazione edilizia che, nel
giro di pochi anni, avrebbe distrutto il
« giardino d'Europa ». In tale diverso
clima edilizio, teso a esaltare la con-
venienza della «t casa in proprietà » nei
quartieri periferici, le aree più cen-
trali cominciarono progressivamente a
perdere di importanza; conseguente-
mente la pressione edilizia si allonta-
nò sempre più sensibilmente da esse
mentre l'accresciuta domanda dì nuo-
ve case in proprietà (con tutti i bene-
fici fiscali e le agevolazioni creditìzie
offerte dal governo) stimolava e favo-
riva l'esodo dei ceti borghesi e di quelli
meno abbienti dai quartieri più antichi
a tutto vantaggio di un nuovo tipo di
operazione speculativa altrettanto red-
ditizia quanto quella precedente, le-
gata alla operazione di sostituzione edi-
lizia. La possibilità di disporre di ap-
partamenti vuoti da « restaurare », di
preferenza attici, permetteva, sempre
in assenza di precise scelte urbanisti-
che nel settore, le più grandi avventu-
58
re immobiliari nel centro storico, che
veniva progressivamente sottoposto, die-
tro la semplice conservazione delle so-
le facciate, a vaste operazioni dì rin-
novamento edilizio per quei ceti socia-
li di classe sempre più elevata che era-
no ' gli unici che potevano sopportare
l'onere dell'impresa. Ancora una volta
il problema si andava « spontaneamen-
te» risolvendo in termini strettamente
settoriali a solo vantaggio di poche
classi privilegiate o di funzioni non
residenziali contrastanti con il carat-
tere dell'edilizia storica.
Gli ambienti culturali, tuttavia, rea-
girono vivacemente a tali manomissio-
ni episodicamente impostate senza la
garanzia di un qualsiasi pur minimo
piano unitario e denunciarono all'opi-
nione pubblica sempre più frequente-
mente i veri meccanismi speculativi
che erano alla base delle principali al-
terazioni formali delle città.
TJavanti a tale vasto movimento cultu-
rale che, trapassando il limitato set-
tore dei semplici «addetti ai lavori »,
interessava sempre più ampi strati del-
l'ambiente artistico e letterario italia-
no con frequenti ripercussioni anche
all'estero, gli organi pubblici, accusa-
ti pubblicamente di tanto scempio, av-
vertirono la necessità di una maggiore
cautela nell'approvazione sia dei pia-
ni regolatori e dei programmi di fab-
bricazione sia dei progetti interessanti
zone soggette a tutela paesaggistica o
monumentale.
La più importante inversione di ten-
denza a livello ufficiale, al riguardo,
venne proprio dal Consiglio superiore
dei lavori pubblici nel 1952 quando -
dietro la pressione della stampa e del
mondo culturale più avanzato - ta-
le consesso diede parere negativo per
la prima volta a un tipo di operazione
urbanistica che fino allora era stata in-
vece sempre supinamente accettata ma
che avrebbe comportato, se attuata, la
devastazione di uno degli ambienti ur-
bani più interessanti della Roma ba-
rocca. In quell'occasione venne infatti
rifiutalo il piano particolareggiato del-
la via Vittoria che prevedeva l'amplia-
mento della strada in attuazione del
Piano regolatore generale del 1931,
Da quel momento gli organi centrali
di controllo in campo urbanistico co-
rniciarono a percorrere una nuova più
corretta strada a fianco di quelle stesse
forze culturali che si erano fino ad al-
lora battute, isolatamente, per la salva-
guardia del patrimonio storico artistico.
Ma era necessario che passassero
ancora 14 anni prima che il parlamen-
to apportasse una sostanziale modifi-
ca alla vecchia legge urbanistica. La
proposta Sullo dì riforma urbanistica
venne infatti clamorosamente bocciata
nel 1963 ma la legge ponte del 6.8.1967,
n. 765 - sulla scia dell'impressione pro-
vocata dal .]* inchiesta sullo scandalo edi-
lizio di Agrigento in conseguenza della
frana - si riuscì ad approvarla con le
precisazioni dell'art. 17, quinto com-
ma, che per la prima volta obbligava
a conservazione e restauro tutti i cen-
tri storici la cui edilizia fosse anteriore
al 1860, predisponendo, per la loro in-
columità, rigidi sistemi di salvaguardia
urbanistica in attesa dei piani partico-
lareggiati divenuti da allora obbli-
gatori.
è questo* tuttavia, il momento in
cui la crisi dei centri storici farà sen-
tire più che mai tutta la sua complessa
dimensione. Allontanata quasi definiti-
vamente la minaccia delle brutali so-
stituzioni edilizie, i nuclei antichi ri-
masero abbandonati a se stessi non es-
sendo stata posta in cantiere nessuna
iniziativa urbanìstica per la loro effet-
tiva riqualificazione come alternativa
ai metodi allora correnti. Ben presto
all'obsolescenza delle strutture si ac-
compagnò una sempre più profonda
decadenza sociale ed economica, il che
aumentava le deficienze igieniche e
rendeva precaria la permanenza in es-
si di sempre più larghi strati di popo-
lazione.
T comuni, assillati da ben altri più
pressanti e contingenti interessi, pre-
ferirono sistematicamente eludere il
Quest'anno si svolge in tutta l'Europa la celebrazione dell' « Anno europeo del
patrimonio architettonico », proclamato tra tutti gli stati membri del Consiglio
d'Europa, proprio per sottolineare la generale necessità di difendere ogni testimo-
nianza urbanìstica ed edilizia ancora presente nelle città storiche mediante prov-
vedimenti atti ad assicurare la riqualificazione sociale ed economica nel costante
rispetto dei valori culturali e ambientali tradizionali.
Anche in Italia è stato costituito un apposito Comitato nazionale posto sotto l'al-
to patronato del presidente della Repubblica, la cui presidenza è stata affidata al
ministro dei lavori pubblici, Pietro Bucalossi, proprio per sottolineare l'importan-
za del problema edilìzio e urbanistico che deve essere congiuntamente affrontato
e risolto se si vuole far decollare una effettiva politica di recupero che ponga l'edi-
lizia storica in condizioni tali da non subire, ulteriormente, i danni derivanti
dal decadimento fisico, della degradazione socioeconomica o dalle trasformazioni
connesse con una utilizzazione esclusivamente finalizzata al perseguimento di
interessi speculativi.
In ordine a tali finalità, l'Italia ha ospitato a Bologna, nell'autunno scorso, il
T Symposium del Consiglio d'Europa sul tema « La dimensione sociale della con-
servazione dei centri storici ».
Tale simposio ha sottolineato ancora una volta che occorre applicare in maniera
rigorosa i principi del restauro urbano preservando gli aspetti sociali delle città
e attuando ogni possibile intervento da parte dei pubblici poteri, sia per quanto
concerne le provvidenze economiche sia per quanto riguarda l'informazione e
la consultazione dei cittadini interessati al restauro dei propri alloggi.
In coincidenza con tale Anno europeo, nel 1975, il Comitato italiano ha pro-
mosso, attraverso il Ministero dei lavori pubblici di intesa con le regioni e i co-
muni interessati, una serie di studi e di ricerche sul tema dei centri storici avente
come fine, tra l'altro, l'analisi e la comparazione dei seguenti problemi: aspetti
della didattica universitaria: caratteri della normativa giuridica e legislativa sia
statale sia regionale; contenuti metodologici espressi dagli strumenti urbanistici
generali o attuativi; forme di intervento promosse dagli enti pubblici; ruolo del-
l'imprenditoria, della proprietà e dell'inquilinato; forme di partecipazione popo-
lare connesse con il decentramento amministrativo e i problemi sociali; criterio-
logìa degli interventi in atto nelle città di Ancona, Verona, Taranto e Bologna,
prescelte come sedi di realizzazioni particolarmente significative in tema di risa-
namento conservativo.
Sono state, altresì, promosse varie iniziative per diffondere e divulgare i problemi
dei centri storici nell'ambito delle scuole nonché per informare vaste categorie di
utenti sull'importanza degli aspetti sociali, economici, politici, culturali, giuridici,
tecnici attraverso sia programmi radiotelevisivi, sia concorsi giornalistici e foto-
grafici, pubblicazioni e attività culturali, mostre, conferenze e dibattiti.
In autunno infine si svolgerà a Roma una « Conferenza nazionale dei centri sto-
rici » nel corso della quale saranno discussi i risultati degli studi e delle ricerche
che verranno presentati dal Comitato italiano. Da tale conferenza dovrebhe sca-
turire un articolato normativo e un indirizzo prepositivo da proporre all'attenzione
delle autorità statali, regionali e comunali che debbono salvaguardare il patrimo-
nio architettonico dei centri storici italiani,
59
problema con generici quanto comodi
rinvii ai piani particolareggiati; si era
nel momento in cui le amministrazio-
ni comunali tentavano di impostare
una nuova politica urbanistica per i ter-
ritori esterni ai nuclei urbani sulla scor-
ta delle legge 167 approvata nel 1962.
Tale legge ebbe, peraltro, l'effetto di
incentivare ancora una volta l'esodo
della popolazione residente dalle aree
più centrali, indirizzando larghi strati
di abitanti verso i nuovi quartieri peri-
ferici con il miraggio, del tutto limita-
lo, di migliori condizioni abitative.
Si crearono, così, i presupposti per
una nuova più intensa domanda di abi-
tazioni in zone ancora prive di valide
infrastrutture urbane, mentre nessun
incentivo veniva predisposto per un re-
cupero qualificato di tutto quel vasto
patrimonio edilizio esistente che era
viceversa sufficientemente ricco di con-
crete attrezzature sociali, di effetti-
ve infrastrutture urbane e di qualifica-
ti servizi di quartiere, oltre che di
una dimensione architettonica ed edili-
zia tutt'altro che squallida (se para-
gonala alla periferia) e di elevato va-
lore umano e sociale.
11 1967 - Tanno della legge ponte -
trova ben pochi comuni in regola con
gli strumenti urbanistici. Il loro nume-
ro non supera infatti il 10 per cento.
A quel tempo pochissime erano le cit-
tà dotate di un piano regolatore: Fer-
rara e Livorno si dotarono di un piano
solo nel 1961, seguite Tanno successi-
vo da Venezia e nel 1965 da Firenze e
da Roma. Urbino, L'Aquila, Perugia
e Fabriano ebbero approvati i loro pia-
ni solo nel 1967 ma, con l'entrata in
vigore della legge ponte, quasi tutti gli
strumenti urbanistici allora in vigore
dovettero essere rivisti per adeguarli
ai minimi stabiliti da nuovi standard
urbanistici. In una realtà territoriale
così difficile e complessa, il problema
dei centri storici non poteva perciò
minimamente essere affrontato e por-
tato a soluzione dagli enti locali con la
necessaria tempestività e comprensio-
ne. Ài comuni incombevano, infatti,
ben pressanti problemi la cui contin-
genza, come già detto, scardinava qual-
siasi programmata volontà di razionale
indirizzo nell'azione pianificatrice. L'e-
dilizia storica continuava, pertanto, a
subire di riflesso tutti gii effetti nega-
tivi propri di tale situazione, anche se
non è da sottovalutare la reale respon-
sabilità che è propria di moke ammini-
strazioni comunali nel campo dell'inef-
ficienza urbanistica, da alcune voluta-
mente accettata come presupposto per
qualsiasi tipo di speculazione, o in-
trallazzo edilizio. Gli ambienti cultura-
li t viceversa, erano quanto mai atten-
ti all'evolversi- della situazione e con-
tinuavano a dibattere l'argomento a
qualsiasi livello: politico, tecnico, scien-
tifico, sociale e di informazione.
Il 1967 fu infatti anche II momento
della mostra itinerante «Italia da sal-
vare » inaugurata in q uè iranno dal pre-
sidente delia Repubblica a Milano, e
promossa da Italia Nostra e dal TCI,
la cui influenza sul pubblico e sulle
autorità statali di controllo fu tale da
esaltare una più attenta e consapevole
presa di coscienza della necessità di
tutela dei beni culturali. Gli anni ses-
santa videro, inoltre, attraverso il con-
tributo dell'INARCH (Istituto nazio-
nale di architettura) del 1963 {confe-
renza nazionale dell'edilizia) teso a sot-
tolineare la necessità di una visione
urbanistica e perciò più globale dell'in-
tero problema e l contenuti della « Car-
ta dì Venezia » del 1964, promulgata
dal T ICO M OS, il definitivo estendersi
del concetto di « monumento » dalla
singola opera architettonica all'intera
città storica. Tale realtà culturale ven-
ne vieppiù sottolineata dagli incontri
a antico-nuovo » di Venezia e Firenze
{anni 1965-1966) che videro definitiva-
mente dibattere, per quel decennio, il
problema degli interventi architettoni-
ci nei contesti storici.
La Commissione Franceschini prima
e la Commissione Papaldo dopo sot-
tolinearono anch'esse (a livello parla*
mentare la prima e interministeriale la
seconda) la necessità di pronte e ur-
genti riForme legislative per adeguare
le vecchie strutture dello stato alle nuo-
ve necessità che i tempi ormai mutali
richiedevano per una più adeguata tu-
tela dei centri storici e dei beni cultu-
rali in generale. In conseguenza di ciò
la classe politica, le amministrazioni
pubbliche e gli enti locali, messi sot-
to accusa da una opinione pubblica
sempre più larga e matura anche se
ancora limitata nella cerchia ristretta
ed elitaria di particolari classi sociali,
sentivano il bisogno - rivelatosi poi dei
tutto illusorio — di fornire assicura-
zioni concrete circa la salvaguardia del
patrimonio storico e culturale. Il co-
mune di Urbino, affidando nel 1959 a
Giancarlo De Carlo il Piano regolatore
generale (PRG), fu il primo a rompere
il cerchio di indifferenza nei confronti
della tutela urbanistica dei beni cultu-
rali e senti la necessità dì promuovere
una nuova politica di piano più rispet-
tosa dei valori della città antica. De
Carlo approfondi con particolare cura
il tema giungendo a configurare una
normativa di intervento estremamen-
te dettagliata la quale, tuttavia, non
sortì alcuno degli effetti sperati dal-
l'urbanistica proprio perché le propo-
ste, per quanto apprezzabili, non erano
tali da calarsi compiutamente nella di-
versa realtà economica e sodate del
comune.
L'insuccesso di Urbino, peraltro av-
vertilo daìlo stesso De Carlo fin dal-
l'inizio, non costituì un fatto isolato:
in tali anni verranno, infatti, scritte
le pagine più sterili ed equivoche della
nostra recente storia urbanistica.
Da una parte c'erano gli urbanisti
i quali, basando dogmaticamente la
loro operatività sopra una cultura ac-
cademica e professionale arretrata an-
che se mediata e perfezionata dalle ul-
time risultanze dei convegni, ritene-
vano che fosse sufficiente una buona
metodologia operativa e una attenta
normativa tecnica per risolvere com-
piutamente il problema dei centri sto-
rici; mentre dairaltra parte c'erano
le amministrazioni comunali, che pre-
ferivano invece sistematicamente elu-
dere l'argomento, certe che bastasse
commissionare al «(tecnici » studi più
accurati e approfonditi per accanto-
nare temporaneamente il problema, per
garantire la cultura e soddisfare l'opi-
nione pubblica. Infatti con rassicura-
zione del rinvio di qualsiasi intervento
ai fantomatici « piani particolareggia-
ti » che ben difficilmente sarebbero ve-
nuti alla luce, i comuni si creavano
subito un prestigioso alibi culturale a
sostegno delle loro « buone intenzioni »
e delia loro « inequivocabile volontà
di portare a compimento con fermezza
e chiarezza l'annoso problema dei ri-
sanamento conservativo dei centri an-
tichi... ».
In realtà era troppo evidente il pro-
fondo divario esistente tra le proposte
operative degli urbanisti - che pur era-
no metodologicamente interessanti - e
la realtà urbana, incapace di recepire
una programmazione così complessa e
delicata, in carenza di una precisa vo-
lontà politica per la tutela dì tali beni
e in mancanza di una effettiva presa
di coscienza e di partecipazione al pro-
blema di strati sempre più vasti di po-
polazione, Le scelte culturali venivano
cosi a scollarsi sempre di più dalla
complessa realtà sociale ed economica
dei centri storici e nessun contributo
risultava pertanto fattibile sul piano
pratico. Sono questi, infatti, gli anni
fecondi di idee ma sterili di realizza-
zioni in cui Astengo progetta il risa-
namento del quartiere di S, Martino
a Gubbio, il risanamento di Capodi-
monte e del Guasco ad Ancona (insie-
me a Coppa, Salmoni, e altri), il re-
stauro di Assisi, di Bergamo e di Sa-
luzzo; Coppa affronta i problemi dei
centri storici di Perugia, Città di Ca-
stello, Orvieto e Vicenza; Picchiato
quelli del ghetto di Padova e di Sie-
na; Michelucci quello di Firenze; Pa-
ne quelli del centro antico di Napoli
j
9ó*5&*
II piano di risanamento del centro storie© di Urbino* che appare per promuovere una coscienza urbanistica volta al recupero del-
in questa immagine, ha costituito una delle tappe fondamentali U identità figurativa, formale e strutturale delle città antiche.
e di Mol fetta; Quaroni quello di Bari
vecchia; De Carlo, oltre a Urbino, quel-
lo di Rimini; Benevolo, insieme ad
altri, quello di Ascoli Piceno e Ferra-
ra; Rìdolfì quello di Temi; Lugli quel-
lo di Tivoli e Forlì; Gazzola quello di
Verona» mentre città come Bologna,
Como, Reggio Emilia, Genova, Savona
predispongono d'ufficio i rispettivi pia-
ni di risanamento; lo stato interviene
pubblicamente con apposite leggi spe-
ciali sìa per la conservazione di Bari
vecchia, di Tusoania, del rione Ter-
ra di Pozzuoli, di Matera eccetera e
sia per modificare più o meno profon-
damente le normative dei piani regola-
tori dì città come Milano, Napoli, Ro-
ma, Venezia, Piacenza, Firenze, Savo-
na, tanto per citarne alcune, al fine di
assicurare una più rispettosa tutela
dell'ambiente storico. Malgrado ciò il
problema non è riuscito a trovare, nel-
la realtà del nostro tempo, alcuna solu-
zione valida. I piani, le proposte, le
prescrizioni e le leggi speciali, e non,
sono rimasti e rimangono in gran par-
te sulla carta, inoperanti e inefficaci.
Abbiamo a tutt'oggi una ricca messe
di studi e di progetti ma ben pochi so-
no i risultati pratici che è stato pos-
sibile conseguire.
È evidente, pertanto, che fino a quan-
do il problema della difesa dei be-
ni culturali rimaneva una «obiettiva
necessità» avvertila soltanto da quella
piccola minoranza di persone che fino
a ieri coincideva quasi solo con la co-
siddetta « classe colta », era ben difficile
arrivare a una soluzione efficace che
portasse alla riqualificazione degli am-
bienti storico-urbani e che trovasse, a
sostegno, il consenso delle popolazioni
così com'era avvenuto, invece, per il
problema del l'ecologi a. Occorre, per-
tanto, oggi che nessuno pone più in
dubbio la necessità della conservazio-
ne integrale delle città storiche in quan-
to tali, affrontare con diversa volontà
politica (e qui sta il preciso nuovo
ruolo delle regioni olire che dello sta-
to) la risoluzione dei problemi soprat-
tutto d'ordine sociale ed economico
che sono propri del settore, sta predi-
sponendo la necessaria legge quadro
urbanistica sia innescando un ampio
processo di « partecipazione collettiva »
alla gestione della città evitando, come
invece avviene ancora in molte città,
che l'interesse e le scelte della specu-
lazione immobiliare continuino a mo-
dificare i contenuti residenziali tradi-
zionali delle aree centrali, il che favo-
rirebbe soltanto l'accentuarsi di quel
vasto processo di sostituzione sociale
che toglie spazio alla residenza, accele-
ra definitivamente l'espulsione degli
abitanti, modifica sostanzialmente il tes-
suto della città e altera i caratteri strut-
turali dell'edilizia storica.
Poiché esiste una serie di meccanismi
economici relativi al tipo di sviluppo
edilizio e urbanistico attuale che di-
ce chiaramente no alla conservazione
dei centri storici, sono in molti oggi
coloro che ritengono che occorra ag-
gredire proprio la politica della casa
(le più recenti leggi sulla casa sono,
ad esempio, meno discriminanti delle
precedenti nei confronti delle abitazio-
ni esistenti), facilitando il recupero del-
l'edilizia storica a vantaggio soprattut-
to di quelle classi sociali, medie e
piccole, che sono state in questi ulti-
mi anni forzatamente espulse dai lo-
ro luoghi tradizionali sia per l'alto co-
sto delie operazioni di risanamento sia
per il calcolo speculativo legato alle
scelte della grande proprietà privata o
per gli squilibri territoriali tuttora esi-
stenti tra aree depresse e zone di ac-
centuato sviluppo industriale. È para-
dossale che in Italia, paese ove esiste
tuttora un notevole fabbisogno di abi-
tazioni, si lascino decadere circa 15
milioni di vani antichi o se ne modifi-
chino i contenuti tipologici per adibirli
a destinazioni di uso diverso dalla re-
sidenza tradizionale. Occorre, in defini-
tiva, che tali heni - che costituiscono
60
61
Gli interventi di restauro, riguardanti il centro storico di Bo-
logna ed esemplarmente condotti attraverso Tanaìi&i delle tipo*
logie edilizie, hanno permesso soluzioni estremamente rigorose
per ogni testimonianza storio j del passato, pur tenendo nel mas-
simo conto le esigenze dell'intervento pubblico e della tutela de-
gli interessi economici e sociali delle popolazioni esistenti.
un insieme culturale ed economico
considerevole - vengano conservati, in-
dipendentemente dai loro valori for-
mali (belli o brutti che siano), oltre che
per i toro vaìori storici, anche per i
contenuti sociali. Questi ultimi po-
trebbero essere convenientemente re-
cuperati solo se si riuscisse a garantire
una diversa impostazione economica
del problema. Per far ciò occorrono
indubbiamente provvidenze politiche e
legislative che non siano di solo « vin-
colo # bensì tali da incentivare un ri-
sanamento effettivo delle abitazioni per
un recupero di sempre più larghi strati
sociali (e a vantaggio soprattutto della
popolazione più giovane) che altrimen-
ti tenderebbero a spostarsi verso abita-
zioni, forse apparentemente più con-
fortevoli, ma certamente poste in zo-
ne sempre più periferiche e marginali,
f^iò potrà risultare fattìbile solo se
le regioni sapranno impostare per i
rispettivi territori una loro politica dì
intervento che modifichi il modello di
assetto territoriale in atto come alter-
nativa all'attuale modello di concen-
trazione per un più equilibrato uso del-
le risorse e del suolo. È necessario cioè,
prima di affrontare i problemi più spe-
cìfici del « risanamento », cercare dì
risolvere l'attuale squilibrio territoria-
le tra Nord e Sud, tra zone di svilup-
po e aree in abbandono. Ma per far
questo occorre soprattutto una diversa
politica di localizzazione industriale,
una nuova riqualificante azione a so-
stegno dell'agricoltura e, a livello di
crescita urbana, l'attuazione di tutta
una serie di incentivi e di disincentivi
ptr evitare lo squilibrio nelle previsio-
ni urbanìstiche di quasi tutti i nostri
comuni dediti fino a ieri troppo sempli-
cisticamente alla de cu plica z ione delle
loro effettive necessità dì fabbisogno
abitativo.
Le provvidenze economiche previste
nella legge speciale per Venezia do-
vrebbero, in questo quadro, tendere a
sollecitare e a facilitare il rientro nel-
la città insulare di gran parte della
popolazione che forzatamente è stata
costretta ad allontanarsi da essa in que-
sti ultimi anni.
Ed è proprio per ottenere ciò che la
legge prevede la realizzazione di un
« piano comprensorìale », come stru-
mento volto alla riorganizzazione del
territorio circostante la laguna, se si
vuole una effettiva salvaguardia e ri-
vitalizzazione di Venezia, Solo con
un contributo della spesa pubblica sa-
rà tuttavia possibile raggiungere risul-
tati tali da ridurre al minimo i proces-
si degenerativi, frutto dell'attuale spe-
culazione edilizia e Fondiaria,
Analogo è il caso del centro storico
di Napoli vincolato per il suo elevato
valore storico dal Consiglio superiore
dei lavori pubblici a restauro e risana-
mento conservativo, con una rigorosa
normativa urbanistica, che tuttavia non
potrà attuarsi senza una precisa par-
tecipazione dello stato a causa dell'ele-
vato costo delle operazioni di restauro
e del carattere stesso dell'opera di risa-
namento, la quale non può essere la-
sciata alla sola iniziativa privata.
Occorre ridurre al minimo gli incen-
tivi allo sfruttamento incontrollato del-
la consistenza edilizia delle città sto-
riche, come tuttora invece si lascia fa-
re grazie anche all'attuale meccanismo
di risanamento che, come nel caso di
molte città, dovrebbe godere di diffe-
renziate condizioni di rimborso e non di
semplici contributi e incentivi. Solo
fermando l'esodo delle popolazioni, mi-
gliorandone le classi di età oggi poco
elevate, eliminando i processi di ghet-
tificazione. sarà possibile rovesciare il
letale fenomeno di obsolescenza del-
le strutture urbane storiche. Questo è,
indubbiamente, il problema più difficile
che le regioni - a livello politico - do-
vranno affrontare per un immediato
riequilibrio dei valori culturali su tut-
to il territorio, al fine di proporre so-
luzioni realìsticamente valide e non
ipotesi disancorate dalla realtà come
di fatto finora purtroppo è accaduto*
IVel settore, invece, più specificata-
mente teorico-proposìtìvo e meto-
dologico le region i possono disporre og-
gi di soluzioni operative quanto mai
valide sotto il profilo dei possibili ri-
sultati conseguibili» grazie al passaggio
avvenuto in questi ultimi anni da una
concezione meramente figurativa e for-
male, cioè estetizzante, a una conce-
zìone più rispettosa dei valori storici di
ciascun organismo edilìzio visto nel-
l'integrità della sua concezione tipo-
logica, formale e strutturale.
11 Convegno di Bergamo del 1971 e
gli studi dei piani di Bologna, Como
e Rimini, oltre a quello di Vicenza fat-
to da Coppa, hanno per la prima volta
permesso di dare una nuova imposta-
zione al problema dei centri storici.
Per quanto riguarda gli interventi
operativi le più recenti esperienze han-
no, infatti, dimostrato che i caratte-
ri tipologici (e quelli più strettamen-
te a questi connessi come quelli strut-
turali e distributivi) costituiscono, nel-
l'ambito del loro lento ma coordina-
to sviluppo temporale, in stretta sim-
biosi con gli stessi valori stilistici, gli
elementi architettonici caratterizzanti
la complessa unità e omogeneità di
qualsiasi organismo edilizio storico. Poi-
ché occorre tendere alla conservazio-
ne e alla riqualificazione dei caratte-
ri costitutivi dell'intero organismo edi-
lizio, cosi come gli eventi storici lo
hanno configurato fino ai nostri gior-
ni, è necessario che non vengano mai
disgiunti gli aspetti formali da quelli
tipologici se si vuole compiere effetti-
va operazione él restauro edilizio, nel
recupero cioè di quei caratteri strut-
turali, distributivi e di destinazione di
uso che, unitariamente considerati, co-
stituiscono gli elementi essenziali per
la effettiva conservazione della com-
plessa realtà storica e sociale di ogni
città.
Tale metodologia dovrà, Inoltre, es-
sere sempre verificata con l'utenza al
fine di una maggiore, più precisa, pun-
tuale e pertinente rispondenza delle
necessità del risanamento ai bisogni
concreti della popolazione.
I a nuova « Carta del restauro » emes-
sa di recente dal Consiglio superiore
delle belle arti e quella in corso di for-
mulazione da parte dell'ICOMOS per
aggiornare la Carta di Venezia del
1964 costituiscono, in proposito, il più
importante e significativo contributo
« ufficiale » al problema. In tali docu-
menti, infatti, i centri storici vengono
considerati per la prima volta merite-
voli di restauro e risanamento conse-
cutivo non solo per i loro valori este-
tico-formali e per i loro caratteri sto-
rico-documentari, ma soprattutto per
la presenza di quegli aspetti funziona-
li, distributivi, strutturali che sono ta-
li da determinare i « caratteri tipolo-
gici di ogni singolo organismo edilizio»
e che sono estremamente importanti da
conservare per garantire una effettiva
unità all'operazione del restauro ur-
bano.
Tale atteggiamento «ufficiale», uni-
tamente alla nuova, più dilatala dimen-
sione scaturita dal mondo della cultu-
re, .fa sì che oggi per risolvere compiu-
tamente ogni aspetto del complesso
problema non possano più venire igno-
rati anche quei meccanismi economici
che sono stati finora i maggiori respon-
sabili delle più pesanti trasformazioni
dei centri storici.
Una efficace politica di riequilibrio
di tali centri, pertanto, pur partendo
dalle ultime rigorose metodologie ope-
rative valide a livello urbano ed edi-
lìzio, dalle nuove definizioni contenu-
te nella « Carta del restauro », dalle
precise scelte politiche ed economiche
formulate dagli ultimi congressi in ma-
teria, non potrà mai essere formulata
pienamente se non si prenderanno in
esame, come già detto, le complesse im-
plicazioni territoriali - e quindi urba-
nistiche - che hanno portato alla gra-
ve crisi di questo importante settore, il
cui riequilibrio è fondamentale se si
vuole riportare ordine nella città. Il
recupero dei centri storici è, infatti,
strettamente connesso a un effettivo
riassetto del territorio proprio per un
migliore utilizzo di ogni sua risorsa,
dal momento che esìste una stretta di-
pendenza tra ì meccanismi di sviluppo
della città, le variazioni del mercato
immobiliare e le scelte della proprie-
tà sul capitale investito nel settore
edilizio. È da questi problemi, infatti,
che nascono poi conseguentemente le
scelte per le operazioni di restauro e
di riqualificazione sociale o non. È
necessario giungere quindi al più pre-
sto a una legge quadro per l'urbanisti-
ca che contenga un apposito titolo sui
centri storici, il quale tenga nel giu-
sto conto il problema della conserva-
zione dell'edilizia di valore storico, il
tutto nell'ambito di una sostanziale re-
visione delle attuali polìtiche di svilup-
po del territorio e delle città, alla luce
delle ultime acquisizioni del mondo cul-
turale, economico e sociale in materia
di risana memo conservativo e della re-
cente esperienza legata all'applicazio-
ne della legge speciale per Venezia,
Il 1975 è Tanno internazionale per
la conservazione dei centri storici pro-
mosso dal Consiglio d'Europa simil-
mente all'anno internazionale per la
difesa della natura del 1970; saranno
capaci lo stato, le regioni e i comuni,
in occasione di questo appuntamento
europeo, di mostrare tangìbilmente che
esiste una volontà effettiva per risol-
vere il problema, o ci si ridurrà ancora
una volta a vaghe quanto generiche
affermazioni dì princìpio? Gli ultimi
venti anni dì storia europea non lasce-
rebbero, in proposito, sperare nulla dì
buono per il futuro ma oggi, dal mo-
mento che in Italia è stata profonda-
mente modificata la struttura dello sta-
to con l'avvento delle regioni, è leci-
to, almeno, sperare in un ripensamen-
to. Rimarrà anche questo solo una
speranza?
62
63
Orologi biologici
della zona di marea
Negli organismi sono assai frequenti orologi interni regolati sul
ritmo del giorno solare; piante e animali che vivono lungo la costa
possiedono però anche un orologio basato sul giorno lunare
(ti John l). Palmer
Nella spiaggia situata tra le linee
di marea sulla costa sette n trio-
naie di Cape Cod vive un'alga
bruno-dorata microscopica, la diatomea
Hantzschia virgata. Il protoplasma di
questa pianta unicellulare è racchiuso
in una parete cellulare silìcea, allunga-
ta e perforata in molti punti da pori e
fessure. Attraverso alcuni pori termi-
nali Taiga secerne una sostanza mucil-
lagginosa che utilizza per compiere un
lento movimento di propulsione attra-
verso il suo habitat sotterraneo. Du-
rante il periodo di bassa marea diur-
na il minuscolo organismo mobile sci-
vola tra gli interstizi dei granelli di
sabbia fino alla superfìcie: qui rimane
per tutto il tempo di bassa marea, espo-
nendo il suo apparato fotosintetico alfa
luce solare. A metà estate le diatomee
sono talmente numerose che, nonostan-
te le dimensioni microscopiche, forma-
no un evidente tappeto di coìor bruno-
-dorato che riveste la spiaggia. Esse, non
appena l'alta marea le sommerge, si
sprofondano nel sicuro rifugio della
sabbia
Per mettere in evidenza alcuni in-
teressanti aspetti del meccanismo mi-
gratorio di questi microrganismi si tra-
sporta la sabbia contenente le diato-
mee dalla costa settentrionale di Cape
Cod al Laboratorio di Biologia marina
di Woods Hole, sulla costa meridiona-
le. I campioni vengono messi in un ter-
mostato, dove la temperatura è man-
tenuta costante e la luce rimane accesa
in continuità: in questo nuovo ambien-
te, in cui non esistono i cambiamenti
periodici giorno-notte e alta-bassa ma-
rea, le diatomee continuano le escur-
sioni periodiche fino alla superficie del-
la sabbia, in sincronia virtuale con le
diatomee rimaste a 45 chilometri di di-
stanza. I movimenti nel laboratorio so-
no talmente «puntuali», che quando
progettiamo un'escursione a Cape Cod
Bay, talvolta osserviamo le diatomee
nel termostato anziché consultare le
tavole di marea- Poiché il ritmo delle
diatomee persiste in assenza delle pe-
riodicità ambientali che dovrebbero re-
golare questo comportamento, sembra
che air interno di queste piante vi sia
un orologio biologico che regola le ca-
ratteristiche temporali della loro vita.
Questa affermazione non è uno dei
tanti divertenti aneddoti che si raccon-
tano sulla vita degli organismi: la mag-
gioranza degli abitatori della zona di
marea mostra infatti a precise scaden-
ze ritmi periodici, caratterizzati dalla
ripetizione di un fatto fisiologico o re-
lativo ai comportamento, come una
febbrile attività sincronizzata con una
particolare fase della marea. Poiché in
ogni giorno lunare {lungo 24,3 ore, che
rappresentano il periodo di tempo che
intercorre tra due successivi levar della
luna) si producono due alte maree, i
ritmi vengono definiti « ritmi bimodali
di giorno lunare », in contrasto coi
rttmi unimodali di giorno solare degli
organismi sincronizzati sul giorno so-
lare di 24 ore. Gli orologi biologici re-
golati sia sul giorno lunare, sia su quel-
lo solare, hanno un'importanza note-
vole per la sopravvivenza, in quanto
avvertono anzitempo dei cambiamenti
regolari dì taluni aspetti periodici del-
l'ambiente, come il crepuscolo o il ri-
torno dell'alta marea: poiché l'orologio
continua a funzionare anche nelle con-
dizioni immutabili del laboratorio, si
deduce che i ritmi biologici persistano
per un considerevole periodo di tempo,
[~ 'uca, o granchio violinista, un cro-
staceo adattatosi evolutivamente al-
le piattaforme fangose e sabbiose del-
le coste nordamericane, emerge dalla
tana durante la bassa marea: lo si vede
procedere con la sua caratteristica an-
datura laterale attraverso le spiagge,
in cerca di detriti. I maschi ingaggiano
finti combattimenti tra loro e cercano
di attirare le femmine nella tana da
scapoli con goffi cenni dell'enorme
chela: quando arriva rondata di marea
tutti i granchi si ritirano nella tana,
dove rimangono al sicuro fino al ter-
mine dell'alta marea.
In laboratorio è molto semplice regi-
strare il comportamento locomotore di
questo granchio, Si usano come conte-
nitori semplici scatole di plastica, come
quelle in cui si pongono le esche per
pescare, facilmente reperibili presso i
negozi sportivi, e in ciascuna di esse si
pone un granchio. La scatola, bilan-
ciata su un fulcro a coltello, si inclina
non appena il crostaceo si muove da
un'estremità all'altra, provocando la
chiusura di un microinterruttore, il
quale, a sua volta, produce uno spo-
stamento d f una penna che scrive su
una striscia di carta. Questo registra-
tore di movimenti viene posto in un
termostato, cosicché il granchio può
sbizzarrirsi negli andirivieni per giorni
e giorni, In questo ambiente monotono
l'orologio dell'animale continua a fun-
zionare e a registrare quasi fedelmente
(ma non del tutto) i medesimi movi-
menti che si verificano in natura. La
differenza è lieve, ma significativa: in
laboratorio il periodo del ritmo bimo-
dale di giorno lunare è leggermente
più lungo o più corto dell'analogo pe-
riodo dell'ambiente naturale. Questa
variazione di periodicità si riscontra
ogni volta che un organismo viene po-
sto in un ambiente dove non si verifi-
cano cambiamenti.
Poiché i ritmi di marea seguono il
giorno lunare, prendono il nome di
«circalunadiani » (dal latino circa lu-
narem dìem: quasi uguali a un giorno
lunare),
I ritmi in alcune specie di granchi
violinisti continuano inalterati talvol-
64
La spiaggia di Cape Cod è popolata da colonie della diatomea
Hantzschia virgulti* Questa alga durante la bassa marea vive
nella sabbia umida tra la linea cfalta marea e il bordo dell'acqua.
La fotografia in alto mostra una parte della spiaggia appena
liberata dal riflusso della marea. Nella fotografia in basso, scat*
lata alcuni minuti più tardi, appaiono chiazze bruno -dora Ir, for-
mate dalle diatomee mitrale in superficie. Quando si pone in un
termostato la sabbia contenente queste diatomee, con luce e
temperatura Tostanti, gli organismi continuano a migrare verso
la superfìcie in sincronia coi periodi delle maree diurne che si
verificano sulla spiaggia di origine. L'oggetto nelle fotografie
serve da riferimento per poter confrontare le differenze di colore.
65
I] comportamento migra io rio di Hantzschùi virgata è echematis*
za lo in queste due sezioni verticali di terreno sabbioso. Le
diatomee di questa specie normalmente risiedono circa nn
millimetro sotto la superficie della sabbia (et sinistra). Ogni
dia tornea possiede due cloroplasti a forma di X f in cui avviene
la fotosintesi. Durante le ore diurne gli organismi sono spinti
verso la superficie dal muco espulso attraverso i pori terminali
delle pareti cellulari, allungate e di consistenza silìcea in destra).
Le diatomee rimangono esposte alla luce del sole fino al momen-
to in cui la sabbia viene invasa dall'ondata di ritorno della marea.
ta per circa cinque settimane in labo-
ratorio, ma più spesso si smorzano
abbastanza rapidamente. I granchi deb-
bono essere esposti di tanto in tanto a
immersioni periodiche in acqua di ma-
re, se si vuole che il ritmo mareale
perduri a lungo: anche in natura,
quando piccole popolazioni di granchi
violinisti si stabiliscono lungo i margi-
ni di pozze non soggette a variazioni
di marea, perdono il ritmo mareale e
mantengono unicamente il ritmo lega-
to al giorno solare. Quando però que-
sti crostacei vengono riportati su una
spiaggia soggetta alla marea, riescono
a ristabilire velocemente il ritmo Segato
al giorno lunare, che poi persiste ab-
bastanza a lungo anche quando gli ani-
mali vengono portati in località lontane.
Sulle medesime piattaforme di marea
vivono, a fianco del granchio violinista,
due altre specie, il granchio verde e il
granchio della penultima ora: entram-
bi questi crostacei mostrano ritmi ma-
reali* ma differiscono dal granchio vio-
linista in quanto presentano un'attivi-
tà sincronizzata col periodo d'alta ma-
REGISTRATORE
WWW :v.,V -■ "" : -'-[
r
La*
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L'attività giornaliera di un granchio violinista viene registrata sposta una estremità della scatola, questa s'inclina da anello
con un semplice strumento costituito da una scatola di plastica parte e chiude un interruttore collegato a un pennino. È così
in equilibrio sopra un fulcro a coltello: quando il granchio possibile conoscere il numero degli andirivieni del granchio»
66
rea, I ritmi delle due specie persistono
nelle condizioni costanti del laborato-
rio per una settimana, poi svaniscono.
Nel caso del granchio verde sì è potu-
to dimostrare che questi animali, pur
avendo perso il ritmo nel laboratorio,
possono recuperarlo senza essere sotto-
posti alle maree: basta raffreddare
l'ambiente a una temperatura di 4 °C
per sei ore.
Questa tecnica è stata utilizzata an-
che per dimostrare che i ritmi mareali
non vengono appresi dall'animale du-
rante il processo di crescita, ma sono
innati. Barbara Williams, compiendo
ricerche con Ernst Naylor all'Uni-
versity College di Swansea, riuscì con
pazienza e abilità a far nascere e al-
levare granchi verdi in laboratorio, par-
tendo dalle uova, attraverso i nume-
rosi stadi larvali, fino a giungere al-
la fase adulta. Durante l'intero pro-
cesso di maturazione i granchi furono
esposti solo ai cambiamenti periodici
giorno-notte del laboratorio. Quando
i granchi raggiunsero dimensioni suffi-
cienti per essere utilizzati nei nostri espe-
rimenti, si scopri che fattività locomoto-
ria era limitata alle ore diurne. La Wil-
liams praticò a questo punto ai granchi
un «trattamento a freddo» per 15 ore
e registrò in seguito il comportamento
locomotorio: apparve allora d'un trat-
to una distinta componente mareale,
Poiché un periodo singolo di 15 ore di
freddo non avrebbe potuto fornire ai
granchi alcuna informazione sul ciclo
delle maree, di durata pari a 12 T 4 ore,
è ragionevole concludere che l'orologio
che misura la frequenza mareale è in-
nato e che per essere attivato ha biso-
gno solo di uno stimolo ambientale
opportuno.
In condizioni naturali sia il gran-
chio delia penultima ora, sia quello ver-
de, mostrano durante le loro attività
locomotore un evidente ritmo di gior-
no solare oltre al ritmo di giorno luna-
re. Nel granchio della penultima ora
il ritmo solare appare come un largo
picco d'attività che perdura per tutta
la notte. Nel granchio verde il ritmo
solare è rappresentato non come un
unico picco, ma come una diminuzione
nell'atti vita quando la marea diurna è
massima. La combinazione dei ritmi so-
lari e lunari, piuttosto frequente negli
organismi che vivono nella zona di ma-
rea, solleva la questione se tali organi-
smi possiedono un orologio solare per
una componente del ritmo e un oro-
logio lunare separato per l'altra compo-
nente, oppure se esiste un unico oro-
logio che faccia funzionare entrambi
i ritmi: un meccanismo a orologio sin-
golo potrebbe essere paragonato a quel
tipo d'orologio da polso usato da al-
cuni pescatori, che presenta contempo-
5 LUGLIO
20r — *-*■
ALTA MAREA
BASSA MAREA
MEZZANOTTE
7 LUGLIO
MEZZOGIORNO
MEZZANOTTE
20
16
io
<
<
o
a,
Cft
1
-
-1 ! ■
MEZZANOTTE
9 LUGLIO
MEZZOGIORNO
MEZZANOTTE
MEZZANOTTE
11 LUGLIO
MEZZOGIORNO
MEZZANOTTE
CAI
15
10
/"""""^
5
^\
1 Ar
S
MEZZANOTTE
MEZZOGIORNO
MEZZANOTTE
Il granchio violinista ' 'in alto) vive sulle piattaforme fangose e sabbiose soggette alla
marea: durante l'alta marea rimane nella sua tana, mentre durante la bassa marea esce
in cerca di cibo. Quando uno di questi granchi viene tolto dal suo ambiente e posto
in un termostato con luce e temperatura costanti, al Pi ni zio i suoi periodi di massima
attività corrispondono ai tempi di bassa marea della località di origine (curva in alto)*.
poi il periodo del ritmo comincia ad allungarsi e verso la fine della settimana
non è più in sincronia con i tempi di marea della spiaggia di origine (curva in basso).
67
rancamente sul quadrante l'indicazione
dell'ora solare e dell'ora di marea-
Oltre all'attività locornotoria, nei gran-
chi esistono anche altri processi re-
golati da un orologio biologico. I rit-
mi di variazione di colore del granchio
violinista, del granchio verde e di quel-
lo della penultima ora sono stati stu-
diati da Frank A, Brown jr. p Margue-
rite Webb e Milton Fingerman del Ma-
rine Bioiogical Laboratory e da B.L.
Powell del Trinity College di Dublino.
Nell'ipoderma dì questi granchi sono
presenti dei cromatofori stellati che
contengono granuli d'un pigmento scu-
ro: quando i granuli di pigmento sono
strettamente aggregati nel centro del-
le cellule, la colorazione dei granchi
è chiara, quando i granuli sono unifor-
memente dispersi io tutti i prolunga-
menti delle cellule, l'effetto di colore
che risulta è scuro. Tutte e tre le specie
impallidiscono di notte e diventano scu-
re durante le ore diurne, anche quan-
do sono poste nelle condizioni costanti
di un laboratorio. Si è trovato che la
variazione di colore del granchio vio-
ALTA MAREA
linista possiede anche una componen-
te regolata dalla marea che produce un
oscuramento addizionale al momento
della bassa marea.
Gli occhi dei granchi sono posti su
peduncoli mobili, sedi di un'unità neu-
roendocrina chiamata complesso or-
gano X - ghiandola del seno, che secer-
ne un ormone in grado di far disper-
dere i granuli di pigmento all'interno
dei cromatofori. Powell ha dimostra*
to che l'asportazione dei peduncoli ocu-
lari del granchio verde (e quindi anche
del complesso organo X - ghiandola
ALTA MAREA
t
<
>
/ ME22ANOTTE ^V
^x
MEZZO- ^
GIORNO ^^ jf
< 24 ORE
\ j^ MEZZO-
V^^ GIORNO
=H
il granchio della penultima ora vive «olle piattaforme di marea
in una zona molto vicina a quella del granchio violinista: il
suo nome deriva dal fatto che fattività di un individuo appena
catturato rag giunge il culmine un'ora prima della mezzanotte.
La curva in nero mostra Tatti vita media regolata sul giorno so-
lare, di 30 granchi per un periodo di un mese. Lo eterno crosta-
ceo dimostra anche un ritmo di attività regolato ani giorno lu-
nare {curva in colore) che corrisponde ai periodi d'alta marea.
ALTA MAREA
ALTA MAREA
ALTA MAREA
ALTA MAREA
ALTA MAREA
MEZZANOTTE
MEZZOGIORNO
MEZZANOTTE
MEZZOGIORNO
MEZZANOTTE
Il granchio verde, che vive pure sulle piattaforme soggette a
maree, possiede un modello di attività locornotoria corrispon-
dente ai periodi d'alta marea, L'attività diminuisce nettamente
quando Falla marea ài verifica durante le ore diurne. Questo
comportamento non viene perduto quando il granchio viene
portato in laboratorio in condizioni costanti (curva in neroh
Il granchio verde mostra inoltre un ritmo, regolato dal giorno
solare, di variazione del proprio colore: impallidì sce durante la
notte e diviene più scuro durante le ore diurne. Il ritmo di va-
riazione cromatica (curva in colore), che persiste quando il gran*
chio è mantenuto in condizioni costanti, si pensa sia controllato
da un sistema neuroendocrino localizzata nei peduncoli oculari.
del seno) elimina il ritmo dì cambia-
mento di colore del granchio. Inoltre
lo stesso ricercatore ha potuto dimo-
strare che il ritmo si ripristina in un
granchio senza peduncoli, innestando-
gli le ghiandole del peduncolo d'un al-
tro granchio. Questi risultati dimostra-
no che nel granchio verde i peduncoli
oculari sono la sede dell'orologio che
controlla il ritmo di mutamento di co-
lore: nel granchio della penultima ora
e nel granchio violinista l'asportazione
dei peduncoli oculari riduce invece uni-
camente l'ampiezza dei ritmi di cambia-
mento di colore.
Il sistema neuroendocrino dei pedun-
coli oculari esercita anche un controllo
sul ritmo di attività locornotoria del
granchio verde. Negli esperimenti con-
dotti da Naylor e Williams, quando i
peduncoli oculari dei granchi verdi ve-
nivano asportati, tutta Fattività loco-
motoria cessava e ritornava solo gra-
dualmente nei successivi set giorni.
Poiché nei granchi verdi il ritmo di
marea svanisce normalmente dopo cir-
ca una settimana nelle condizioni co-
stanti del laboratorio, la mancanza dì
ritmo nei granchi senza peduncoli quan-
do riprendevano la loro attività non era
affatto strana. Tuttavia i tentativi per
restaurare 11 ritmo, mediante immer-
sione dei granchi in acqua fredda, non
ebbero alcun effetto. D'altro canto i
granchi a cui erano state asportate so-
lo le retine, e non 1 peduncoli, ritor-
navano al ritmo normale dopo essere
stati immersi in acqua fredda.
In successivi esperimenti Naylor e
Williams trovarono che non era neces-
sario sottoporre tutto ti corpo del gran-
chio al tuffo nell'acqua fredda. Se si
pone un granchio aritmico in acoua
con una temperatura di 15 °C, ma le-
gato in modo da fare sporgere i pe-
duncoli oculari sopra la superfìcie, il
suo ritmo mareale può essere ripristi-
nato semplicemente facendo gocciola-
re acqua marina ghiacciata sopra i
peduncoli per un breve periodo. Infi-
ne, Naylor e Williams ricavarono estrat-
ti di peduncoli oculari di granchi ver-
di nella fase quiescente del ritmo ài
attività locornotoria e iniettarono gli
estratti in granchi attivi a cui erano
stati estirpati i peduncoli, L'iniezione
provocò una riduzione significativa del
livello di attività di questi granchi, di-
mostrando che esiste una sostanza ini-
bitrice liberata periodicamente dalle
ghiandole del peduncolo.
Ho effettuato esperimenti simili sul
granchio della penultima ora. Quan-
do i peduncoli oculari di questo gran-
chio venivano asportati, tutta l'attivi-
tà locornotoria si fermava. Ricavai e-
stxatti di peduncoli oculari di granchi
ritmici sia durante la fase attiva, sia du-
I i variazione di colore del granchio violinista è il risultato di un'aggregazione o di
una dispersione di granuli di pigmento in alcune cellule dell'ipoderma, dette croma*
tofori (in ulto, notevolmente ingranditi): in nlcuni cromatofori vi sono solo granuli neri,
in altri anche granuli bianchi o arancioni. Questa specie di granchio diventa più chiara
dui-ante la notte mentre gì scurisce in presenza di luce diurna. La componente marcate
di questo ritmo fa si che vi sia un oscuramento addizionale nel periodo di bassa marea.
rante la fase quiescente del Patti vita
locornotoria e li iniettai in varie con-
centrazioni in granchi che erano diven-
tati aritmici a causa di una permanen-
za prolungata in condizioni costanti.
In seguito a questo esperimento non si
poterono osservare alterazioni consi-
stenti nei livelli di attività dei granchi
recettori.
Poiché le ghiandole neuroendocrine
dei peduncoli oculari del granchio del-
la penultima ora non determinano il
ritmo dell'attività locornotoria di que-
sta specie, effettuai un esperimento per
scoprire se vi fosse un messaggero chi-
mico proveniente da qualche altro pun-
to del corpo: congiunsi due granchi,
uno dei quali fortemente ritmico, Tal-
Ero aritmico, ritagliando due pìccole
aperture neiresoscheletro dorsale dei
due animali e saldando queste feri-
te con la ceralacca. Nei granchi la
maggior parte del sangue non è con-
tenuta in vasi sanguigni, ma fluisce
liberamente negli spazi tra gli organi:
quindi, quando due granchi restano
congiunti nel modo che ho descritto
sopra, il sangue dell'uno si mescola li-
beramente con quello dell'altro.
Tenni presente anche una particola-
rità anatomica dei granchi, il processo
detto autotomia. Quando un granchio
viene aggredito, l'attaccante di solito
gli afferra una delle 10 zampe: la vit-
tima sì difende eliminando la zampa e
scappando prima che il predatore glie-
ne afferri un'altra. La zampa si separa
dal corpo in un punto di rottura pre-
determinato: la perdita eccessiva di
sangue dal moncone viene evitata me-
diante un meccanismo dì blocco auto-
matico e la zampa sacrificata si rige-
nera durante le mute successive.
Sfruttando questo meccanismo di am-
putazione automatica, poco prima di
congiungere i due granchi, indussi il
granchio ritmico a disfarsi di tutte le
sue zampe. Perciò dei due granchi co-
sì congiunti uno, aritmico, stava in
basso e camminava, mentre TaUro, rit-
mico ma privo delle zampe, si faceva
trasportare passivamente, rimanendo,
per forza di cose, supino (si veda Vil-
I us trazione a pagina 70). Qualsiasi at-
tività locornotoria registrata da questo
momento sarebbe stata l'attività del-
l'individuo fornito di zampe e avrebbe
avuto il significato di attività ritmica
indotta da una sostanza ignota, presen-
te nel sangue del granchio amputato*
Nei 47 esperimenti condotti su coppie
congiunte, non potei registrare alcun
ritmo. D'altra parte, quando due gran-
chi ritmici venivano saldati nello
68
stesso modo in esperimenti di control-
lo, si poteva osservare sempre un rit-
mo: quindi il procedimento di fusione
non era responsabile dell'assenza di
ritmicità.
è chiaro quindi che, mentre il siste-
ma endocrino è coinvolto nei ritmi di
variazioni di colore e di locomozione
nel granchio verde, non è necessaria-
mente coinvolto in ritmi di questo ge-
nere in altri granchi. Non è neppure si-
curo che un meccanismo neurale stia
alla base di un qualsiasi ri imo biologi-
co, poiché un livello di organizzazione
unicellulare come quello della diato-
nica Hantzschia è sufficiente a espri-
mere tutte le note proprietà dei ritmi
regolati da un orologio biologico.
L'attitudine al ritmo non viene ap-
presa e neppure rimane impressa su
un organismo per effetto dell'ambiente
circostante, ma è l'espressione d'un fat-
tore potenziale genetico. L'ereditarie-
tà determina anche se il granchio deve
essere attivo durante l'alta o la bassa
marea: questo non significa per altro
che l'ambiente non abbia un ruolo im-
portante nella chiara maniFestazione dì
un ritmo, L'orario delle maree su un
particolare tratto di costa determina
l'adattamento del ritmo. La relazione
tra un orologio biologico e l'ambiente
è simile a quella che si stabilisce tra
un orologio a pendolo e il suo proprie-
tario. II ritmo con cui cammina un
orologio a pendolo è determinato dai
suoi meccanismi e dal tipo di pendo-
lo, ma il proprietario può spostare in
ogni momento le lancette con le di-
ta per riportarle sull'ora esatta. Così
un granchio verde si adatterà ben pre-
sto a un massimo d'attività durante
l'alta marea e un granchio violinista
durante la bassa marea, anche dopo
che questi due animali siano stati tra-
sportati su una lontana spiaggia d'un
differente oceano.
Nella sabbia che forma le dune del-
le spiagge della California meridionale
è diffuso un piccolo crostaceo saltato-
re del genere Excirolatia. Ài culmine
dell'alta marea, quando le acque inon-
dano l'habitat di questo minuscolo iso-
podo, l'animaletto emerge dalla sab-
bia per nuotare e andare in cerca di ci-
bo tra i frangenti, Due o tre ore più
tardi, quando la marea si ritira, il cro-
staceo sì rintana nella sabbia e aspet-
ta la successiva ondata di marea, James
T. Enright della Scripps Institution of
Oceanography trovò che tali crosta-
cei, tenuti in un vaso d'acqua marina
in condizioni costanti, nuotavano at-
tivamente durante i periodi corrispon-
denti al massimo d'alta marea e rima*
nevano in riposo sul fondo del recipien-
te per tutto il resto del tempo.
Nella California meridionale l'an-
damento delle maree varia -notevolmen-
te secondo le fasi lunari. In un deter-
minato mese il tipo di marea passa
da un massimo per ogni giorno luna-
re a due per giorno lunare, Inoltre,
durante i periodi di transizione da una
marea al giorno a due e da due a una,
l'altezza dei massimi di marea conse-
cutivi varia. L.A. Klapow, che allora
lavorava all'Università di California a
San Diego» dimostrò che l'andamento
delle maree nel periodo in cui i piccoli
crostacei erano stati raccolti veniva ri-
flesso dall'intensità del ritmo di attività
la questa figura due granchi della pena Iti ma ora appaiono uniti in modo che il loro
sangue si può mescolare liberamente; nell'oso schei e Irò dorsale dì ciascun granchio
vergono effettuate alcune piccole incisioni, che poi vengono saldate con ceralacca.
I* granchio in alto *i è liberato di tulle le sue zampe per mezza delFautotoniia, un prò-
cesso mediante il quale un Branchi o stacca automaticamente l'arto afferrato da un preda-
tore. Prima dell'unione Tatti vita locomotoria del granchio così amputato era sincrona con
le maree, mentre Tatti vita del granchio illeso, era arìtmica. Negli esperimenti condotti
su queste coppie di granchi non si è mai rilevata un'attività ritmica: si conclude perciò
che il sangue non contiene alcun messaggero chimico clic induce tale comportamento.
degli stessi animali portati in laborato-
rio (si veda V illustrazione nella pagina
a frante)* In esperimenti separati Kla-
pow ed Enright dimostrarono anche
che le onde battenti e le acque turbino-
se determinano il modello di ritmo del-
l' i sapodo,
Sembra perciò che gli abitatori del-
le spiagge esposte al mare aperto ab-
biano modelli di attività regolati dall'a-
zione dei frangenti. Gli organismi che
vìvono in baie protette nella zona di
marea non sono invece esposti a fran-
genti e perciò dobbiamo cercare altri
fattori che ne determinano il ritmo; le
possibilità sono numerose: l'inondazio-
ne periodica e le variazioni regolari
di temperatura» la pressione idrostati-
ca» la composizione chimica delle ac-
que o la disponibilità d'ossigeno. Di
tutti questi possibili fattori, solo due
si sono dimostrati veramente importan-
ti: come esempio mi basterà citare un
altro studio sul granchio verde, ese-
guito dall'infaticabile gruppo di ricer-
catori condotti da Naylor e Williams.
Una delle scoperte più sorprendenti
è stata quella che la principale carat-
teristica della marea, la periodica inon-
dazione della linea di costa, non era di
per se stessa un fattore importante nel
sincronizzare il ritmo di attività loco-
motoria con le maree, Questo fatto fu
dimostrato portando dei granchi in la-
boratorio e sottoponendoli per cinque
giorni a 6,2 ore d'immersione in ac-
qua marina, seguiti da 6,2 ore di espo-
sizione all'aria. L'immersione in ac-
qua marina fu calcolata in modo da
corrispondere alla bassa marea nella
spiaggia natia dei granchi, capovolgen-
do così l'orario di marea di questi cro-
stacei. La temperatura dell'acqua e del-
l'aria fu mantenuta costante a 19 "C.
Dopo questo trattamento i granchi fu»
rono posti in un registratore d'attività,
dove i movimenti furono misurati du-
rante i successivi tre giorni mantenen-
do costante la temperatura. Il tratta-
mento non riuscì a riportare in fase il
ritmo dei granchi. Il procedimento ven-
ne ripetuto, ma stavolta la temperatura
dell'aria fu mantenuta a un livello di
1 1 gradi più elevalo di quello dell'ac-
qua. Cinque giorni di questo tratta-
mento rimisero in fase il ritmo dei
granchi, e la variazione rimase inal-
terata anche in condizioni costanti.
In una versione finale del medesimo
esperimento fu tralasciata l'immersio-
ne in acqua di mare. I granchi furono
esposti all'aria a 13 X per 6,2 ore e
poi all'aria a 24 tì C per lo stesso perìo-
do. Ne risultò una sincronizzazione
completa e persistente. Recentemente
ho provocato gli stessi cambiamenti di
comportamento nei granchi violinisti e
in quelli della penultima ora, e ne
ho dedotto che è T abbassamento di
temperatura portato dal flusso di ma-
rea che ha la maggiore importanza nel-
lo stabilire la fase del ritmo di attività
dei granchi.
L'altra forza ambientale che sincro-
nizza i ritmi alle maree locali è la pres-
sione idrostatica. In un esperimento al-
cuni granchi aritmici furono sottopo-
sti per cinque giorni a un ciclo di al-
ta pressione {1,6 atmosfere) per 6,2
ore, seguito da un periodo di 6,2 ore
di pressione normale. I granchi reagi-
rono con un aumento di attività du-
rante i periodi d'alta pressione: que-
sta periodicità continuò quando i gran-
chi furono mantenuti in condizioni
costanti,
per ora non abbiamo una conoscen-
za di prima mano di come l'orolo-
gio vìvente funzioni realmente: mentre
cerchiamo attivamente questo mecca-
nismo misterioso, abbiamo se non al-
tro chiarito molte delle sue proprietà.
Quando furono scoperti per la pri-
ma volta i ritmi dei processi biologici
come il metabolismo ossidativo, la fo-
tosintesi e altri processi simili, e ven-
ne notato che questi ritmi persisteva-
no in assenza di stimoli esterni, l'oro-
logio regolatore fu interpretato sem-
plicemente come un passaggio oscillan-
te nella catena di reazioni chimiche im-
plicate nei processi. Di conseguenza
ì primi tentativi di localizzare l'oro-
logio si occuparono dell'analisi delle
reazioni delle catene, della speranza
di identificare il punto d'oscillazio-
ne. Tale componente ritmica non fu
però scoperta e gli esperimenti succes-
sivi mostrarono che essa probabilmente
non esiste: in effetti ora si sa che l'o-
rologio è completamente distinto dal
processo che viene reso ritmico.
Una delle numerose osservazioni che
portano a questa conclusione fu ese-
guita sul granchio verde. Quando la
temperatura corporea del granchio fu
abbassata a 10 H C\ tutta l'attività loco-
motoria si arrestò per la. durata del raf-
freddamento. Quando la temperatura
corporea fu fatta ritornare al livello
normale, Fattività riprese e il ritmo di
movimento si trovò esattamente in fase
con quello dei granchi di controllo che
non erano stati raffreddati. È chiaro
che l'orologio del granchio aveva con-
tinuato a funzionare con precisione an-
che quando il ritmo non era stato espli-
cato. Questo dato dimostra che l'oro-
logio e i processi ritmici prodotti sono
separati e debbono essere congiunti in
modo da po ter essere staccati e poi
riagganciati.
11 distacco della coppia orologio-pro-
cesso indotto è forse anche la causa
della perdita finale di ritmicità che si
ANDAMENTO EFFETTIVO DELLA MAREA
TEMPO (GIORNI)
ANDAMENTO EFFETTIVO DELLA MAREA
MAREA AL MOMENTO DELLA CATTURA
AA A A A A A A /
J \s \j \j sj \j \j \j
ATTIVITÀ LOCOMOTORIA
4 5
TEMPO (GIORNI)
ANDAMENTO EFFETTIVO DELLA MAREA
TEMPO (GIORNI)
Il ritma di attività del genere Exeìroltmu, un pìccolo crostaceo isopodo detto pulce
della rabbia che vive sulle spiagge sabbiose della California meridionale, si è adattato
alla peculiarità delle maree nella regione. Le maree si alternano ogni mese tra un
massimo per giorno lunare e due massimi. Quando i piccoli isopodl vengono mantenuti
nelle condizioni costanti del laboratorio, il loro tipo di attività (curve in colore) tende
a imitare l'andamento delle maree a cui h>iid stati esposti per l'ultima volta (curve
tratteggùtte) amiche l'andamento effettivo delle maree {curve continue in nera).
70
71
nota negli animali mantenuti a lungo
nelle condizioni costanti del labora-
torio. Sembra che, quando gli animali
della zona di marea sono portati lon-
tano dal loro ambiente, non vi è più al-
cuna forza che li mantenga nel ritmo
marcale e quindi i processi vitali, svin-
colali dall'orologio, divengono aritmici.
La validità della nozione di accop-
piamento tra questo orologio e i pro-
cessi vitali è ulteriormente messa in ri-
lievo dal fatto che i ritmi, scomparsi
negli animali in laboratorio o in un
habitat naturale non soggetto a marea,
si possono ripristinare per mezzo di uno
stimolo semplice e di breve durata, per
esempio il raffreddamento. Poiché il
trattamento non fornisce alcuna infor-
mazione circa gli intervalli di marea,
T interpretazione più semplice è che
lo stimolo riagganci la coppia formata
dall'orologio, che nel frattempo ha
continuato a funzionare, e i processi
che regolano Tatti vita locomotoria: ta-
le attività quindi ridiventa ritmica.
Come abbiamo visto, il ritmo di mi-
grazione verticale della diatomea Hantz-
schia dimostra che a un orologio biolo-
gico è sufficiente il livello di organiz-
zazione caratteristico di un'unica cel-
lula per potersi esprimere. Esistono
altri due organismi unicellulari che for-
niscono esempi ancor più evidenti. Il
dinoflagellato marino Gonyaulax di-
mostra di possedere simultaneamente
ritmi diversi in quattro processi: foto-
sintesi, luminescenza (emissione di lu-
ce durante la notte), irritabilità e divi*
sione cellulare. Nell'alga verde unicel-
lulare À ce tabularla sono stati scoperti
ben cinque ritmi diversi, che persistono
anche quando il nucleo della cellula
viene asportato con un metodo micro-
chirurgico. Esistono prove che nelle
piante e negli animali pluricellulari l'o-
rologio debba essere ricercato nelle sin-
gole cellule: quando gli organismi sono
suddivisi nelle loro parti e alcuni pezzi
vengono mantenuti in vita in coltura
di tessuto, le cellule continuano il rit-
mo originario. Il luogo più plausibile
in cui si deve ricercare questo orolo-
gio vivente è quindi all'interno della
singola cellula, dove ci si può aspetta-
re di scoprirlo sotto forma di una qual-
siasi entità fisiologica. Tuttavia, no-
nostante ricerche approfondite, non so-
no stati localizzati né l'orologio, né al-
cuna delle sue componenti. La ricerca
comunque ha rivelato due aspetti inso-
liti di questo meccanismo: la velocità
con cui funziona è quasi completamen-
te insensibile alla temperatura e non
è neppure influenzata da tutta una
gamma di agenti chimici potenzial-
mente demolitori-
In generale aumentando la tempera-
tura aumenta la velocità con cui una
reazione chimica procede: ci si aspet-
terebbe quindi che l'orologio vivente,
con tutto il suo apparato chimico, ac-
celeri la propria velocità in modo ana-
logo. Per sottoporre a esperimento
queste ipotesi di lavoro, abbiamo sot-
toposto gruppi di granchi a tempera*
ture gradualmente superiori in labo-
ratorio e abbiamo osservato i loro rit-
mi in periodi di parecchi giorni. Poi-
ché il periodo d'un ritmo biologico
espresso si considera corrispondente al-
la frequenza portante dell'orologio, un
cambiamento del ritmo indotto dalla
temperatura si può considerare corri-
spondente a un mutamento nella fre-
quenza dell'orologio. Il risultato otte-
nuto negli esperimenti indicati è l'as-
senza completa di variazioni nel perio-
do: se si osserva una variazione, si trat-
ta soltanto di una frazione minima del-
le variazioni normali nei sistemi chi-
mici.
Quasi nello stesso modo si sono di-
mostrati infruttuosi i tentativi aventi
lo scopo di demolire i ritmi degli or-
ganismi con sostanze chimiche, come
inibitori della sintesi proteica, stimo-
(-9
2
6
H
ATTIVITÀ
ALTFII
PROCESSI
FISIOLOGICI
l 1
OHOLOGIO BIOLOGICO
1
OROLOGIO BIOLOGICO
MECCANISMO DI
ACCOPPIAMENTO
ATTIVITÀ
O ALTRI
PROCESSI
FISIOLOGICI
MECCANISMO DI
ACCOPPIAMENTO
ATTIVITÀ
O ALTRI
PROCESSI
FISIOLOGICI
TEMPO (OHE)
OROLOGIO BIOLOGICO
MECCANISMO DI
ACCOPPIAMENTO
TEMPO (OREJ
Si pensa che esista uri meccanismo dì accoppiamento, non anco-
ra i<! culi lì calu, tra gli e orologi > e i procedi biologici. Quando
La coppia è agganciala <a\, si ha l'espressione del ritmo biolo-
gico. Lo sganciamento della coppia ih) può causare la perdita
del comportamento ritmico degli organismi allevati in lab ora-
Iorio, Tuttavia l'orologio continua a funzionare e* quando il
meccanismo viene riagganciato fc» T il ritmo ricomincia al
jmtii'i corrispondente al € tempo * determinato dall'orologio.
72
lami, inibitori metabolici e sostanze
narcotizzanti, Delle centinaia di sostan-
ze utilizzate negli esperimenti, solo
quattro alterano il periodo del ritmo:
l'ossido dì deuterio, l'alcool etilico, la
valinomicina e gli ioni di lìtio. Data
la grande varietà e il numero di sostan-
ze vagliate, appare chiaro che gii oro-
logi biologici, a differenza degli altri
sistemi auto regolatori degli organismi,
sono virtualmente immuni a tutte le
manipolazioni chimiche.
Da un punto dì vista pratico questa
insensibilità avrebbe potuto essere pre-
vista. È certo che uno dei più impor-
tanti attributi di qualsiasi orologio, vi-
vente o artificiale, è la precisione: un
orologio la cui velocità venisse altera-
ta da variazioni di temperatura o da
sostanze chimiche presenti nell'ambien-
te non avrebbe i requisiti opportu-
ni. Anzi, se l'orologio reagisse a ogni
cambiamento della temperatura am-
bientale, non sarebbe a rigor di termi-
ni un orologio, ma piuttosto un termo-
metro che segnala le temperature am-
bientali mediante la velocità con cui
corre.
La precisione degli orologi biologi-
ci è ancor più stupefacente quando ci
si rende conto del fatto che tale esat-
tezza dev'essere mantenuta durante la
divisione cellulare, quando presumibil-
mente non solo la cellula ma anche
l'orologio viene riprodotto. La regola-
rità con cui viene compiuta questa ri-
produzione è stata dimostrata in una
ricerca sul paramecio, un protozoo uni-
cellulare, eseguita da Àudrey Barnett
dell'Università del Maryland. Nel cep-
po di parameci allevati dalla studiosa,
il sesso di ciascun animale varia ogni
giorno, nel periodo dell'accoppiamen-
to, da un individuo all'altro. La Barnett
sottopose a oscurità continua otto pa-
rameci i cui orologi erano stati rego-
lati sui cicli normali giorno-notte. Le
cellule della popolazione sì dividevano
2,2 volte al giorno, e alla fine dei sei
giorni avevano prodotto più di 121000
individui. Il settimo giorno fu dì nuo-
vo esaminato il comportamento di in*
versione sessuale dell'intera popolazio-
ne, e si trovò che era ritmico. La fa-
se del ritmo era assai simile a quella
delle cellule di controllo rimaste net
ciclo normale giorno-notte. Poiché solo
le otto cellule originarie erano state
sottoposte al ciclo giorno-notte, cia-
scuno degli orologi originari era sta-
to riprodotto numerose volte con una
perdita minima di precisione, 11 fatto
può essere anche interpretato in que-
sto senso: ogni cellula contiene molti
orologi alcuni dei quali si riproduco-
no mentre altri rimangono ancora col-
legati ai processi cellulari e ne regola-
no il ritmo,
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73
Alfred Wegener e l'ipotesi
della deriva dei continenti
Sessantanni fa questo scienziato avanzava Vipotesi che i continenti
si muovono e proponeva una teoria della loro migrazione; la validità
delle sue idee, tuttavia, non venne riconosciuta se non molto più tardi
di A. Hallam
Che le linee di costa dei due lati
dell'oceano Atlantico combacia-
no Tuna con l'altra come i pezzi
di un rompicapo dev'essere stato no-
tato non appena furono compilate le
prime buone carte geografiche del Nuo-
vo Mondo. Ben presto la complemen-
tarietà della forma dei due continenti
provocò delle speculazioni circa la lo-
ro origine e le loro storie, e un certo
numero di teorie primitive cominciò a
suggerire che queste forme non fos-
sero tali per una semplice coincidenza.
Nel 1620 Francesco Bacone richia-
mò l'attenzione sulla somiglianza dei
contorni dei due continenti, ma non
giunse a suggerire che essi potevano
un tempo aver costituito un'unica mas-
sa continentale. Nei secoli successivi
altre teorie cercarono di spiegare que-
sta corrispondenza, in genere come ri-
sultato di qualche supposta catastrofe,
quale lo sprofondamento della mitica
Atlantide. Il primo che suggerì che ì
continenti si erano effettivamente mos-
si sulla superficie della Terra fu Anto-
nio Snider Pellegrini nel 1858, ma an-
ch'egii attribuì l'evento a una causa
soprannaturale: il diluvio universale,
Oggi, naturalmente, la migrazione dei
continenti costituisce una parte essen-
ziale della teoria della struttura della
Terra universalmente accettata dai
geologi.
Fra le varie ipotesi che precedette-
ro la teoria moderna della tettonica a
zolle (si veda ti volume Tettonica a zol*
le e continenti alla deriva, Letture da
« Le Scienze », 1 974), una teoria si po-
ne in evidenza: quella formulata da
Alfred Wegener nei primi anni del
XX secolo. Wegener aveva accesso sol-
tanto a una piccola parte delle infor-
mazioni disponibili oggi, eppure la sua
teoria anticipa dì molto alcuni aspetti
fondamentali della concezione attuale
della Terra: non solo il moto dei con-
tinenti, ma anche la deriva polare coi
cambiamenti climatici che ne conse-
guono e il significato della distribuzio-
ne di antiche piante e animali. Nel suo
lavoro vi sono anche parti che si sono
poi dimostrate sbagliate, ma i punti
fondamentali delle sue argomentazio-
ni sono stati confermati. La sua teo-
ria non resta semplicemente quella di
un precursore dei concetti che oggi
prevalgono, ma è quella del suo auten-
tico progenitore.
W/egener presentò per la prima volta
le sue idee nell'ambiente scientifi-
co nel 1912, ma tali idee hanno rice-
vuto credito generale soltanto cinquan-
tanni dopo. Quando infine le sue ve-
dute sulla Terra sostituirono il model-
lo precedente, negli anni sessanta, il
cambiamento rappresentò una revisio-
ne radicale di una dottrina ben stabi-
lita, ed esso ebbe luogo soltanto per-
ché nuovi dati, derivati dalle scoperte
in geofisica e oceanografìa, lo rendeva-
no obbligatorio, Nel frattempo la teo-
ria di Wegener era stata quanto me-
no trascurata, e spesso era stata trat-
tata con noncuranza. Nel momento
peggiore i sostenitori della deriva dei
continenti venivano sprezzantemente
liquidati come maniaci. Per capire que-
sta reazione bisogna esaminare sia l'o-
pera di Wegener che l'atteggiamento
dei suoi contemporanei. Ricavò We-
gener le sue conclusioni da dati atten-
dibili e le sostenne con argomenti coe-
renti? Oppure si limitò a formulare
delle congetture e si trovò ad avere ra-
gione per caso? Se i suoi ragionamen-
ti erano plausibili, perché la sua opera
fu avversata con tanta persistenza e
determinazione? Mi proverò a rispon-
dere a queste domande e in più cerche-
rò di valutare che genere di uomo fos-
se Wegener e quale fosse ti suo valore
di scienziato,
Wegener non aveva credenziali co-
me geologo, Nato a Berlino nei 1880,
figlio di un ministro evangelico, stu-
diò alle Università di Heidelberg,
Innsbruck e Berlino e ottenne il dot-
torato in astronomia. Sua passione pre-
dominante fu però la meteorologia.
Tale sua passione fu ricompensata
quando egli fu selezionato come me-
teorologo per una spedizione dane-
se nella Groenlandia nord -orientale. Al
suo ritorno in Germania accettò un in-
carico in meteorologia all'Università
di Marburg ed entro pochi anni scrisse
un importante testo sulla termodinami-
ca dell'atmosfera. Nel 1912 partecipò
a una seconda spedizione in Groen-
landia, col danese IP. Koch. Questa
spedizione comprendeva la più lunga
traversata della calotta glaciale mai
intrapresa; le osservazioni glaciologi-
che e meteorologiche pubblicate riem-
piono molti volumi.
Nel 1913 Wegener sposò Else Kop-
pen, figlia del meteorologo Wladimir
Peter Koppen. Dopo la prima guerra
mondiale (in cui Wegener combatté
come ufficiale) sostituì il suocero alla
direzione del Dipartimento di ricerche
meteorologiche dell'Osserva torio mari-
no di Amburgo, Nel 1924 accettò una
cattedra di meteorologia e geofisica al-
l'Università di Graz in Austria, dove
trovò che i suoi colleghi mostravano
Un antico su percoliti riente avrebbe ri uni lo tutte le grandi masse dì terra emersa del
uh lini. L'illustratone al centro nella pagina a fianco illustra la ricostruzione di Wegener
di questo supercontìnente, che egli per primo chiamò Pangea. Una versione più recen*
te, illustrata in ba&so, differisce in alcuni dettagli nella posizione e nell'ori e otti mentii,
ma conserva le caratteristiche principali della proposta iniziale di Wegener. Ambedue le
carte si banano non sulle linee di costa dei continenti, ma sui bordi delle piattaforme
continentali. Per confronto in alto è riportata una carta del mondo come Appare oggi.
74
maggior simpatia per i suoi interessi
di ricerca di quanto non avessero fat-
to i suoi colleghi di Amburgo.
Wegener mori nel 1930 mentre gui-
dava una terza spedizione in Groen-
landia, probabilmente di un attacco
cardiaco causato da sovra ftalica mento,
I suoi necrologi elogiativi dicono che
egli aveva ottenuto una notevole consi-
derazione sia come meteorologo che
come esploratore artico; altre fonti
aggiungono che egli fu inoltre un or-
ganizzatore e amministratore capace e
un insegnante lucido e stimolante. La
sua opera sulla deriva dei continenti,
che sarà certamente la sua eredità per-
manente, era rimasta dì interesse mar-
ginale, sebbene l'avesse assorbito pro-
fondamente*
lYTon è certo come Wegener concepis-
se per la prima volta l'idea che i
continenti possono muoversi. Secon-
do un racconto di dubbia autenticità
ne ebbe l'ispirazione durante un viag-
gio in Groenlandia, mentre osservava
la fessurazione di un ghiacciaio (il pro-
cesso che dà origine agli iceberg). Dai
suoi scritti e da quelli dei suoi contem-
poranei, tuttavia, sembra più probabi-
le che egli sia giunto alla teoria nella
stessa maniera in cui vi erano giunti i
suoi predecessori: notando su una car-
ta geografica la complementarietà del-
le linee di costa dell'oceano Atlantico.
Secondo lo stesso Wegener l'idea gli
venne per la prima volta nel 1910, ma
un contemporaneo che lo aveva co-
nosciuto da studente sostiene che egli
si era interessato a questo argomen-
to fin dal 1903. Sia che questa idea
sia stata maturata per un decennio
o per soli due anni, essa fu presen-
tata pubblicamente per la prima volta
nel gennaio 1912 ìn una conferenza
alla Associazione geologica tedesca a
Francoforte sul Meno. Le prime re-
lazioni pubblicate comparvero più tar-
di, nello stesso anno, su due riviste
tedesche.
Nel 1912 le teorie prevalenti sulla
formazione e l'evoluzione della Terra
non potevano adattarsi alla deriva dei
continenti. I geologi e i geofilici cre-
devano allora che la Terra si fosse
formata allo stato fuso e che si stesse
ancora solidificando e commendo. Du-
rante questo processo gli elementi pe-
santi, quali il ferro, sarebbero spro-
fondati nel nucleo e i più leggeri, quali
il silicio e l'alluminio, sarebbero risa-
liti alla superfìcie pzr dar luogo a una
crosta rigida,
Alla maggior parte dei geologi del-
l'epoca sembrava che questo modello
riuscisse molto bene a spiegare i tratti
principali della superficie terrestre. Le
catene montuose erano prodotte per
compressione alla superficie durante la
contrazione, proprio come le rughe che
si formano sulla buccia di una meta
che si asciuga e si contrae. Su scala più
vasta la pressione causata dalla com-
pressione, applicata a grandi struttu-
re arcuate, causava il crollo e la sub-
sidenza di alcune regioni alla superfi-
cie, creando cosi i bacini oceanici, men-
tre altre zone seguitavano a emergere
come continenti. I movimenti vertica-
li della crosta venivano considerati in-
teramente plausibili, mentre venivano
esclusi i movimenti paralleli alla su-
perfìcie. Così i continenti e t bacini
oceanici erano, alla lunga, intercam-
biabili; alcune aree continentali spro-
fondavano più rapidamente delle terre
adiacenti e venivano inondate dal ma-
re; contemporaneamente alcune parti
del fondo oceanico si sollevavano fino
a diventare terre emerse.
La somiglianza o l'identità di nume-
rose piante e animali fossili su conti-
nenti lontani veniva spiegata ammet-
tendo resistenza di ponti di terraferma
che avevano collegato le masse conti-
nentali ed erano poi affondati fino al
livello del fondo oceanico. La stratifi-
cazione dei depositi sedimentari par-
lava di successive trasgressioni e regres-
sioni del mare sui continenti. Le re-
gressioni potevano venire attribuite al-
la subsidenza dei bacini oceanici e le
trasgressioni al parziale riempimento
dei bacini con sedimenti erosi dai con-
tinenti. Più o meno al tempo in cui
Wegener elaborava la sua teoria della
deriva dei continenti venne proposta
un'elaborazione del punto dì vista tra-
dizionale, secondo la quale i movimen-
ti verticali della crosta sono regolati
dalTisostasia: il concetto è che tut-
ti gli etementi del sistema sono in equi-
librio idrodinamico. Così i continenti,
essendo meno densi dello strato sotto-
stante, galleggiano più in alto dei fondi
oceanici.
W/cgener individuò un certo numero
dì difetti e contraddizioni nel mo-
dello della Terra che si contrae, Inol-
tre parecchie caratteristiche importan-
ti della superficie terrestre non veni-
vano affatto spiegate dal modello, a
meno che non venissero considerate
come prodotte da coincidenze. La più
ovvia di queste caratteristiche è ia cor-
rispondenza delle coste atlantiche del-
l'Africa e del Sudamerica. (Nel dise-
gnare questa corrispondenza Wegener
non adoperò la vera e propria linea dì
costa, ma il bordo della piattaforma
continentale, che è un limite più signifi-
cativo; nelle ricostruzioni moderne si
usa lo stesso metodo.) Un'altra anoma-
lia si ha nella distribuzione delie cate-
ne montuose, che sostanzialmente si
limitano a cinture strette e curvilinee,
mentre se si fossero prodotte per la
contrazione del globo dovrebbero es-
sere distribuite uniformemente su tutta
la sua superficie, proprio come le ru-
ghe su una mela secca.
Egli scopri un'altra caratteristica sin-
golare dall'analisi statistica della to-
pografìa terrestre. In base ai calcoli
dell'area totale della superficie terre-
stre, Wegener trovò che una gran-
de percentuale della crosta terrestre
è a due diversi livelli. Uno corri-
sponde alla superfìcie dei continen-
ti e l'altro al fondo dei mari (si ve-
dono le ìllusirazioni alle pagine 80
e 81), È logico aspettarsi una distri-
buzione simile se la crosta è compo-
sta di due strati, quello superiore di
rocce più leggere, quali i graniti, e
quello inferiore di basalto, gabbro o pe-
ndolile, che dovrebbero formare an-
che i fondi oceanici. Questa interpreta-
zione è rafforzata anche dalla misura
delle variazioni locali della gravità ter-
restre. Non è invece compatibile con
un modello della crosta in cui le varia-
zioni in elevazione derivano da solle-
vamenti e subsidenze casuali; in que-
sto caso ci sì dovrebbe aspettare una
gaussiana, cioè una distribuzione del-
le elevazioni a forma di campana cen-
trata su un singolo valor medio del li-
vello.
Wegener trovò sostegno per le sue
idee anche nei fossili e in certe carat-
teristiche -geologiche tipiche che sem-
bravano tagliare ì margini continenta-
li. Fra tutta la documentazione fossi-
le i rettili forniscono un ottimo esem-
pio. In Brasile e in Sudafrica, e in nes-
sun altro luogo al mondo, si trovano
dei fossili di Mesasaurus, un piccolo
rettile che visse verso la fine dell'era
paleozoica, circa 270 milioni di anni
fa (si veda / fossi! i e ia deriva dei con-
tinenti di A. Hallam, in « Le Scienze »,
n. 54, febbraio 1973)* Questa caratte-
ristica distribuzione veniva spiegata tra-
dizionalmente assumendo che un pon-
te dì terraferma aveva collegato i due
continenti ed era poi sprofondato. We-
gener rifiutò questa spiegazione su ba-
si geofisiche; essa violava infatti il prin-
cipio deirisostasia, poiché il materiale
del ponte doveva essere meno denso di
quello del fondo oceanico e quindi non
poteva affondarvi. L'unica alternativa
ragionevole era che i continenti un
tempo fossero stati uniti e si fossero
quindi allontanati.
L'evidenza geologica è di natura si-
mile. Per esempio sia in Africa che in
Sudamerica, si trovano grandi blocchi
di rocce particolarmente antiche; se si
riportano insieme i continenti nella po-
sizione giusta i blocchi coincidono per-
fettamente {si veda VUlustrazione nella
pagina 79), Lo stesso Wegener rico-
nobbe la portata della scoperta e co-
sì la descrisse: &È come se dovessi-
mo rimettere insieme i pezzi strappati
di un giornale in base ai loro contornì
e poi controllare se le righe dì stampa
dei pezzi vicini si collegano. Se è così
non resta che concludere che ì pezzi
erano effettivamente uniti in questo
modo. Se avessimo a disposizione sol-
tanto una riga per eseguire questo con-
trollo, avremmo ancora una buona
probabilità che la ricostruzione sia va-
lida, ma se si hanno n righe, questa
probabilità viene elevata alla potenza
/i-esìma ».
Dobbiamo ancora accennare ad altri
dati sperimentali su cui Wegener sì
basò. Alcune osservazioni geodetiche
eseguite agli inizi del secolo XX sem-
brarono indicare che la Groenlandia si
muoveva verso ovest, allontanandosi
dall'Europa a una velocità misurabile.
Tale movimento avrebbe potuto co-
stituire una convalida diretta delia de-
riva dei continenti, ma non è stato con-
fermato da misure recenti che im-
piegavano tecniche più accurate.
Allo scopo di risolvere queste con-
traddizioni Wegener formulò una teo-
ria generale sull'origine éz\ continenti.
Nella sua ricostruzione della storia ter-
restre tutte le terre emerse del glo-
bo erano unite in origine in un unico
supercontinente primordiale, che egli
chiamò Pangea (si veda l'illustrazione
a pagina 75), Pubblicò i suoi dati e te
sue conclusioni nel 1915, in un libro
intitolato Die Entstehung der Kon fi-
nente imd Ozeane (L'orìgine dei con-
tinenti e degli oceani).
Le basi geofìsiche della teoria dì
Wegener erano in stretto rapporto col
principio dell'isostasia, Ambedue assu-
mono infatti che il substrato sottostan-
te ai continenti si comporta come un
fluido altamente viscoso: Wegener inol-
tre suppose che se una massa rocciosa
sì può muovere verticalmente in questo
fluido, essa dovrebbe essere in grado
dì muoversi anche orizzontalmente, am-
mettendo soltanto che venga applica-
ta una forza abbastanza grande. A di-
mostrazione che tali forze esìstono egli
citò compressioni orizzontali degli stra-
ti piegati nelle catene montuose. C'è
un'altra prova elegante della natura
fluida del materiale sottostante: la Ter-
ra è una sfera schiacciata, che si gon-
fia leggermente all'equatore, e Tenti-
la del rigonfiamento è esattamente
quella che ci si aspetterebbe per una
sfera dì un fluido perfetto ruotante al-
la stessa velocità. Essa è quindi un
fluido dì natura particolare: a sforzi
rapidi, come quelli di un terremoto,
reagisce come un solido elastico, men-
tre le sue caratteristiche fluide si pos-
sono osservare sui perìodi molto più
lunghi del tempo geologico. Il suo com-
portamento è analogo a quello della
pece, un materiale che si spezza sotto
un colpo di martello, ma fluisce plasti-
camente per il suo stesso peso, e cioè
sotto la forza di gravità, più debole,
ma persistente-
Dopo la prima guerra mondiale We-
gener riunì i suoi due principali inte-
ressi studiando, insieme a Kòppen, i
Wegener sfidò la teoria della struttura terrestre sostenuta dalla maggioranza dei geologi
all'inizio del XX secolo. Secondo le vedute tradizionali ia) i continenti erano fissi al
loro posto e i movimenti laterali erano impossibili. In certe versioni della teoria i moli
verticali della erosta, come lo sprofondamento dei ponti dì terraferma, erano consentiti,
in altre venivano rifiutati in quanto cozzavano contro il principio deirisostasia, secondo
il quale i continenti galleggiano ìn equilibrio idrostatico su un substrato dì materiale più
denso. Secondo l'ipotesi di Wegener ibi i continenti migrano galleggiando sul substrato,
che si comporta come un fluido molto viscoso* Egli suggerì che essi vengono mossi da
forze connesse alia rotazione terrestre, ma quesf idea venne presto aspramente criticata e
abbandonata. Secondo la teoria moderna (ci, i conti ne nti vengono trasportati passi va*
mente come passeggeri su grandi zolle rigide. Le zolle vengono allontanate luna dal*
Taltra là dove sgorga nuovo materiale dal mantello che forma poi nuovo fondo oceanico-
76
77
cambiamenti nei clima mondiale attra-
verso i tempi geologici. Cartografando
la distribuzione di certe specie di roc-
ce sedimentarie, egli fu in grado di
ricavare la posizione dei poli e dell'e-
quatore nei tempi passati. I risultati
più impressionanti sono quelli che egli
ottenne per i periodi Permico e Carbo-
nìfero, circa 300 milioni di anni fa {si
veda IW usi razione a pagina 82). La
posizione del polo Sud veniva determi-
nata dalla disposizione dei letti di ar-
gille non stratificate, detti tiltiti, che
si sono formati durante il movimen-
to dei ghiacciai- Nella ricostruzione di
Wegener della Pangea il polo sud era
appena a est dell'attuale Sudafrica e al-
l'interno dell'antica Antartide.
A novanta gradi dal polo Wegener
trovò abbondanti prove di una zona
equatoriale umida. Queste prove con-
sistono in vasti depositi di carbone che
si estendono dalla parte orientale degli
Stati Uniti alla Cina; le piante fossili
che si possono identificare nei carbo-
ni sono di tipo tropicale. Altri indica-
tori climatici fra le rocce sedimentarie
sono il sale e le sabbie deposte dai ven-
ti, che suggeriscono la presenza di an-
tichi deserti. In passato come oggi i
deserti si formavano specialmente nel-
le zone dei venti costanti ai due lati
dell'equatore. Nell'attuale emisfero set-
tentrionale i carboni del periodo Car-
bonifero sono seguiti, ùi strati più re-
centi, da depositi di sale e dune sab-
La rottura del Pangea e la formazione dei continenti moderni
venne deseri ita da Wegener in due fasi t i continenti restavano
tulli vicini fino all'Eocene, circa cinquanta milioni di anni fa
(carta superiorel Ancora all'inizio dell'era quaternaria, circa
due milioni di anni fa, il Su da inerica e l'Antartide erano colle*
gali da un istmo (carta inferi ore. I ricercatori moderni hanno
riveduto notevolmente la sequenza temporale di Wegener. La
rottura in realtà ebbe inizio circa duecento milioni di anni fa.
bìose, che Wegener interpretò come
segno di una significativa migrazione a
sud della posizione dell'equatore. Que-
sto movimento fu confermato da un
corrispondente spostamento a sud-est
del centro principale dei depositi dì til-
liti f il che significa che anche il polo
si era spostato in quella direzione.
L'ultima edizione de L'origine dei
continenti e degli oceani dedicava un
capitolo agli antichi cluni e contene-
va una estesa discussione della deriva
polare. Il moto dei poli è un fenomeno
completamente diverso dalla deriva dei
continenti, ma è impossibile interpre-
tare coerentemente la distribuzione del-
le tilliti e dei depositi di carbone e dì
sabbia a meno che i continenti ven-
gano rimessi insieme più o meno co-
me aveva proposto Wegener,
L'ultima edizione contiene anche li-
na documentazione più completa, ri-
spetto alle edizioni precedenti, sulle
somiglianze nella geologia dei conti-
nenti meridionali, e ciò era dovuto a
un produttivo scambio di idee Fra We-
gener e il geologo sudafricano Alexan-
der L. du Toit. Gli argomenti geofili-
ci fondamentali, però, rimangono no-
tevolmente simili a quelli proposti da
Wegener nel suo primo lavoro, scritto
quasi venf anni prima.
T a reazione iniziale del mondo scien-
tifico all'ipotesi di Wegener non
fu uniformemente ostile, ma nel mi-
gliore dei casi fu mista. Alla sua prima
conferenza a Francoforte sui Meno al-
cuni geologi furono indignati: a Mar-
burgo pochi giorni dopo, sembra che
invece l'auditorio fosse più favorevole.
In seguito alle prime pubblicazioni pa-
recchi famosi geologi tedeschi dichia-
rarono la loro opposizione allo a spo-
stamento dei continenti » (traduzione
più accurata di « deriva » del termine
usato da Wegener, Verschiebung). Un
certo numero di geofìsici, d'altra par-
te, espressero la loro approvazione al
concetto, In effetti nel 3921 Wegener
poteva affermare dì non conoscere al-
cun geoftstco che si opponesse air ipo-
tesi della deriva.
Non sembra che le prime pubblica-
zioni, compresa la prima edizione de
L'origine dei continenti e de gii oceani,
siano state lette molto fuori della Ger-
mania: fu soltanto quando la terza edi-
zione, pubblicata nel 1922, fu tradot-
ta in diverse altre lingue, compreso
l'inglese, due anni dopo, che l'ipote-
si di Wegener trovò un uditorio inter-
nazionale. Come in Germania, la sua
opera ebbe inizialmente un'accoglienza
abbastanza buona o almeno non ven-
ne lasciata cadere completamente. Se-
condo Ì rendiconti pubblicati, a un con-
vegno della Associazione britannica
Particolari formazioni rocciose, che formano fasce contìnue dal Sudamerica all'Afri-
ca accostate, forniscono l'evidenza geologica che i continenti formavano un tempo
un'unica massa. Le zone in grigio scuro sono antichi blocchi (* fratoni 2>); le zone in
grigio chiaro sono aree con rocce un po' più giovani. Wegener considerò che delle con*
tinnita come queste sono delle buone prove della teoria della deriva dei continenti.
per l'avanzamento della scienza tenuto
nel 1922 T la discussione sulla deriva dei
continenti fu « viva, ma inconcluden-
te ». Come è facile aspettarsi, molti
erano scettici, ma l'accoglienza gene-
rale riservata alla teoria era favorevo-
le. Più o meno in quel momento pa-
recchi celebri geologi di ambedue le
sponde dell'Atlantico si dichiararono
favorevoli alla teoria.
L'antagonismo irragionevole e osti-
nato alle idee di Wegener, che doveva
diventare l'ortodossia della geofìsica
fino agli anni sessanta, iniziò a svi-
lupparsi verso la metà degli anni venti.
Due eventi provocarono questo inaspri-
mento delle resistenze: tino fu la pub-
blicazione dt un trattato intitolato La
Terra, di Harold JefFreys dell'Universi-
tà di Cambridge; e l'altro fu un sim-
posio dell' Associazione americana dei
geologi del petrolio, tenuto nel 1928,
JefTreys attaccò la teoria di Wegener
in quello che era forse il suo punto
più debole; la natura delle forze a cui
Wegener attribuiva il moto dei conti-
nenti, Wegener aveva scritto che la
deriva della Americhe verso ovest si
poteva spiegare come conseguenza del-
le maree nella crosta terrestre: egli
aveva chiamato Poifiucht, cioè «fuga
dai poli», la forza responsabile della
migrazione dell'India verso il nord e
nelle catene montuose alpina e hima-
layana. Jeffreys fu in grado di dimo-
strare mediante semplici calcoli che la
Terra è di gran lunga troppo resistente
perché tali forze possano deformarla
anche leggermente. Se così non fosse
le catene montuose crollerebbero sot-
to il loro stesso peso e il fondo ocea-
nico sarebbe perfettamente piatto, Se
le forze dt marea fossero abbastanza
intense da muovere i contenenti verso
ovest, esse sarebbero anche abbastanza
grandi da fermare la rotazione terre-
stre nel giro di un anno.
Queste obiezioni sono decisive, e il
meccanismo proposto da Wegener è
stato abbandonato da lungo tempo, (La
teoria moderna attribuisce il movimen-
to dell'espansione dai fondi oceanici
lungo un sistema di dorsali medio ocea-
niche, dove rocce fuse sgorgano dal-
l'interno della Terra.) Oggi tuttavia
ci rendiamo conto che Jeffreys non
aveva fatto altro che dimostrare Tina-
degù a te zza delle ipotetiche forze mo-
trici, senza rifiutare la teoria; ave-
va semplicemente ignorato la mag-
gior parte dei dati empirici che co-
stituivano la parte più sostanziale de-
gli argomenti di Wegener, Jeffreys ave*
va liquidato la deriva dei poli soste-
nendo che era geofìsìcamente impos-
sibile.
78
79
5
4
3
2
I 1
^ LIVELLO
O DEL
=! MARE
X
o -1
o
l
-2
-3
-4
-5
-6
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"V^i~ —
N ^ . — _ __
, ^^» wm . m *" "" , .
4 5 6
FREQUENZA (PER CENTO)
10
L'analisi statistica delle elevazioni della superficie terrestre fornì a Wegener un argo-
mento a sostegno della sua ipotesi. Se le car alter isti che topografiche $\ sono formate per
sollevamenti e subsidenze casuali, ri si aspetterebbe una distribuzione casuale (gaus-
siana) centrata sulla elevazione media latria in colore). Invece si hanno principalmente
due livelli preferenziali [curva in grigio h Uno, prossimo al livello dei mari* rappre-
senta l'elevazione media delle piattaforme continentali, l'altro quella dei fondi oceanici.
Fra i partecipanti al simposio del-
l'Associazione americana dei geologi
del petrolio, la maggioranza era ostile,
in vari gradi, alla teoria di Wegener;
solo uno era decisamente favorevole. I
rendiconti del simposio sono principal-
mente un coro di critiche, 1 relatori so-
stenevano che rappareme coinciden-
za dei profili dei continenti atlantici
era imprecisa e non teneva conto dei
movimenti verticali della crosta. Le
formazioni rocciose simili sulle due
sponde dell'oceano, dopo tutto, non
erano in stretti rapporti, e in ogni ca-
so le somiglianze attuali non implicava-
no necessariamente la contiguità nel
passato. Gli antichi animali potevano
essersi spostati attraverso ponti di ter-
raferma. Le tiliiti de! Carbonìfero e
del Permico del Sudafrica e di altre
zone probabilmente non erano glacia-
li e probabilmente i carboni dell'emi-
sfero settentrionale non erano tropi-
cali; i dati per il moto della Groenlan-
dia non erano decisivi.
Altri oratori pretesero che la teoria
risolvesse dei paradossi che essa ha
affrontato soltanto nelle sue versioni
più moderne, Essi chiedevano per esem-
pio perché, se il continente americano
si può muovere lateralmente spostan-
do i fondi oceanici, esso si è arriccia-
to sul bordo occidentale, formando k
catene montuose delie cordigliere. La
forza compressiva che aveva formato
queste montagne non suggeriva forse
una notevole resistenza da parte del
fondo oceanico, supposto fluido? E
ancora, perché il Pangea è rimasto in-
tatto per la maggior parte delia storia
della Terra, e poi si e frantumato im-
provvisamente nel giro di poche decine
di milioni di anni?
Infine, oltre a mettere in dubbio l'in-
terpretazione e le conclusioni di Wege-
ner, alcuni partecipanti al simposio at-
taccarono violentemente le sue creden-
ziali e ì suoi metodi. Si comportava
come un avvocato, sostenevano, che
sceglie fra i fatti da presentare solo
quelli che appoggiano la sua ipotesi.
Egli « si prendeva delle libertà col no-
stro globo #» « faceva un gioco senza
regole restrittive, in cui non era trac-
ciato alcun codice di condotta».
Wegener non parti in battaglia per
difendere le sue teorie da queste criti-
che. Uomo ormai di mezza età, egli di-
sponeva di un tempo limitato per la
ricerca e non sì senti in grado di te-
ner testa alla crescente ondata di pub-
blicazioni; si contentò di lasciare il
campo a ricercatori più giovani.
rjopo la morte éi Wegener i geologi e
i geofisici divennero ancora più
ostili alla sua ricostruzione della sto-
ria della Terra. Negli Stati Uniti la rea-
zione fu particolarmente violenta; per
un geologo americano esprimere sim-
patia per l'idea della deriva dei conti-
nenti significava giocarsi la carriera.
Per ironia della sorte, non appena
fu emesso il verdetto di condanna, la
teoria fu notevolmente rafforzata dai
contributi di du Toit e di Arthur Hol-
mes, dell'Università di Edimburgo. Es-
si eliminarono alcuni degli argomenti
più deboli di Wegener, misero insieme
altri dati a sostegno della teoria ed ela-
borarono un meccanismo più plausi-
bile per il movimento. Holmes suggerì
che i continenti sono mossi dalle cor-
renti convettive net mantello terrestre.
La sua ipotesi non era completamente
soddisfacente, ma superava con suc-
cesso le critiche di JerTreys e dei suoi
seguaci. Inoltre anticipava la spiega-
zione moderna dei perché i continenlì
si muovono.
A posteriori, sapendo quanti aspetti
della teoria di Wegener sono stati con-
fermati negli ultimi ventanni, siamo in
grado di apprezzare immediatamente i
suoi risultati- Egli esaminava critica-
mente un modello della Terra accet-
tato quasi universalmente. Quando vi
scoprì delle debolezze e delle incoeren-
ze ebbe tanto coraggio e spirito d'indi-
pendenza da abbracciare un'alternativa
radicale. Inoltre le sue conoscenze era-
no così vaste da permettergli di anda-
re in cerca e di valutare criticamente
nuovi dati di numerose discipline. Egli
applicò le stesse qualità mentali alla
spiegazione degli antichi climi e della
deriva dei poli.
11 rigore intellettuale che Wegener
portò nella sua opera è illustrato dai
suoi stessi scritti e testimoniato dal-
le parole di coloro che lo conobbero be-
ne. In una lettera a Koppen scritta nel
1911 Wegener difendeva i suoi punti
di vista sulla deriva dei continenti; Ja
lettera è riprodotta nella biografìa di
Wegener scritta dalla sua vedova.
« Lei considera il continente primor-
diale come un prodotto della mia fan-
tasia, ma è solo un problema di inter-
pretazione dei dati. Io sono giunto a
questa idea in base al fatto che ìe li-
nee di costa combaciano, ma le prò
ve devono venire da osservazioni geo-
logiche. Esse ci obbligano ad ammet-
tere, per esempio, un legame di terre
emerse fra il Sudarnerica e l'Africa.
Questo si può spiegare in due modi:
lo sprofondamento di un continente,
che li collegava, o la separazione. In
precedenza, per il principio di perma-
nenza, non dimostrato, è stato consi-
derato soltanto iì primo, e la seconda
possibilità è stata ignorata; ma la mo-
derna teorìa deìTisostasia e, più in ge-
nerale, le nostre idee geofìsiche corren-
ti, si oppongono allo sprofondamento
di un continente, perché esso è più
leggero del materiale su cui poggia.
Perciò siamo obbligati a considerare
l'interpretazione alternativa, E se ora
troviamo molte semplificazioni sorpren-
denti, e se cominciamo almeno a dare
un senso reale a un'intera messe di dati
geologici, cosa dovremmo aspettare
per gettar via i vecchi concetti? Forse
ciò è rivoluzionario? Non credo che
le vecchie idee abbiano più di un de-
cennio dì vita. Attualmente la nozione
di isostasia non è ancora stata elabo-
rata completamente; quando lo sarà,
le contraddizioni implicite nel vecchio
modello appariranno in piena luce».
Ciò, evidentemente, sembrava molto
ovvio a Wegener, ma è chiaro che egli
sottovalutava la tenacia di chi restava
ancorato ai vecchi concetti.
Il successo di Wegener nel costruire
una teorìa sistematica della storia del-
la Terra partendo da osservazioni spar-
se e apparentemente non collegate po-
trebbe essere attribuito alla larghez-
za nel modo di affrontare il problema,
e forse anche al fatto che egli non
era uno specialista. Si può avere un
chiarimento sul suo metodo neiraffron-
tare i problemi scientifici leggendo un
necrologio scritto da Hans Benndorf,
professore dì fisica e collega di Wege-
ner a Graz. « Wegener acquisiva le sue
conoscenze principalmente in un modo
intuitivo, mai, o assai di rado, dedu-
cendole da formule e in questo caso es-
se dovevano essere molto semplici. Se
poi aveva a che fare con problemi ri-
guardanti la fìsica, cioè un campo lon-
tano da quello di cui era esperto, rima-
nevo spesso sbalordito dalla precisione
dei suoi giudizi. Con che facilità, con
quale senso dei punti importanti egli si
districava attraverso i più complicati
lavori dei teorici! Spesso, dopo una
lunga pausa di riflessione, diceva: "Io
credo questo e questo*', e la maggior
parte delle volte aveva ragione, come
noi avremmo stabilito parecchi giorni
dopo, in seguito a un'analisi rigorosa.
Wegener possedeva un senso per le
cose significative che sbagliava di rado».
Le affermazioni di Benndorf sul me-
todo dì Wegener sono confermate dal-
le affermazioni di Wilhelm Max Wundt,
il quale conobbe Wegener quando era
studente a Berlino: <n Alfred Wege-
ner si preparava ad affrontare i suoi
problemi scientifici con delle capacità
normalissime in matematica, fisica e
nelle altre scienze naturali. Mai, in
tutta la sua vita, egli fu restio ad am-
mettere questo fatto. Tuttavia egli
aveva la capacità di applicare queste
doti con grande volontà e cosciente
determinazione. Aveva una straordi-
naria capacità di osservazione, una ca-
pacità di capire cosa è contemporanea-
mente semplice e importante e cosa
si può sperare che porti dei risultati.
Oltre a ciò possedeva una logica rigo-
rosa, che gli permetteva di mettere giu-
stamente insieme tutto ciò che riguar-
dava le sue idee ».
C e Wegener era realmente lo scienzia-
to abile e intelligente descritto dai
suoi contemporanei e se le sue conclu-
sioni erano ben radicate m fatti e ra-
gionamenti, nasce un problema imme-
diato; perché l'opposizione alle sue
idee fu così forte, vasta e persistente?
Una spiegazione possibile è che la
2
Q
NT
5
UJ
9
8
7
6
5
4 n
3
2
1
-1
^--..^PIATTAFORMA CONTINENTALE
LIVELLO DEL MARE
-2
^v ELEVAZIONE MEDIA DELLA SUPERFICIE TERRESTRE (—2 44 CHILOMETRI)
-3
-4
^""""--------__£IATTAFORMA OCEANICA
-5
-6
-7
-8
-9
10
-11
-12
l ■
1 ( L
250
500 750
AREA {MILIONI DI CHILOMETRI QUADRATI)
1000
1250
La distribuzione delle elevazioni, se viene correlata all'area del-
la superfìcie terrestre* conferma che la crosta ha due livelli fon-
damentali. Circa 800 milioni dì chilometri quadrati, sui circa
1300 milioni della superfìcie terrestre, appartengono a piattafor-
me continentali o piattaforme oceaniche* Questa distribuzione
è in accordo col modello fornito dalla teoria di Wegener,
80
81
teoria di Wegener era « prematura »
per i tempi in cui egli la presentò. Gun-
ther S. Stenl, dell'Università di Berke-
ley» in California, sostiene che un'idea
va considerata prematura se non può
essere collegata da una serie dì passi
semplici e logici alla conoscenza cano-
nica, cioè generalmente accettata, di
quel tempo. Un principio simile, espres-
so da Michael Polanyi, uno studioso
inglese di filosofìa e sociologia della
scienza, sostiene che nella scienza ci
dev'essere sempre un'opinione preva-
lente, sulla natura delle cose, alla qua-
le va confrontata la validità di tutte
le asserzioni. Ogni osservazione che
sembra contraddire il punto di vista
ben stabilito sulle cose va preliminar-
mente giudicata non valida e accanto-
nata, nella speranza che in seguito es-
sa si riveli falsa o irrilevante. Questa
interpretazione di come procede la
scienza suggerisce che i geologi e i
geofilici dovevano venire sommersi dai
dati, come avvenne negli anni sessanta,
prima che si decìdessero ad abbando-
nare la dottrina ben stabilita dei con-
O GHIACCI OSALE
• CARBONE A GESSO
■ ARENARIA DESERTICA
La deriva dei poli venne proposta da Wegener per spiegare la
distribuzione degli antichi climi. Certi tipi dì carbone sono una
prova di clima tropicale; le tilliti, che segnalano le glaciazioni
di clima polare e i depositi di sale, di gesso e le arenarie deser*
ti eh e sono una prova di clima arido, I simboli usali per la carta
vengono spiegati nella legenda a sinistra; inoltre le zone aride,
caratteristiche delle latitudini con venti costanti^ sono rappreseli*
tate in grigio. La carta superiore mostra la ricostruzione di We-
gener per il Carbonifero, circa 300 milioni di anni fa; la carta
inferiore è per il periodo Permico, circa 230 milioni di anni fa,
(La distorsione dell'equatore è provocata daH tipo di proiezione
geografica impiegata.) I movimenti dei continenti e dei poli
non sono correlati, ma una rico struscione coerente si può fa-
re solo rimettendo insieme i continenti come fece Wegener.
82
tinentì stazionari. Le innovazioni di
Wegener, proprio perché erano inno-
vatrici, dovevano essere ibernate finché
da esse non potesse sorgere una nuova
ortodossia-
Quasi certamente c'è del vero in
questa interpretazione, e bisogna con-
vincersi che il rifiuto dell'opera di We-
gener era una circostanza necessaria
al progresso ordinato della scienza; cio-
nonostante questa analisi non è del
tutto convincente. Potrebbe spiegare
l'indifferenza alla teoria della deriva
dei continenti, ma non l'atteggiamento
di tanti scienziati che la relegarono nel
regno della fantasia* E non spiega nep-
pure perché il modello tradizionale del-
la Terra venne conservato anche dopo
che Wegener ebbe dimostrato che vi
erano delle contraddizioni, nonostan-
te queste contraddizioni non venissero
mai risolte. I paleontologi continuaro-
no a basarsi su misteriosi ponti di ter-
raferma, per esempio, mentre contem-
poraneamente i geofisici, che avevano
adottato ìl principio dell'isostasia, in-
sistevano che lo sprofondamento di tali
ponti era impossibile. È stato sugge-
rito che l'ostacolo principale che im-
pediva che la deriva dei continenti ve-
nisse accettata era la mancanza dì una
forza motrice plausibile, dopo che Jef-
freys aveva rifiutato quella proposta
inizialmente da Wegener. Eppure, se
è così, perché la teorìa di Holmes del-
le correnti convettive ricevette così po-
ca considerazione? Del resto la natu-
ra del meccanismo che sposta i conti-
nenti rimane incerta ancora oggi, ep-
pure la tettonica a zolle si è così bene
affermata che coloro che ne rifiutano
i principi fondamentali vengono dì so-
lito trattati da reazionari.
Forse la lunga gestazione della teo-
ria di Wegener può venire spiegata me-
glio come una conseguenza dell'iner-
zia. Al simposio del 1928 dell'Associa-
zione americana dei geologi del petro-
lio sembra che un geologo abbia det-
to: «Se dobbiamo credere all'ipotesi
dì Wegener, dobbiamo dimenticare tut-
to quello che abbiamo imparato negli
ultimi 70 anni e ricominciare tutto da
capo ». Bisogna ancora ricordare che
per i geologi Wegener era un outsider;
essi devono averlo considerato un di-
lettante Oggi, ovviamente, et rendia-
mo conto che la sua posizione era per
lui un vantaggio, dato che non aveva
niente da guadagnare a conservare il
punto di vista tradizionale. Inoltre ci
rendiamo conto che in fondo egli non
era affatto un dilettante, ma un ricer-
catore interdisciplinare di grande ta-
lento e immaginazione, che si è certa-
mente meritato un posto nel pantheon
dei grandi scienziati.
> di Cwduo di «uri
fondtto ™ii i*»
Fondi putrirti * ri*.r» L. It3.490.924 640
TUTTE LE OPERAZIONI
E I SERVIZI DI BANCA
Credito Agrario
Credito Fondiario
Credito Industriale
e all'Artigianato
Monte di Credito su Pegno
Servizi di Ricevitorie
Esattorie e Tesorerie
• Direzione Generale in Napoli
« Rappresentanza della Direzione Generale
in Roma
• Delegazione del Servizio Estero
in Roma
• Oltre 500 Filiali in Italia
• Filiali all'estero: Buenos Aires -New York
• Rappresentanze aJT estero;
Bruxelles * Buenos Aires - Francoforte s/M
Lond ra • New York - Parigi ■ Zurigo
• Rappresentanza per la Bulgaria:
VITOCHA. Sofia
• Ufficio Cambio permanente
a bordo della mvn «Augustus»
CORRISPONDENTI IN TUTTO IL MONDO
83
I coproliti dell'uomo
Sono state rinvenute feci fossili umane che risalgono a un periodo che
va da poche centinaia di anni a oltre 300 000 anni fa. La loro analisi
ci fornisce preziose informazioni su dieta, ambiente e abitudini
dì Valigiai M. Bryant jr* e Glenna Williams-Dean
I reperti fossili umani sano pochi e
di scarso rilievo, ma costituiscono
una fonte di informazione sul com-
portamento che è negata a coloro che
studiano, per esempio, i fossili dei di-
. n osa uri. Laddove le condizioni sono
favorevoli alla conservazione di mate-
riale organico gli archeologi spesso por-
tano alla luce, negli insediamenti prei-
storici o nelle loro vicinanze, feci uma-
ne fossilizzate, l reperti di questo tipo,
chiamati dai paleontologi coproliti, non
sono infrequenti fra i resti di animali
più antichi dell'uomo; alcune rocce se-
dimentarie, in realtà, sono costituite
in larga misura da pallottoline fecali dì
animali marini. Questi antichi copro-
liti, tuttavia, sono diventati pietra, il
che rende praticamente imposssibiie
analizzarne l'originario contenuto or-
ganico. Invece, grazie alle tecniche
di laboratorio messe a punto negli ul-
timi dieci anni, è divenuto oggi pos-
sìbile effettuare comunemente un'ana-
lisi di questo tipo sui coproliti umani.
L'analisi dei coproliti che risalgono a
periodi che vanno dal paleolitico me-
dio alla tarda preistoria fornisce agli
studiosi informazioni notevolmente pre-
cise sulle diete e le attività stagionali
dei più antichi cacciatori e coltivatori
del nuovo e del vecchio mondo.
[1 ricercatore che effettua lo scavo
può non essere in grado di distinguere
tra i coproliti dell'uomo e quelli di
altri animali, ma l'analisi di laborato-
rio quale viene oggi praticata permet-
te quasi sempre una corretta identifi-
cazione. Il passo determinante del pro-
cedimento, introdotto negli anni ses-
santa dal compianto Eric O. Callen
del Mac don a Id College in Canada, è
rappresentato dalla immersione del
campione in una soluzione di fosfato
trisodieo. Nel Laboratorio di ricerche
antropologiche dell' Università A, & M-
del Texas, dove abbiamo compiuto la
maggior parte del nostro lavoro, noi
immergiamo il campione per almeno
72 ore, Se il campione proviene da
un mammifero onnivoro o carnivoro,
il liquido in genere rimane trasparente;
se si colora, assume una colorazione
marrone chiara. Se il campione deriva
da un mammifero erbivoro, il liquido
è trasparente e talvolta giallastro. Se
il campione è di origine umana, il li-
quido è opaco e assume un colore mar-
rone scuro o nero, A parte l'uomo, si
conosce solo un mammifero, il coati
delia famiglia dei procionidi, le cui feci
danno luogo a una reazione chimica
del genere.
Se i risultati della reazione non so-
no conclusivi, i passaggi successivi eli-
minano quasi ogni dubbio. Il campio-
ne viene passato attraverso un setac-
cio che lascia filtrare tutte le particelle
di diametro inferiore a 850 micron e
poi attraverso un setaccio più fine che
lascia passare particelle di diametro
inferiore a 150 micron. In tutte e due
queste fasi il materiale che residua
viene lavato delicatamente con acqua
distillata in modo che possano passare
attraverso il vaglio anche quelle pic-
cole particelle, come granuli di pol-
line, che aderiscono ai detriti più gros-
si. I residui che rimangono su entram-
bi i setacci vengono asciugati e prepa-
rati per Tesarne microscopico. La fra-
zione liquida viene centrifugata per
raccogliere granuli di polline, cristalli
vegetali e qualsiasi altra particella essa
contenga.
Poiché la dieta umana è tipicamente
costituita sia da materiale vegetale sia
da materiale animale e poiché gli stes-
seri umani da almeno mezzo milione
di anni hanno imparato a cuocersi il
cibo, i residui solidi ottenuti compren-
dono materiali di origine molto va-
ria. Insieme con pezzi di carbone do-
vuti al processo di cottura possono
esservi fibre vegetali, semi rotti o ma-
cinati, peli e frammenti d'osso, gusci
di noce o d'uovo, conchiglie di mollu-
schi, penne e rivestimenti cintinosi di
insetti. Alcuni di questi materiali pos-
sono essere presenti anche in coproliti
non umani, ma quando se ne trova una
grande varietà il campione è quasi cer-
tamente umano. Inoltre, se si consi-
dera il contenuto in polline del cam-
pione, la possibilità di confusione fra
fonte umana e non umana può essere
ulteriormente ridotta.
In linea di principio è possibile rac-
cogliere, da tali materiali, informazio-
ni non solo sulle preferenze alimentari
di particolari gruppi o individui, ma
anche sullo stato di salute deirindivi-
duo (presenza o assenza di parassiti),
sulle tecniche di preparazione del ci-
bo, sulle stagioni dell'anno in cui il
sito era abitato e sulle condizioni am-
bientali dell'epoca a cui il campione ri-
sale. In pratica la maggior parte del-
le informazioni concerne le preferen-
ze alimentari e le attività stagionali.
Per esempio, l'analisi del polline rive-
la che circa 2800 anni orsono gli india-
ni del Texas sudoccidentale raccoglie-
vano e consumavano Ì fiori di nume-
rose piante di zone desertiche e semi-
desertiche. Più difficile da stabilire è
se tali piante venivano succhiate o
masticate per estrarne il nettare, o se
ne facevano infusi, o se le mangiava-
no in insalata; forse venivano consu-
mate in tutti questi diversi modi.
I semi hanno un guscio duro che re-
siste alla digestione. Un guscio, o an-
che un semplice frammento di guscio,
ha in genere una forma o un tipo di
superfìcie caratteristica che permette dì
identificare la famiglia di piante, e in
alcuni casi anche il genere o la specie
da cui proviene. Un esempio di anali-
si di frammenti di semi che ha gettato
luce sulle antiche tecniche di prepara-
86
I granuli di palline di mesquite (Prosopis, a sinistrai e ili fico
d'India (a destra) sono esempi di polline trasportato da infetti
trovato in antichi e op rotiti. In queste microfotografie elettroniche
i pollini risultano ingranditi rispettivamente 3100 e 1350 volte*
Entrambi i granuli sono moderni; essi provengono dalla e olle -
Eione di campioni dell'autore che serve da materiale di confronto.
I pollini trasportati dal vento sono qui rappresentati da una
tetra de di granuli dì polline di Typha (a sinistra) e da un gra-
nulo di sorgo (a destra). Essi sono ingranditi rispettivamente
4500 e di 2250 volte. Questo tipo di polline viene diffuso dal
vento in determinate stagioni e chiunque prepari del cibo o
beva acqua in quei periodi ha molla probabilità di ingerirne.
87
Le scaglie di pesce, tome quelle dei rettili, attraversano il canale ali*
nientare inalterate. Questa scaglia di pesce sole, caratterizzata da un
disegno ad anelli concentrici, e ingrandita 175 volle. Anche le penne
non sono modificate dal processo digestivo; spesso la trama
delle barbe identifica la specie di uccello a cui appartiene.
Questo esemplare è una penna dì pollo ingrandita 550 volte.
Spesso è possibile identificare piccole ossa, se esse non so-
no troppo frammentate dalla masticazione. Questo osso di
roditore, ingrandito 45 volte, proviene da un riparo di roc*
eia del Texas. I peli degli animali, come le scaglie e le penne resisto»
no alla digestione. Nella mi ero foto grafi a è visibile un disegno a scaglie
ebe e caratteristico dei ruminanti. L'esemplare è ingrandito 1100 volte.
/ione del cibo è rappresentato dallo
studio di Catlen sui coproliti di Te-
li uacàn, un sito messicano che abbrac-
cia circa 12000 anni di preistoria del
nuovo mondo Alcuni dei frammenti
dì guscio di miglio raccolti da Caìlen
rivelavano segni di frammentazione, il
che ha dimostrato che erano stati trat-
tati mediante schiacciamento. Altri
frammenti, invece, risultarono divisi,
segno che i semi non erano stati schiac-
ciati bensì strofinati in su e in giù su
un metate di pietra.
Anche noi abbiamo ottenuto interes-
santi informazioni sulle tecniche di pre-
parazione del cibo da uno studio sui
coproliti provenienti da un riparo di
roccia del Texas sudoccidentale. Al-
cuni frammenti di guscio di semi di
cactus contenuti nei campioni di cin-
que degli otto strati del sito hanno
mostrato che i semi di cactus erano
stati trattati, prima di essere mangiati,
mediante schiacciamento o macinatu-
ra. 1 gusci di semi e dì altre piante, in
particolare quelli di miglio e cheno-
pod iacee, erano carbonizzati, segno che
non erano stati macinati, ma arrostiti.
Molti gusci di semi contenuti nei co-
proliti non sono rotti; quando un se-
me non è apprezzato dì per sé come
cibo, può essere tuttavia ingerito in-
sieme alla frutta. Come risultato è sta-
to possibile dimostrare che la dieta dei
cacciatori e coltivatori preistorici di
molti siti del nuovo mondo comprende-
va elementi come peperoncini rossi,
uva, pomodori, guava, more e meloni.
"Tn tipo più sottile di informazione
sulle abitudini alimentari, limitata
alle regioni in cui l'acqua del terreno
contiene molti minerali in soluzione,
è fornito dal titolilo, o cristallo del-
le piante. A differenza degli animali,
le piante non possono eliminare le so-
stanze inorganiche nei loro fluidi, Il
calcio e il silicio che vengono assun-
ti con l'acqua del terreno vengono de-
positati nei tessuti della pianta in for-
ma cristallina, per la maggior parte
sotto forma di sali di calcio e biossido
di silicio. La forma di un particolare
cristallo non è in genere associata con
una specie di pianta. Tuttavia, nell'e-
saminare i titoliti di piante della stes-
sa famiglia o genere che crescono nel
Texas sudoccidentale, noi abbiamo tro-
vato certi cristalli che hanno forme si-
mili. Per esempio, i cristalli di ossa-
lato di calcio che si osservano in quat-
tro specie di fico d'India {Opuntìa) so-
no all'apparenza molto simili. Vi è pe-
rò un fitolito specifico della specie. Si
tratta di un cristallo a forma romboi-
dale che si trova solo nel tessuto di una
specie di agave, V Agave teche guitta (si
veda tilt astrazione a pagina 92). L'i-
dentificazione di questi cristalli ci ha
consentito di dimostrare che un certo
numero d'individui tra gli indiani ar-
caici che successivamente visitarono il
riparo dì roccia nel Texas sudocciden-
tale avevano sicuramente mangiato fi-
chi dTndia e agavi, anche se i coproli-
ti in cui Ì cristalli erano stati trovati
non contenevano fibre, semi o polline
identificabili di tali piante.
Naturalmente si ottengono informa-
zioni sia da materiali animali sia da
materiali vegetali. Per esempio, in un
sito del Nevada, la grotta Lovelock,
Lewis K P Napton e O.A. Brunetti del-
l'Uni versiti di California a Berkeley
poterono identificare le varie specie dì
uccelli acquatici mangiati dagli occu-
panti per mezzo dì un'indagine sui
frammenti di penne trovati nei copro-
liti, Gli abitanti si erano nutriti di airo-
ni, svassi, gallinelle d'acqua e oche.
Nelle analisi da noi effettuate sul ma-
teriale proveniente dal riparo di roccia
del Texas, abbiamo identificato vari
restì animali, tra cui frammenti di ca-
vallette e altri insetti, spine e squame di
pesce e ossa di piccoli mammìferi e ret-
tili (si veda t'iti usi razione a pagina 93).
Quando la preda era voluminosa, per
esempio un cervo o un bisonte, la ma-
cellazione e la cottura riducevano al
minimo la possibilità di ingerire ossa o
frammenti di osso* Quasi inevitabil-
mente, tuttavia, alcuni peli rimanevano
attaccati alla carne e venivano inghiot-
titi. Abbiamo riconosciuto i peli di un
piccolo mammifero, il topo dei campì,
in alcuni coproliti del riparo di roc-
cia e abbiamo persino recuperato ma-
teriale animale apparentemente deterio-
rabile come le larve dì insetti,
C'è ancora un tipo di materiale ani-
male che percorre tutto il canale ali-
mentare rimanendo in larga misura
inalterato: le scaglie dei pesci e dei
rettili. Il separare le une dalle altre
non presenta grandi difficoltà* Le sca-
glie di pesce mostrano un disegno ad
anelli dì crescita concentrici e sono ge-
neralmente arrotondate. Le scaglie dei
rettili non hanno anelli di crescita e
sono spesso appuntite a un'estremità.
In circostanze ideali, e disponendo di
un'adeguata raccolta dì materiale di
riferimento che serve da confronto, è
possibile sapere qualcosa di più sul
reperto e non solo se sì tratta di un
pesce o di un rettile. Napton e un altro
collega di Berkeley, Robert F. Heizer,
sono stati capaci di identificare tre
diverse specie dì pesce di cui si nutri-
vano gli occupanti della grotta di Lo-
velock.
Occasionalmente, nel corso del rana-
lisi dei coproliti, si trovano prove di
infestazione parassitaria. Callen e T.
W. M. Cameron hanno dimostrato la
presenza di uova di tenia in campioni
risalenti a 3-5000 anni fa provenienti da
una grotta in Perù, Huaca Prieta, In
altri campioni contenuti in uno strato
di 10 000 anni fa della grotta Danger
nello Utah, Gary F. Fry della Young-
stown State University e Edwin En-
glert jr. dell'Università dello Utah han-
no trovato uova di un altro parassita
intestinale, Tacantocefalo. I coproliti
provenienti da Mesa Verde in Colora-
do contenvano uova di ossiuri. Per
quanto riguarda zecche, acari, pidoc-
chi e pulci che infestano il pelo del
corpo umano, le testimonianze etno-
grafiche riguardanti il comportamento
di spidocchiamento dell'uomo bastano
a rendere poco sorprendente il ritrova-
mento dei loro resti nei coproliti. Cal-
len ha identificato zecche in campioni
di uno strato di Tehuacan che risale a
circa 6000 anni fa. Campioni prove-
nienti da Mesa Verde e dalla Grotta
Salata del Kentucky contengono aca-
ri e quelli della grotta dello Utah con-
tengono pidocchi e lendini.
Soltanto negli ultimi decenni gli ar-
cheologi hanno cominciato a rendersi
conto dt quante informazioni si possa-
no ottenere dall'analisi del polline, Co-
me ben sanno i botanici, la membra-
na esterna o esina del granulo di pol-
line possiede una notevole stabilità chi-
mica, e pertanto i granuli di polline
interrati sono praticamente indistrut-
tibili. Inoltre la morfologia della mem-
brana è determinata geneticamente, sic-
ché la forma dì un granulo di polline
indica spesso da quale specie di piante
esso proviene, o almeno da che gene-
re o famiglia. A parte Tinformazione
che la comune analisi del polline può
fornire all'archeologo, i granuli dì pol-
line, casualmente o deliberatamente in-
geriti, attraversano il canale alimen-
tare senza essere praticamente alterati.
A 1 Posse rvaz ione al microscopio i gra-
nuli di polline possono fornire altret-
tante informazioni sulla dieta preisto-
rica quanto qualsiasi altro materiale
vegetale. La specie che il polline rap-
presenta può indicare la stagione del-
l'anno in cui un sito era occupato e
anche fornire un quadro generale del-
l'ambiente a quell'epoca.
Vediamo ora che cosa ci ha rivelato
88
l'identificazione di polline e di altro
materiale vegetale sulle attività degli
uomini che vìssero nei ripari di roc-
cia del Texas precedentemente men-
zionati I eoproliti trovati in questo
insediamento sono il risultato di un'oc-
cupazione umana intermittente che co-
prì un periodo di 1300 anni, da circa il
500 a,C air 800 d.C Dai vari strati di
occupazione sono stati recuperati in
totale 43 campioni: tutti tranne nove
contenevano polline. Uno dei primi
compiti 1i chi analizza il polline consi-
ste nel separare i granuli in tre classi:
quelli che sono trasportati dal vento,
quelli che sono trasportati dagli ani-
mali (prevalentemente insetti) e quelli
che provengono da piante che si auto-
impollinano. (Alcune piante acquati-
che liberano il loro polline sott'acqua,
ma questi granuli in genere mancano
di guscio e raramente si conservano;
essi, quindi, non possono rientrare nel
quadro di questa ricerca).
I granuli di polline trasportati dal
vento vengono prodotti in grande quan-
tità. Per fare un esempio, si ritiene che
le foreste di abete della Svezia centra-
le e meridionale producano 75 000 ton-
nellate di polline all'anno. Un'antera di
una pianta di questo tipo può produrre
sino a 70 000 granuli di polline e ra-
ramente ne produce meno di IO 000.
Nelle piante che vengono impollinate
dagli insetti la produzione è inferiore,
ed è di circa 1000 granuli per antera:
POLLINE TRASPORTATI DAL VENTO
POLLINI TRASPORTATI DAGLI INSETTI
COMPOSITE
A SPINE BREVI
GRAMINACEE
GRUPPO CHENO-
PODIO-AMARANTO
CELT1S
QVERCUS
PtNUS
COMPOSITE A
SPINE LUNGHE
AGAVE
LEUCAENA
MESQUITE
CACTUS
(QPUNTtA TUNAì
MAMWLLARIA
SOTOL
YUCCA
STRATO 1
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STRATO A
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STRATO 7
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STRATO 8
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STRATO 12
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STRATO 17
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LIVELLO 3
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I principali pollini trovati in 34 dei coproliti portati alla luce
in un riparo di roccia del Texas sudo ce i denta le provenivano da
gruppi dì piante che producono polline che viene traspor-
ti
lato dal vento iti sinistra) e da otto gruppi di piante che pro-
ducono polline che viene trasportato dagli insetti (a destra*.
La presenza di grandi quantità di polline in parecchi campioni
indica che gli indiani arcaici che visitavano periodicamente il
É-ito ingerivano diverse specie di fiori succhiandole o mastican-
dole per estrarne il nettare, facendone infuso o mangiandole in
insalata. Soltanto in un campione un tipo di polline trasportato
dal vento era presente insieme alla rispettiva pianta che era usa-
ta come cibo; l'ingestione di questi pollini era spesso casuale.
90
91
[ semi rinvenuti nei roproliti possono far identificare la pianta
fin mi provengono. Questo seme di quìnoa è ingrandito 70 volte.
Le fibre costituiscono un'altra classe di materiale vegetale molto
%nifieativa. Questa è una fibra di cotone, ingrandita &000 volte.
\nrhe gli storni Milla superficie delle foglie rendono possibile
ridenti firazìone. Questa foglia di agave è ingrandita 80fì volte.
Nella fotografia è ingrandito 3IKI0 volte un cristallo di forma rom-
boidale che si forma solamente nei tessuti d'Agave lecheguilla.
nelle piante che si autoimpollinano può
essere di meno di 100 granuli per
antera.
I sei principali pollini trasportati dal
vento che si sono trovati nei campio-
ni dei ripari di roccia del Texas ap-
partenevano a tre generi e a tre più
ampi gruppi di piante; la morfologia de-
gli ultimi tre tipi di polline non ha
permesso l'identificazione della specie
o del genere che lì aveva prodotti, A
seconda della stagione, una « pioggia »
più o meno regolare dei sei tipi di pol-
line cadeva sul posto. Alcuni granuli
furono probabilmente ingeriti perché
erano caduti su sostanze alimentari; al-
tri forse si accumularono nell'acqua da
bere o anche furono inalati e poi in-
ghiottiti,
I tre generi di piante identificate
come fonti del polline sono Celtis.
Quercus e Pinus. Sia le specie C\ 1 ae vi-
ga ta e C, re titillata sia la Q. punge ns
crescono ancora nelle terre alluvionali
relativamente ben irrigate vicine al-
l' insedia mento. I più vicini pini cono-
sciuti, tuttavia, sono gruppi di Pinus
cembroides a circa 80 miglia a est,
Le piante di due su tre dei gruppi
meno ben definiti che contribuirono al-
la pioggia di polline comprendevano al-
cuni membri della grande famiglia del-
le composite e membri della altrettan-
to grande famiglia delle graminacee.
Il terzo gruppo è costituito da una co-
stellazione di piante ben note ai bota-
nici negli Stati Uniti sudoccidentali. Ta-
le gruppo viene chiamato «Cheno-Am j>
perché ì nomi ufficiali dei suoi due prin-
cipali costituenti sono le chenopodiacee
e il genere Amaranthus. I pollini pro-
dotti dalle molte specie dei due grup-
pi di piante sono quasi impossibili da
riconoscere l'uno dall'altro. Lo stesso
si può dire per le molte specie di com-
posite, se si eccettua il fatto che la
membrana esterna (esina) dei granuli
di polline di composite trasportati dal
vento ha spine corte mentre Tesina
dei pollini trasportati dagli animali ha
spine lunghe.
Nei coprol iti dei ripari di roccia la
quantità di polline trasportato dal ven-
to andava da zero sino al 48 per cento
del totale. Tranne un caso, non ci so-
no prove che pollini trasportati dal
vento fossero ingeriti in relazione alla
dieta- L'eccezione è rappresentata dal
campione che conteneva polline tra-
sportato dal vento nella misura del 48
per cento. Il polline faceva parte del
gruppo «Cheno-Am», e nel campione
erano presenti anche molti semi di che-
nopodio. Questa pianta ha un lungo
periodo di fioritura e perciò il polline
degli ultimi fiori poteva facilmente me-
scolarsi con i primi semi che giungeva-
no a maturazione quando questi ultimi
STRATO 1
STRATO 3
OSSA DI
PELI DI
MAMMIFERO MAMMIFERO RETTILE
J_J_
OSSA DI
_L_L
SQUAME DI SPINE Df
RETTILE PESCE
GUSCI DI
CHITINA Dì
LUMACA ;AVALLETT^
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STRATO 4 1
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STRATO 7 ■
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STRATO 1/ | 1 [ | | || | j | ■ | | | || | | | || )1
LIVELLO 3
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SÌ HI 2 6 ' 50 PER CENTO
venivano raccolti a scopo alimentare.
I/analisi dei pollini trasportati dal
vento al riparo di roccia costituisce il
fondamento di un'ipotesi sulle condi-
zioni ambientali locali nel periodo che
va dal 500 a.C a circa l'SGG ±C. Un
certo quantitativo di tutti e sei i pollini
trasportati dal vento è stato trovato,
almeno in tracce, in uno o più cam-
pioni di tutti e otto gli strati del sito.
Sebbene oggi il pino non sia presente
nelle vicinanze del sito, è chiaro che.
fatta questa eccezione, le piante di oggi
sono le stesse del passato. Il polline in
questione non ci dice nulla, tuttavia,
sul numero relativo di piante dì cia-
scun tipo durante tale intervallo di
1300 anni. È anche possìbile che i pi-
ni non crescessero vicino al riparo di
roccia e che il polline dì pino ivi tro-
vato fosse sospinto dal vento da pine*
te lontane.
|\cì coprolìti del riparo di roccia sono
rappresentati anche otto generi o
gruppi maggiori di piante che produ-
cono polline trasportato da insetti. Tra
Questi vi erano alcune composite carat-
terizzate da granuli di polline a spine
lunghe, ma nell'insieme la flora era ti-
pica degli ambienti aridi o semiaridi.
Una specie riconoscibile era l'agave
del deserto. Agave lecheguitla. Gli altri
I resti animali nei roproliti provenienti dal
riparo di roccia del Texas non sono molto
abbondanti Questo fatto» tuttavia, più die
riflettere una carenza di proteine animali
nella dieta degli indiani arcaici, è da at<
tribnlraJ probabilmente alla più efficace di-
gestione della carne. Dal punto dì vista
quantitativo l'animale più diffuso nei re-
perti è la cavalletta; ma venivano anche
mandati piccoli roditori, lucertole e pesci.
sei pollini definiscono solo i generi:
Lettcaena. Prosopis (mesquite), O pan-
na (fico d'India), Mammillaria. Dasy-
lirion (sotol), e un genere molto appa-
riscente della famiglia delle liliacee,
la yucca.
I fiori dell'agave, del sotol e della
yucca venivano succhiati o mastica-
ti per estrarne il nettare, o se ne face-
vano in Fusi o venivano mangiati in in-
salata.
In genere un campione o più campio-
ni, provenienti dai sette strati superiori
lenticolari del riparo di roccia conte-
nevano, per lo meno in tracce, polline
di agave; nello strato I la percentuale
di polline di agave in un campione rag-
giungeva 1*81 per cento (si veda la fi-
gura alle pagine 90 e 91). 11 polline di
sotol è stato trovato in almeno un cam-
pione di tutti gli strati meno due, Nel
deposito più antico del sito la percen-
tuale di polline di sotol in due cam-
pioni superava il 90 per cento. Cinque
degli otto strati hanno dato campioni
che contenevano polline di yucca; negli
strati 3 e 8 la percentuale superava
P80 per cento, e nello strato 4* in quat-
tro dei sei campioni, era superiore al
90 per cento.
I fiori di cactus, a quanto pare,
erano meno popolari. Il polline dei fio-
ri di Mammillaria è stato trovato solo
92
93
in campioni provenienti da tre strati
Lo strato 3 conteneva la concentrazio-
ne massima: il 57 per cento, I fiori dì
fico d*India erano un po' più conside-
rati: solo lo strato 1 era completamen-
te privo del loro polline. Ciò nonostan-
te, soltanto lo strato 4 (con un conte-
nuto del 71 per cento nei campioni) e
il deposito più antico (con un conte-
nuto del 20 per cento) mostrano i se-
gni di un consumo significativo dì que-
sto fiore. Quando si consideri che le
due varietà di cactus crescono in habi-
tat simili e fioriscono nella stessa sta-
gione» è strano rilevare che solo quat-
tro campioni contenevano entrambi i
tipi di polline in tracce o più. Le scar-
se testimonianze di un consumo simul-
taneo dei due fiori possono essere
espressione di una qualche sconosciuta
preferenza alimentare o possono esse-
re semplicemente legate al limitato nu-
mero di coprali ti di cui disponiamo.
Oltre ai semi di chenopodio associa-
ti con il polline di tipo «Cheno-Am»,
la collezione conteneva molto altro ma-
teriale vegetale macroscopico. Gli abi-
tanti del riparo di roccia non mangia-
vano solo i fiori, ma anche le foglie di
molte piante monocotiledoni, come la
yucca, il sotol e l'agave. Essi mangia-
vano anche i fiori dì Leucaena e di
mesquite (Prosopts), Come uno di noi
ben sa per esperienza personale (Bryant)
i fiori di mesquite sono molto amari se
lì si mangia crudi. Forse i fiori veniva-
no bollili per farne infuso o li si la-
sciava fermentare per renderli più gu-
stosi. In alcuni campioni è stata tro-
vata corteccia d'albero in quantità
considerevole; quale trattamento potes-
se rendere accettabile la corteccia co-
me alimento non sappiamo. Forse se
ne faceva un uso medicinale.
La quantità di proteine animali in-
gerite dagli abitanti del riparo, se si
eccettuano quelle contenute nelle ca-
vallette, era forse piuttosto limitata (si
veda la figura a pagina 93), Tra i mate-
riali d'origine animale identificati nel-
la nostra analisi vi sono ossa di pe-
sciolini d'acqua dolce» scaglie di pic-
coli renili (probabilmente lucertole) e
conchiglie di lumaca.
Le testimonianze fornite dal materia-
le vegetale sulle stagioni in cui il ri-
paro fu abitato comprendono alcune
strato i
STRATO 3
FIBRE DI
OPUNT1A
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SEMI
INTERI
SEMI
SPEZZATI
CIPOLLA
SEMI DI
CHENO-
PODI ACEE
FIBRE DI
MONOCOTI-
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IDENTIFICATE
CORTECCJA
CRISTALLI
DI PIANTE
CRISTALLI
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STRATO 4
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STRATO 17
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LIVELLO 3
E
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,_ | TRACCE
|25 PER CENTO MENO
■ 26-50 PER CENTO
H 51-75 PER CENTO
1 76-95 PER CENTO
|PIU' DEL 95 PER CENTO
Gli altri materiali vegetali, a parte i pollini, trovati nei coproliti del riparo di roccia,
indicano il costante ricorso al fico d'India come alimento. Alcuni semi della pianta sono
stali trovati intatti, il che fa ritenere che il frutto della pianta venisse ingerito intero.
Altri erano schiacciali e carbonizzati» segno che gli indiani arcaici li avevano prima
macinali e poi cotti. Alcune delle piante elencate nella tabella non sono identificabili
dalle loro fibre, mentre le fibre di altri esemplari sono chiaramente provenienti da
piante monocotiledoni, A questa categoria appartengono la yucca, il sotol e l'agave.
variabili. Nello strato I, vicino alla su-
perfìcie, lo scarso numero di coproliti
fece sorgere in un primo momento dei
dubbi sull'attendibilità del campione.
Tuttavia, la presenza di polline di aga-
ve nella misura delTSl per cento in
uno dei campioni, e dì polline di Leu-
caena nella misura dei 66 per cento
nell'altro, fa pensare che il riparo fos-
se occupato nella tarda primavera e
nella prima estate. Tali piante fiorisco-
no in questo periodo dell'anno. Un'in-
dicazione analoga è Fornita anche dalla
quantità di polline di cactus e di yucca
e di bulbi di cipolla selvatica nei due
campioni, Il contenuto in polline tra-
sportato dal vento conferma anch'es-
so questa ipotesi: sia il Ceins t sia il
pino sono piante il cui polline si forma
m primavera.
L'ipotesi di un'occupazione limitata
alla tarda primavera e alla prima esta-
te sembra valida anche per tutti gli al-
tri strati dell'insediamento a eccezione
di due. Lo strato 8 conteneva solo
due campioni; poiché in uno di essi
mancava qualsiasi materiale vegetale,
il giudizio sulla stagione dell'occupa-
zione è risultato impossibile. Nello stra-
to 12 pur essendo assai scarsi i dati re-
lativi ad altre varietà di polline, a par-
te quello trasportato dal vento, il ri-
manente materiale vegetale contenuto
nel campione, come fibre di cactus e
fibre di yucca, potrebbe essere stato
raccolto e mangiato in qualsiasi pe-
riodo dell'anno. Poiché i frutti di cac-
tus maturano nella tarda estate e poi-
ché i semi di fico d'India sono presen-
ti in vari campioni dello strato 12, si
può ragionevolmente presumere che
nel periodo in cui il deposito si formò
il sito era occupato nella media e tar-
da estate. Nel complesso le testimonian-
ze fornite dai coproliti sembrano indi-
care che il riparo di roccia del Texas
veniva visitato ogni anno durante i me-
si più caldi da una popolazione noma-
de di cacciatori e raccoglitori primitivi.
[ più antichi coproliti trovati nel ri-
paro risalgono a meno di 3000 anni
fa. Che cosa potrebbero dirci dei cani-
pioni più antichi? Callen, prima di mo-
rire prematuramente, esaminò quattro
campioni presumibilmente umani pro-
venienti dell sito neanderthaliano di La-
zaret in Francia. 11 contesto della sco-
perta dei campioni di Lazaret fa ritene-
re che essi risalgano a 50 000-70 000 an-
ni or sono. Nel l'immergere i campio-
ni Callen rilevò che nessuno di essi
colorava la soluzione. In due egli potè
identificare Frammenti d'osso, peli e
pezzi dì carbone. Questa prova dell'uso
del fuoco nella preparazione della car-
ne lo convinse che almeno due di tali
campioni erano con molta probabilità
di origine umana, Egli non trovò in
nessun campione materiale vegetale.
Recentemente, nel nostro laborato-
rio, abbiamo cominciato a lavorare su
un vasto campionario di materiale mol-
lo più antico; si tratta di circa 500 co-
proliti presumibilmente umani prove-
nienti da un sito della Francia medi-
terranea, Terra Amata. I campioni ci
sono stati forniti dallo studioso Hen-
ry de Lumley {si veda l'articolo Un
accampamento paleolìtico a Nizza, dì
Henry de Lumley, in «Le Scienze», n.
13, settembre 1969). Se si eccettuano
ì coproliti, nessun resto umano è sta-
lo trovato in tale insediamento, ma gli
strumenti litici ivi raccolti rivelano che
gli occupanti di tale campo sul mare
erano probabilmente rappresentanti del-
YHomo erectus, il precursore deiruomo
moderno. De Lumley ritiene che gli
strati portati alla luce a Terra Amata
possano risalire a 300 000 anni fa. Men-
tre Callen aveva trovato che ì più re-
canti campioni di Neanderthal non rea-
givano in immersione, alcuni dei cam-
pioni di Terra Amata, nel nostro labo-
ratorio, hanno debolmente colorato la
soluzione.
Molto resta ancora da fare con i re-
perti di De Lumley, Tuttavia, un'ana-
lisi preliminare ha identificato granuli
di sabbia, che vengono quasi inevitabil-
mente ingeriti sulle spiagge, scaglie dì
carbone, che indicano l'uso del fuo-
co nella preparazione degli alimenti e
frammenti di conchiglie di molluschi
che mettono in evidenza una possibile
fonte di risorse alimentari per gli abi-
tanti. Finora non abbiamo trovato né
ossa né residui vegetali, sebbene altre
analisi condotte sui campioni dì Terra
Amata, intraprese anni fa nel laborato-
rio dell' Università di Aix-Marseìlle, ab-
biano dimostrato la presenza dì diver-
si pollini trasportati dal vento e di pol-
line della ginestra che è trasportato
dagli insetti.
Oggi viene sempre più largamente ri-
conosciuto quale contributo potenziale
offrano le analisi di questo tipo all'ar-
cheologo che voglia accertare le prefe-
renze alimentari in una varietà di con-
testi preistorici e che ricerchi un'indi-
cazione relativamente precisa sulla sta-
gione dell'anno in cui gli insediamen-
ti transitori erano occupati. Il nostro
laboratorio riceve oggi regolarmente
campioni da analizzare che sono sla-
ti scoperti dai ricercatori in tutte le
parti del mondo. Man mano che il la-
voro procede, potremo forse dare altre
indicazioni sul comportamento preisto-
rico dell'uomo altrettanto inaspettate
quanto la nostra scoperta che gli in-
diani arcaici del Texas sudoccidentale
erano, per lo meno in senso alimenta-
re, « figli dei fiori ».
STUDI BOMPIANI
Angelo Baracca
Silvio Beigia
La spirale
delle alte energie
Tra i frutti essenziali della re*
cente "rivoluzione culturale"
studentesca c'è la consapevo-
lezza della non neutralità della
scienza. In questo libro, tale
assunto si applica alla fisica e
al suo nucleo "fondamentale 1 ',
lo studio delle particelle, dove
il meccanismo di sviluppo por-
ta verso macchine sempre più
gigantesche, esperimenti co-
stosissimi, personale pletori-
co: verso "la spirale delle alte
energie 11 , tutta condizionata
dalla strumentazione e dai
rapporti produttivi ad esclu-
sione di ogni altra alternativa
possibile. Il testo, rigoroso ma
sempre comprensibile, esplora
la struttura della disciplina e
analizza minuziosamente i
meccanismi di sviluppo (e di
condizionamento e di potere)
che imprigionano la fisica delle
particelle. l 4 ooo
I problemi di
cui la cultura
tradizionale
non si occupa.
STUDI BOMPIANI
94
95
GIOCHI MATEMATICI
di Martin Gardner
Sui paradossi creati dalle relazioni non transitive
Quando di una relazione R possia-
mo dire che ogni volta che vale
tra x e v e tra v e z vale anche
tra x e z, cioè che da xRy e da yRz scen-
de xRz, allora definiamo transitiva la
relazione in questione. Per esempio la
relazione « minore di » è una relazione
transitiva sui numeri reali. Se 2 è mi-
nore di 7i e la radice quadrata di 3 è
minore di 2, allora la radice quadrata
di 3 è minore di n. Anche l'uguaglian-
za è una relazione transitiva: se a = b
e b = e, allora a = e. La vita quotidia-
na ci fornisce altri esempi di relazioni
transitive, come « prima di », « più
pesante di », « più alto di », « dentro a »
e molte altre.
È facile incontrare relazioni che non
sono transitive. Se A è il padre di B e
B è il padre di C, non accadrà mai che
A sia il padre di C. Se A ama B e B
ama C, non è detto che A ami C. I gio-
chi più familiari abbondano di regole
transitive (nel poker, se la combinazio-
ne del giocatore A vince quella di B e
la combinazione di B quella di C, allo-
ra la combinazione di A vince quella
C), tuttavia alcuni giochi possiedono
regole non transitive (o intransitive). Si
ORDINE Di PREFERENZA
1 2 3
Vz
p
'A
A
B
C
B
C
A
C
A
B
prenda come esempio quel gioco diffuso
tra i bambini in cui, dopo aver conta-
to fino a tre, si presenta all'avversario
la mano con le dita chiuse a pugno, per
indicare la « roccia », oppure la ma-
no con tutte le dita ripiegate tranne
indice e medio, per indicare le «for-
bici », oppure tutte le dita stese per
indicare la « carta ». Ora la roccia
rompe le forbici,
carta e la carta avvolge la
questo gioco la relazione
intransitiva.
Accade talvolta in matematica, in
modo particolare nella teoria delle pro-
babilità
avere a che fare con una relazione che,
contrariamente alle aspettative, non è
transitiva. Se
mente in contrasto con l'intuizione da
lasciarci perplessi, si verifica ciò che
chiamiamo un paradosso non tran-
sitivo.
Di questi il più antico e il più moto
è un paradosso connesso con la vota-
zione, conosciuto anche come parados-
so di Arrow dal nome di Kenneth J.
Arrow, dato il suo ruolo cruciale nel
« teorema di impossibilità » di Arrow,
D
E
F
A
8
1
6
HI
OC
Sb
o
co
3
5
7
C
4
9
2
11 paradosso della votazione*
Il paradosso del torneo basato
su un quadrato magico-
che valse a quest'ultimo il premio No-
bel per l'economia
opera Social Choice and Individuai
Values (1951), Arrow specificò cinque
condizioni che quasi tutti ammettono
debbano essere soddisfatte da una de-
mocrazia in cui le decisioni sociali so-
no basate su preferenze individuali
espresse col voto. Arrow dimostrò che
queste cinque condizioni sono logica-
mente contraddittorie. Non è possibile
concepire un sistema di voto che non
violi in cer
ste cinque condizioni fondamentali. In
conclusione, un sistema di voto perfet-
tamente democratico non è possibile
in linea di principio.
Secondo le parole di Paul A. Samuel-
son: «La ricerca di una democrazia
perfetta svolta dai grandi pensatori del-
la storia a noi nota si rivela ora come
la ricerca di una chimera, per una in-
trinseca contraddittorietà logica... A
questo punto, studiosi di tutto il mon-
do - matematici, politici, filosofi ed
economisti - stanno cercando di sal-
vare il salvabile dalla scoperta deva-
stante di Arrow, che nei confronti del-
la
teorema di incompletezza di Godei
del 1931 nei confronti della logica ma-
tematica.
Esaminiamo ora il paradosso della
votazione considerando innanzitutto un
difetto fondamentale
do attuale di elezione dei funzionari
pubblici, per il quale si verifica spesso
l'insediamento in una carica di un uo-
mo che è cordialmente odiato dalla
maggioranza dei votanti ma che pos-
siede una minoranza di seguaci entu-
siastici. Supponiamo che il 40 per cento
dei votanti siano seguaci entusiasti del
candidato A. L'opposizione si divide in
un 30 per cento di sostenitori di B e
30 per cento di sostenitori C. In que-
sta situazione viene eletto A anche se
il 60 per cento dei votanti sono con-
trari.
Si crede comunemente che per evi-
tare queste conseguenze della suddivi-
sione dei voti sia sufficiente permettere
ai votanti di ordinare secondo le prefe-
renze individuali l'insieme dei candi-
dati. Sfortunatamente anche in questo
caso si determinano decisioni irrazio-
nali. La matrice presentata nella figu-
ra in basso a sinistra mostra il noto
paradosso della votazione nella sua for-
ma più semplice. La riga superiore in-
dica che un terzo dei votanti preferisce,
nell'ordine, i candidati A, B e C. La
riga di mezzo indica che un altro ter-
zo li preferisce nell'ordine B, Ce A,
mentre l'ultimo terzo nell'ordine C, A
e B, come è indicato dall'ultima riga.
Esaminate ora con attenzione la matri-
ce e notate che, quando i candidati so-
no confrontati due a due, la non tran-
sitività fa nuovamente capolino. Due
terzi dei votanti preferisce A a B, due
terzi B a C e due terzi C ad A, Dunque
A vince se è confrontato con B, B vin-
ce se è confrontato con C, C vince se è
confrontato con A . Sostituite agli uomi-
ni delle proposte politiche e vedete co-
me è facile per il partito al potere ma-
nipolare una votazione scegliendo sem-
plicemente quale
in lizza debba essere messa ai voti per
prima.
Il paradosso è noto in Francia come
effetto Condorcet, dal nome del Mar-
chese di Condorcet che per primo lo
scoprì nel 1785. Lewis Carroll, autore
fra l'altro di alcuni pamphlet sul pro-
blema del voto, lo riscoprì. La maggior
parte dei primi sostenitori della rap-
presentanza proporzionale erano com-
pletamente ignari dell'esistenza di que-
sto tallone d'Achille; in realtà gli esper-
ti di scienze politiche non presero co-
scienza dell'esistenza del paradosso fi-
no alla metà degli anni quaranta quan-
do Duncan Blacl^ ^g^gjg^^-
lese, lo riscoprì in connessio.ge ;c .aJ sjjp
monumentale lavoro sui conjjj^^ta^i
di potere decisionale. Attualmente gli
esperti sono ben lontani dal poter stabi-
da Arroy Y^iKflftiUtelWtecisioni, di
miglior sistema di voto. Una sorpren-
dente soluzione raccomandata per si-
tuazioni di stiallfloriatra^tóivf^^-ttafti
teoria delle decisioni
gliere a caso un « dittatore » che le
solva. Qualcosa del genere si verifica
effettivamente in alcune democrazie,
per esempio in Inghilterra, dove un
monarca costituzionale (scelto a caso
nel senso che l'ereditarietà non garan-
tisce speciali disposizioni) ha la facoltà,
attentamente delimitata, di risolvere
certe situazioni senza sbocco che si
verificano in circostanze eccezionali.
Il paradosso del voto può aver luogo
in ogni situazione in cui si debba sce-
gliere tra due alternative, dove le al-
ternative variano su un insieme di tre
o più. Supponiamo che A, B e C siano
tre uomini che hanno chiesto contem-
poraneamente la mano di una ragazza.
Le righe della matrice del paradosso
del
strare come la ragazza classifichi ognu-
no degli uomini rispetto a ognuna delle
tre caratteristiche che, a suo parere,
sono le più importanti: l'intelligenza,
la bellezza fìsica e la ricchezza. Con-
frontandoli due a due la povera ragaz-
za scopre che preferisce A a B, B a
Ce C ad A. È facile vedere come pos-
sano sorgere conflitti analoghi quando
si tratti di scegliere un lavoro o di
coppia delle pr
que condizioni
ricei
è quella e
no essere usate p<
a— > a->c —> A
Gioco truccato basato su scommesse ricavato da un quadrato magico: A — » B — » C — * A.
96
97
stabilire dove passare una vacanza.
Una deliziosa interpretazione della
matrice è stata suggerita una volta da
Paul R. Halmos. Supponiamo che A.
B e C stiano rispettivamente per la tor-
ta di mele, la torta di mirtilli e la tor-
ta di ciliege. Un ristorante, per ogni
pasto, ne offre solo due. Le righe mo-
A— >B->C->A
La trottola non transitiva.
1
2
3
4
e
1
3
4
5
A — * B— > C— >D — » A
Carte per bingo non transitive.
2
4
5
6
D
1
5
2
6
X
TT
TC
CT
ce
TT
Vi
Va
V2
TC
V2
V2
Va
CT
^4
Vi
V2
ce
V2
Va
V2
Probabilità di vittoria di B«
strano come un avventore le classifichi
rispetto a queste tre caratteristiche:
gusto, freschezza e dimensioni della
porzione. È perfettamente logico dal
punto di vista dell'avventore, secondo
Halmos, preferire la torta di mele a
quella di mirtilli, la torta di mirtilli a
quella di ciliege, la torta di ciliege a
quella di mele.
Non vi è accordo fra gli esperti in
merito alla frequenza con cui si pre-
sentino ordinamenti non transitivi co-
me questi nella vita di tutti i giorni,
ma alcuni recenti studi di psicologia
e di economia indicano che sono più
comuni di quanto si potrebbe pensare.
Esistono perfino resoconti di esperimen-
ti condotti sui ratti secondo i quali,
sotto certe condizioni, le coppie di scel-
te compiute dai singoli ratti sarebbero
non transitive. (Si veda: Warren S. Mc-
Culloch, A Heterarchy of Values De-
termined by the Topology of Nervous
Nets, « Bulletin of Mathematical Bio-
physics», Volume 7, 1945, pag. 89-
-93.) Simili paradossi si verificano in
quei tornei di tennis a squadre in cui
ogni partecipante
incontra con ogni partecipante di ogni
altra squadra. Supponiamo che nove
tennisti siano classificati assegnando lo-
ro numeri dalPuno al nove, al migliore
il numero nove e al peggiore il nume-
ro uno. La matrice mostrata nella fi-
gura di destra di pagina 96 è il no-
to quadrato magico di ordine tre. Le
righe A, B e C indicano come i no-
ve giocatori siano divisi in tre squadre,
dove ogni riga rappresenta una squa-
dra. Supponiamo che nei tornei a squa-
dre, dove ogni membro di una squa-
dra gioca con ogni membro delle altre,
il giocatore più forte vinca sempre. Ri-
sulta che la squadra A batte la 5, la
B batte la C e la C batte Ja A, in ogni
caso per cinque game contro quattro.
È imposssibile dire quale squadra sia
la migliore. La stessa non transitività
si rileva nel caso in cui siano le colon-
ne D, E e F a costituire le squadre.
Leo Moser e J. W. Moon hanno
analizzato insieme molti di questi pa-
radossi, su alcuni dei quali sono fonda-
ti certi divertenti e poco noti giochi
basati su scommesse in cui le probabi-
lità di vittoria sono tutte dalla parte
di un giocatore, anche se ciò è tenuto
nascosto dalla struttura del gioco. Per
esempio, supponiamo che ogni riga
(oppure ogni colonna) di una matrice
quadrata costituita da un quadrato ma-
gico di ordine tre sia un insieme di car-
te da gioco, cioè sia A l'insieme costi-
tuito da asso, sei e otto di cuori, B da
tre, cinque e sette di picche, C da due,
quattro e nove di fiori (si veda la figu-
ra della pagina precedente). Ognuno
di questi insiemi di carte è disposto a
casaccio sul tavolo con il dorso verso
l'alto. L'avversario, ignaro del funzio
namento del gioco, viene invitato a ti-
rare una carta scegliendola da un in-
sieme qualsiasi, quindi tocca a voi pe-
scare una carta da un altro insieme. La
carta più alta dà la vittoria. È facile
dimostrare che, da qualunque insieme
di carte il vostro avversario peschi, po-
tete sempre scegliere un insieme che
vi dà la possibilità di vincere cinque
volte su quattro. L'insieme A batte
B, B batte C t C batte A. È possibile
anche lasciare alla vittima la scelta se
sia la carta più alta o quella più bassa
a vincere. Se giocate avendo convenu-
to che sia la carta più bassa a vincere,
è succiente che scegliate l'insieme vin-
cente considerando un ordinamento ci-
clico non transitivo dei tre insiemi che
giri nell'altro verso. È consigliabile gio-
care facendo uso di tre mazzi di carte
diversi, in cui i dorsi delle carte siano
differentemente colorati. Il mazzo di
nove carte che serve per il gioco viene
ogni volta mescolato e quindi suddivi-
so in tre insiemi, in base al colore del
dorso. Naturalmente il trucco che sta
alla base del gioco è nell'isomorfismo
tra questa situazione e quella che ge-
nera il paradosso del torneo di tennis.
Vi sono molti altri semplici giochi
basati su scommesse in cui prevale la
non transitività. (Si veda, in questa ru-
brica, nel fascicolo di settembre del
1971, la descrizione di un insieme di da-
di non transitivi.) In alcuni casi, come
in quello della trottola progettata da
Andrew Lenard (si veda la figura in al-
to a sinistra), la non transitività è facile
da comprendere. La parte inferiore
della trottola è fissa mentre il disco su-
periore può girare. Ognuno dei due
giocatori sceglie una freccia differen-
te, quindi si fa ruotare la trottola (in
una direzione qualsiasi) e la persona
la cui freccia indica il settore contras-
segnato dal numero più alto vince. Ab-
biamo allora che A batte B, B batte
C t C batte A, in ogni caso con una
probabilità di due a uno.
Nell'insieme di quattro carte da bin-
go progettato da Donald E. Knuth
(si veda la seconda figura a sinistra) la
non transitività è nascosta con intelli-
genza. Due giocatori scelgono ognuno
una carta da bingo. Si estraggono a ca-
so numeri compresi tra uno e sei sen-
za rimpiazzamento, come accade so-
litamente nel bingo. Se il numero
estratto compare su una carta lo si se-
gna con un fagiolo secco. Il primo gio-
catore che completa una riga orizzon-
tale vince. Naturalmente in questo ca-
so i numeri sono semplicemente dei
simboli, infatti è possibile rimpiazzarli
con un insieme qualsiasi di sei simbo-
li differenti. Lascio ai lettori la dimo-
strazione mediante il calcolo delle pro-
babilità del fatto che la carta A batte
la B, la B batte la C, la C batte la £>,
la D batte la A. Con tre giocatori il gio-
co è transitivo, ma le probabilità di vit-
toria delle quattro possibili triple ri-
servano una sorpresa.
Una delle situazioni non transitive
più assurde che si presentino nei gio-
chi d'azzardo è stata scoperta dal ma-
tematico Walter Penney (nome alquan-
to appropriato) ed è stata presentata co-
me problema nel « Journal of Recrea-
tional Mathematics » (ottobre, 1969,
pagina 241). Si tratta di una situazio-
ne paradossale poco nota e in genere i
matematici rimangono semplicemente
sbalorditi quando ne vengono a cono-
scenza. È certamente uno dei più raf-
finati giochi d'azzardo truccati. Si può
giocare utilizzando una moneta, una
roulette puntando
nero oppure qualsiasi metodo che ge-
neri due alternative equiprobabili. Sup-
poniamo di utilizzare una moneta e di
tirarla tre volte. d Yidpp ^U9dfiP s # ni
risultati equiprobabili: TTT, TTC, TCT,
TCC, CTT, CTC, CCT e CCC. Ognuno
dei due giocatori sceglie una tripla dif-
ferente, quindi si lancia la moneta fin-
ché non appare una delle triple scelte
stabilendo così la vittoria del giocato-
re corrispondente. Per esempio, se le
triple scelte sono TTC e CTC e il risul-
tato dei lanci è rappresentato dalla suc-
cessione CTTTC, allora sulla base de-
gli ultimi tre lanci si stabilisce la vit-
toria del giocatore che aveva scelto
TTC. In conclusione, la vittoria spetta
alla tripla che appare per prima tutta
di seguito.
A questo punto si sarebbe disposti
a credere che nessuna tripla ha maggio-
re probabilità di apparire prima di
un'altra, ma basta una breve riflessio-
ne per rendersi conto del fatto che ciò
non è vero nemmeno per le
Consideriamo le coppie TT, TC, CT e
CC. TT e TC hanno uguali probabilità
di presentarsi per prime perché, dopo
che è apparso per la prima volta 7\ es-
so può essere seguito con la stessa pro-
babilità da T come da C. Lo stesso ra-
gionamento dimostra che CC e CT so-
no equiprobabili. Per motivi di simme-
tria abbiamo che TT = CC e TC =
= CT. Tuttavia CT batte TT con proba-
bilità di tre a uno e TC batte CC con
uguali probabilità. Consideriamo TC e
CC. La coppia CC viene sempre prece-
duta da TC tranne quando CC appare
nei primi due lanci. Nel lungo periodo
ciò accade solo una volta su quattro,
quindi la probabilità che TC batta CC
è di 3/4. Nella figura in basso della pa-
\ A
B \
TTT
TTC
TCT
TCC
CTT
CTC
CCT
CCC
TTT
1/2
2/5
2/5
1/8
Vl2
3/10
1/2
TTC
Vi
2/3
2 /3
1/4
5/8
1/2
7 /io
TCT
3/5
1 /3
1/2
1/2
1/2
3/8
7 /l2
TCC
3/5
1 /3
1/2
1/2
1/2
3/4
%
CTT
7 /8
3/4
1 /2
1/2
1/2
1/3
3/5
CTC
7 /l2
3/8
'/2
1/2
1/2
1/3
3/5
solo
CCT
7 /io
1 /2
5 /8
1/4
2/3
2/3
1/2
CCC
1/2
3/10
5 /l2
1/8
2/5
2/5
1/2
sul ross
Probabilità di vittoria di B giocando con le triple.
gina a fronte sono confrontate a due
a due tutte le possibili coppie e in
ogni caso viene indicata la probabilità
di vittoria di 5, cioè del secondo gio-
catore.
Le triple presentano una situazione
ancora più sorprendente. Dato che non
ha importanza che lato della moneta
sia indicato come testa, sappiamo che
TTT = CCC, CCT = TTC, TCT =
= CTC e così via. Tuttavia, se esami-
niamo le probabilità per coppie diverse,
scopriamo che il gioco non è transitivo.
Infatti, per ogni scelta di una tripla da
parte del primo giocatore, il secondo
può sempre sceglierne una migliore. La
figura in alto di questa pagina forni-
sce, per ogni accoppiamento di triple,
la probabilità che 5, il secondo gioca-
tore, vinca A. Per individuare la mi-
gliore risposta di B in corrispondenza
a una tripla scelta da A, si determini
1000100 = 68
0000001
- 1
A = TTCTTTC
A = TTCTTTC
A m TTCTTTC
B * CTTCTTT
AA-AB : BB-BA
68-1 : 64-35
67 : 29
1000000 - 64
010001 1
- 35
B = CTTCTTT
B = CTTCTTT
B = CTTCTTT
A = TTCTTTC
f /algoritmo di John Horton Conway per calcolare le probabilità di vittoria
dello n-upla di B su quella di A.
98
99
la tripla di A prendendola nella prima
riga orizzontale in alto, quindi si scen-
da lungo la colonna corrispondente a
quella tripla finché non si incontri un
numero in
babilità, quindi ci si sposti orizzontal-
mente verso sinistra fino alla prima
colonna che riporta le triple preferi-
te da B.
Si noti che la probabilità di vittoria di
B è, al peggio, di 2/3 (ovvero di due a
uno) e può arrivare a 7/8 (ovvero a set-
te a uno). Il caso di probabilità sette
a uno è facile da capi-re. Si consideri-
no CTT e TTT, Se TTT compare in
una situazione che non sia l'inizio del
gioco, allora deve essersi presentato in
precedenza un C, il che vuol dire che
CTT è stato già ottenuto. Ciò significa
che TTT vince solo quando appare
nei primi tre lanci. Ovviamente ciò ac-
cade solo una volta su otto tiri-
Barry Wolk, dell'Università di Ma-
nitoba, ha scoperto una regola origina-
le per determinare la tripla migliore.
Sia A: la prima tripla scelta. Trasfor-
miamola in un numero binario mutan-
do T in e C in 1. Dividiamo il nume-
ro ottenuto per 2 e arrotondiamo il
quoziente al numero intero più vicino,
moltiplichiamo quindi per 5 e aggiun-
giamo 4. Esprimiamo il risultato otte-
nuto nel sistema binario e ritrasfor-
miamo le ultime tre cifre in T e in C.
La non transitività è conservata per
tutte le M-uple con n maggiore di 3.
Una tabella fornita da Wolk mostra
le probabilità di vittoria di B per ogni
possibile accoppiamento di quadruple
(si veda la figura di questa pagina)
Come nel caso delle due tabelle pre-
cedenti, e come accade anche jx^r
le M-uple di ordine più elevato, la ma-
trice è simmetrica rispetto al centro.
11 quadrante in alto a destra è quello
in basso a sinistra ribaltato e lo stesso
vale per quello in basso a destra e quel-
lo in alto a sinistra. Le probabilità del-
\ A
TTTT
TTTC
TTCT
TTCC
TCTT
TCTC
TCCT
TCCC
CTTT
CTTC
CTCT
CTCC
CCTT
CCTC
CCCT '
DCCC
TTTT
1/2
2/5
2/5
3/10
5/12
Vii
Vii
Vl6
3/8
3/8
3/8
1/4
3/8
7/22
1/2
TTTC
V2
2/3
2/3
1/2
5/8
V?
V7
1/8
9/16
9/16
9/16
5/12
9/16
1/2
15/22
TTCT
3/5
V3
1/2
3/5
5/7
1/2
1/2
5/12
5/12
9/i6
9/16
5/14
1/2
7/16
5/8
TTCC
3/5
1/3
1/2
3/7
5/9
2/3
2/3
5/12
5/12
9/16
9/16
1/2
9/14
7/12
3/4
TCTT
7/10
7/12
1/2
2/5
V?
1/2
1/2
1/2
7/12
7/12
5/14
1/2
7/>6
7/16
7/16
5/8
TCTC
3/8
2/7
4 /9
1/2
1/2
1/2
7/16
7/16
1/2
9/14
7/16
7/16
7/16
5/8
TCCT
7/11
7/11
3/7
1/2
1/3
1/2
1/2
1/2
1/2
1/2
9/16
5/12
7/12
7/12
7/16
5/8
TCCC
3/7
1/2
1/3
1/2
1/2
1/2
1/2
1/2
9/16
5/12
7/12
7/12
7/8
'5/16
CTTT
15/16
7/8
7/12
7/12
5/12
9/16
1/2
1/2
1/2
1/2
1/2
1/3
1/2
3/7
7/11
CTTC
5/8
7/16
7/12
7/12
5/12
9/16
1/2
1/2
1/2
1/2
1/2
1/3
1/2
3/7
7/11
CTCT
5/8
7/16
7/16
7/16
9/14
1/2
7/16
7/16
1/2
1/2
1/2
V9
2/7
3/8
7/12
CTCC
5/8
7/16
7/16
7/16
1/2
5/14
7/12
7/12
1/2
1/2
1/2
V?
2/5
1/2
7/10
CCTT
3/4
7/12
9/14
1/2
9/16
9/16
5/12
5/12
2/3
2/3
5/9
3/7
1/2
1/3
3/5
CCTC
5/8
7/16
1/2
5/14
9/16
9/16
5/12
5/12
1/2
1/2
5/7
3/5
1/2
1/3
3/5
CCCT
15/22
'/2
9/16
5/12
9/16
9/16
9/16
1/8
V7
V7
5/8
1/2
2/3
2/3
1/2
ecce
1/2
7/22
3/8
1/4
3/8
3/8
3/8
1/16
Vii
Vii
5/12
3/10
2/5
2/5
>/2
i
Probabilità di vittoria di B giocando con le quadruple.
100
la miglior risposta di B alla scelta di
.4 sono indicate da un numero in co-
lore.
Studiando queste figure Wolk ha sco-
SaJatf €^5ffrt nt àTiHn%lla ro sorprendente
quanto la non transitività che è con-
nessa ai cosiddetti tempi d'attesa. Il
tempo d'attesa per una certa
numero di lanci che in media occorre,
nel lungo periodo, perché si presenti la
rt-upla in questione. Col passare del
tempo nell'attesa dell'autobus diventa
più breve il tempo d'attesa previsto.
Tuttavia le monete non hanno memo-
ria, quindi il tempo d'attesa per una
tt-upla è indipendente dai lanci prece-
denti. 11 tempo d'attesa per T e C è 2.
Per quanto riguarda le coppie, il tem-
po d'attesa per TC e CT è 4 ed è 6 per
TT e CC. Per quanto riguarda le tri-
ple, il tempo d'attesa è 8 per TTC,
TCC. CTT, CCT\ 10 per TCT, CTC;
14 per TTT, CCC. Per ogni coppia
formata a partire da queste triple, le
probabilità di presentarsi per prima
delle triple costituenti
conflitto coi tempi d'attesa. Tuttavia,
nel caso delle quadruple, vi sono sei
coppie che danno origine a contraddi-
zioni. Per esempio, CTCT ha come
tempo d'attesa 20 e TCTT ha tempo
d'attesa 18, Tuttavia la probabilità che
CTCT si presenti prima di TCTT è
di 9/14, comunque superiore a 1/2.
In altre parole, un evento che nel lun-
go periodo è meno frequente, ha mag-
giore probabilità di presentarsi prima
di uno che è più frequente. In questo
caso non vi è alcuna contraddizione lo-
gica, tuttavia si mostra che il « tem-
po d'attesa medio » gode di particolari
proprietà.
Vi sono molti modi di calcolare le
probabilità che una H-upla ha di prece-
derne un'altra: si possono sommare se-
rie infinite, tracciare diagrammi ad al-
bero oppure utilizzare tecniche ricorsive
che producono insiemi di equazioni li-
neari e così via. Una delle tecniche più
strane ed efficienti è stata elaborata di
recente da John Horton Conway della
Università di Cambridge. Non ho idea
del motivo per cui funzioni: semplice-
mente fornisce il risultato giusto, in
modo quasi magico, cosa del resto co-
mune a molti altri algoritmi inventati
da Conway.
La chiave delia procedura di Conway
è il calcolo di quattro numeri binari
che egli chiama numeri guida. Suppo-
niamo che A sia la 7-upla TTCTTTC
e B la 7-upla CTTCTTT. Vogliamo va-
lutare la probabilità che ha B di pre-
cedere A. A questo scopo scriviamo A
sopra A, B sopra B, A sopra B e B so-
pra A (si veda la figura in basso di pagi-
na 99). Costruiamo ora, secondo le se-
guenti istruzioni, un numero binano
che disponiamo sopra la 7-upla superio-
re di ogni coppia. Consideriamo la pri-
ma coppia, A A. Guardiamo la prima
lettera della 7-upla superiore e chiedia-
moci se le sette lettere, iniziando dalla
prima, corrispondono esattamente alle
prime sette lettere della 7-upla infe-
riore. Ovviamente è così, quindi met-
tiamo un 1 sopra la prima lettera. Con-
sideriamo ora la seconda lettera della
7-upla superiore e chiediamoci se le
sei lettere rimanenti, iniziando da que-
sta, corrispondono alle prime sei let-
tere della 7-upla inferiore. Ovviamen-
te non è così, quindi poniamo sulla
seconda lettera. Le cinque lettere a par-
tire dalla terza lettera della 7-upla su-
periore corrispondono alle prime cin-
que della 7-upla inferiore? No, quin-
di poniamo anche sulla terza lettera la
cifra 0. Anche la quarta lettera è con-
trassegnata da 0. Giunti alla quinta let-
tera della 7-upla superiore, vediamo che
le lettere restanti,
alle prime tre della 7-upla inferiore,
quindi poniamo 1 sulla quinta lettera.
La sesta e la settima lettera sono con-
trassegnate da 0. 11 «numero guida
A A », o semplicemente A A, è 1000100.
In esso ogni 1 corrisponde a una ri-
sposta affermativa
tiva. Traducendo 1000100 nel sistema
decimale otteniamo 68 come numero
guida di AA.
La figura in basso della pagina pre-
cedente mostra il risultato di questa
procedura quando si calcolino i numeri
guida di AA, BB, AB, BA. Quando
una H-upla è confrontata con se stes-
sa, la prima cifra del numero guida
deve essere ovviamente 1, quando è
confrontata con un'altra H-upla può
essere 1 o 0.
La probabilità che ha B di precedere
A è data dal rapporto A A — AB: BB —
— BA, In questo caso abbiamo 68- — 1 :
64—35 = 67:29. Come esercizio il let-
tore può cercare di calcolare la proba-
bilità che ha CTT di precedere TTT,
1 quattro numeri guida sono AA=1,
BB=4, AB=0 e BA=1. Una volta in-
seriti questi numeri nella formula A A —
— AB.BB — BA, otteniamo una proba-
bilità di 7 — 0:4 — 3, ovvero di 7:1, co-
me previsto. L'algoritmo funziona al-
trettanto bene su n-uple di lunghezza
diversa fra loro. Se applichiamo la no-
stra formula, per esempio, ad A=TC
e a B = T, otteniamo 3—0:1—1 = 3:0,
ovvero una probabilità di 1, che T bat-
ta TC.
Concludo con un problema di David
L. Silverman, che è stato il primo a
presentare il paradosso di Penney nella
rubrica dedicata ai problemi che egli
cura per il « Journal of Recreational
Mathematics ». I lettori non dovrebbe-
ro faticare a trovare la soluzione va-
lendosi dell'algoritmo di Conway pri-
ma che sia pubblicata il mese prossi-
mo. CCTT e TTT hanno come tempo
d'attesa rispettivamente 16 e 14. Di
queste due n uple quale ha maggiore
probabilità di presentarsi per prima e
qual è il valore di questa probabilità?
TVel disegno rompicapo di Sam Loyd
presentato il mese scorso compariva
una torta quadrata di Washington da
dividersi in sei quadrati, non necessa-
riamente uguali. I 16 quadratini in cui
la torta era suddivisa traevano in in-
ganno dato che Tunica soluzione richie-
de una suddivisione in 9 quadrati, co-
me una scacchiera per il ticktacktoe.
Fatto ciò è facile dividere la torta in
un quadrato di 2 per 2 e in cinque
quadrati unitari.
TI problema della piramide magica del
dottor Matrix, presentato nell'arti-
colo di febbraio, ha affascinato molti
lettori. Hiram Fuller Gutgasz ha sot-
tolineato il fatto che la soluzione del
problema è unica in un senso ancora
più forte di quello che avevo supposto.
Infatti non è necessario restringere il
campo dei numeri assegnabili agli spi-
goli ai numeri positivi minori o ugua-
li a 10, dato che la soluzione è unica
per ogni insieme di otto numeri interi
positivi distinti. Due lettori, J. A. Mc-
Callum e Sheldon B. Akers, si sono en-
trambi domandati se fosse possibile
costruire una piramide magica sfrut-
tando otto numeri interi positivi conse-
cutivi. Entrambi sono giunti alla solu-
zione e hanno dimostrato la sua unici-
tà. I numeri sono 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 1 1
e la costante magica utilizzata 24.
[Vell'articolo di aprile sui numeri esa-
gonali e sui numeri stellari si chie-
deva se un numero esagonale poteva
essere un cubo. David Chess, Sin Hito-
tumatu e Wesley Johnston sono stati
i primi, tra molti lettori, a mostrare
come si potesse dare facilmente una ri-
sposta negativa a questo problema.
Come ho mostrato nell'articolo, ogni
numero esagonale può considerarsi co-
me la differenza di due cubi consecu-
tivi, quindi il problema si riduce a sta-
bilire se l'equazione (.x+l) 3 — * 3 =y 3
possiede una soluzione intera. Se ri-
scriviamo l'equazione ponendo * 3 +y 3 =
(.x+l) 3 , vediamo subito che si tratta di
un caso particolare dell'ultimo teore-
ma di Fermat. In questo caso, in cui
gli esponenti sono uguali a 3, è stato
dimostrato da molto tempo che non
esiste una soluzione intera dell'equa-
zione.
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